“Signore!
Signore!”
Le
palpebre tremarono per un istante, poi le ciglia si schiusero e uno scorcio di
castano scuro tornò a mostrarsi, svegliato dal richiamo di quella vocetta acuta.
“Guardi
che se dorme qui, si prenderà un’insolazione!”
Con una
certa, pigra fatica mise a fuoco il viso rotondo, curioso della bambina,
ripescando la realtà dietro a veli laceri e piogge di piume, centomila foglie
che cadevano senza un autunno, gli ultimi brandelli del sogno in cui si era
introdotto. La bambina. I suoi capelli chiari, le trecce accuratamente pettinate
da una mano adulta. I colori sgargianti, abbaglianti dei suoi vestiti, del suo
pupazzo, i rumori, il sole. Un attimo prima, era nel mondo piano, frammentato,
senza odore e respiro del sogno; e adesso, si ritrovava a sorridere il suo
sorriso vuoto ad una ragazzina. Un pezzo della realtà, del mondo normale, di
quelli che non sapevano niente di profezie e battaglie, ma ne avrebbero fatto le
spese. Pedine avvolte nell’ignoranza, ostacoli facili da abbattere sui quali non
valeva neanche la pena di posare lo sguardo. Tutti insieme, una massa inutile.
Ma quella
bambina non era la massa, era solo un frammento, un frammento di vita troppo
giovane per vedere altro che un normale ragazzo alto e robusto in lui. Una vita
al mondo da così poco tempo da essere ancora vicina al confine del nulla,
dell’inesistenza, ancora informe, in potenza, non stupidamente tronfia della sua
identità, delle passioni che gli uomini portano orgogliosi sempre in cima al
pensiero.
La cosa
gli piacque.
Niente
desideri, se non vaghi, primordiali istinti, una mente ancora libera dalla
consapevolezza, dall’esistenza della morte. Si era appena svegliato, eppure in
quella bambina gli parve di poter tornare a dormire.
Un sonno
senza sogni, questa volta.
-----
Le lunghe
mani eleganti avvolgono in un drappo bianco, senza troppa fretta, la spada. Il
metallo è freddo e pesa, le dita unte e scivolose di sangue tingono di nero la
stoffa, ma il giovane non sembra curarsene. Come non sembra curarsi della figura
che si contorce negli spasmi ai suoi piedi, pare nemmeno udire le disperate
grida di dolore di un uomo che muore. L’unica cosa che gli hanno detto di fare è
portare via quella spada: dunque, l’unica cosa di cui deve preoccuparsi è
avvolgerla nel drappo con cura.
“Papà?”
Fuori
dalla cella del tempio risuona una voce, venata d’angoscia. Sta arrivando
qualcuno. Nessuno stupore, i sopraccigli del giovane restano immobili, i suoi
occhi non vacillano: la sua mente artificiale –o forse il suo atavico istinto
umano- semplicemente sanno che è il momento di dileguarsi.
“Papà?!”
Il suo
cervello conosce la parola, il suo significato –ha dentro un vasto vocabolario,
ordinato, che conosce alla perfezione.
Lui forse
non può provare sentimenti. Ma la curiosità non è un sentimento. Il giovane si
gira a cercare la fonte di quella voce ansiosa.
E i suoi
occhi non vedono il ragazzo smarrito, ansimante che corre per la casa, nella
luce confusa delle fiaccole rituali. I suoi occhi si fissano solo sul fermo
immagine di quel volto, che improvvisamente, lentamente si indurisce, si fa più
adulto, i capelli più corti, lenti di occhiali sottili e in trasparenza gli
occhi disperati di un uomo…
Kazuki…
Un
grande, grande vetro, qualcosa che tira le braccia sempre più deboli… poi un
prato, i fiori, correre, il cuore batte un po’ forte, ma non importa… e poi di
nuovo il vetro, dietro, una donna prostrata, distrutta, che grida senza sosta,
ma non si sente il suono, e ancora gli occhi dell’uomo, in cui sembra affogare
tutto il dolore del mondo.
Non finirà così… Kazuki…
“Pa…
Papà…”
Non se ne
rende conto, ma le sue labbra pronunciano la stessa parola che l’ha fatto
voltare, che ripeteva il ragazzo dai capelli neri…
…il
ragazzo che, giorni e giorni dopo, accarezza la sua testa reclina e chiede
“Perché?”
“Perché
somigli… a mio padre.”
La mente
non si stanca. La sua mente non è mai stanca di scivolare senza peso nel
labirinto di cavi che connettono i più remoti angoli del mondo, nello spazio
privo di dimensioni in cui scorrono incessanti e indifferenziati i messaggi del
presidente degli Stati Uniti come la partita giocata in rete da un ragazzino
giapponese, le quotazioni di borsa come le ultime parole lasciate al mondo da un
suicida. La sua mente non si stanca ad estrarre, con una sensazione di immobile
trionfo, tutto quello che le serve da quel mare di zero e di uno che solo a lei
possono parlare; ma il suo corpo lontano forse desidera riposare, forse le sue
dita si sono intorpidite sulla tastiera. L’occhio scivola su un angolo del
visore, dove brillano, squadrate e taglienti, le cifre
17:00.
Ora
del tè.
La
giovane donna disconnette il pensiero e lo lascia lentamente ritrarsi, simile a
un’onda tiepida, dentro al suo corpo. E’ da un po’ che hanno preso questa
curiosa abitudine occidentale, loro due… Sorride appena mentre lo schermo del
visore si spegne in un minuscolo lampo bianco e l’elettricità comincia a
sciogliersi nelle sue vene man mano che i connettori si staccano dalla pelle.
Una carezza al suo fedele compagno fatto di diodi e circuiti, poi può sollevarsi
dal volto il visore, e chiudere, per un istante, gli occhi.
“Ora
del tè!”
Quella
voce…
Quella
voce profonda e armoniosa, l’accento di imperturbabile sorriso che vi vibra sul
fondo…
La
ragazza apre di scatto gli occhi, troppo, troppo velocemente, il battito del
cuore già sulle labbra… e appare la visione che le era già comparsa nel buio
caldo dietro le palpebre al solo sentire quella voce… un completo scuro
elegante, dal taglio vagamente militare, il nodo di seta della cravatta e uno
scintillio di metallo da qualche parte… una mano distrattamente nella tasca,
capelli sugli occhi, e quelle labbra increspate di un sorriso leggero e
sensuale… Tutto così limpido e preciso nella mente, ma stranamente fuori fuoco
alla vista…
Si
solleva una ciocca sudata dalla fronte, e finalmente infila gli occhiali.
Capelli
neri, non color del sole, occhi scuri, non dorati, occhi di ragazzo, e non di
uomo la guardano dal portellone della sala gelata. Una delle telecamere del
supercomputer, una di quelle che monitorano l’intero Palazzo, inquadra quel
volto, quel sorriso indifferente.
“Di
là ti stanno aspettando.”
Accanto
al volto impresso nei pixel e nei cristalli liquidi dello schermo compare la
scritta KAMUI, seguita da una
pioggia di cifre che ne registrano infallibilmente età, altezza, peso, data di
nascita, gruppo sanguigno… Dati inequivocabili, inconfondibili, chiari come la
differenza tra zero e uno, tra nulla e tutto.
Non ha
mai desiderato tanto di essere un computer.
L’estate
sta volgendo rapidamente all’autunno; e adesso che è notte, la gonna cortissima
e la giacca di pelle nera possono fare ben poco per difenderla dal freddo. Anche
se ha il sospetto che, ora, nemmeno avvolta in una pelliccia riuscirebbe a
scaldarsi. La sua pelle è sempre gelata, il suo viso perfetto sembra cesellato
nel glaciale candore della porcellana. Ma non le interessa. Si gira appena per
specchiarsi nelle finestre del grattacielo adiacente a quello sul cui tetto sta
seduta, e corregge col dito una minuscola sbavatura nel tocco di rossetto scuro.
Non che abbia qualche importanza. Sì, ha un appuntamento; ma mille miglia
lontano da un appuntamento d’amore, neanche sa chi ci sarà ad aspettarla.
Il suo
brevissimo scorcio d’estate si è già volto, inesorabile, all’autunno.
Si alza
in piedi, i lunghi, lucidissimi capelli neri, dal taglio non più molto ordinato,
ondeggiano nel vento forte; la sua esile figura si riflette nelle finestre a
specchio e, per un attimo, la giovane donna prova un senso come di straniamento
a vedersi fasciata in quei vestiti stretti, provocanti.
Scuote la
testa e decide che è ora di andare.
Conosce
perfettamente la geografia della città, anche se non sa dove e quando l’abbia
imparata. Comunque sia, sono inequivocabilmente quelle del Palazzo del Governo
le torri che si stagliano contro il cielo nero.
Dentro,
tutto è buio, nessuno la ferma, tutto è vuoto, come la sua mente. Il rumore
secco e lento dei suoi tacchi riecheggia nel lungo corridoio scarsamente
illuminato, fino a fermarsi di fronte ad un’immensa porta nera. La schiude. Una
debole lama di luce piove all’interno mentre lei si avvicina all’imponente trono
al centro della sala buia. E sprofondato nel seggio c’è qualcuno.
Il
giovane uomo dorme, i capelli scuri e disordinati si sollevano a stento sulle
ciglia al ritmo del respiro. La camicia bianca è appena sbottonata sul petto, la
cravatta allentata, la stoffa si tende sui muscoli e sulle braccia vigorose. Le
spalle larghe, una mano robusta abbandonata di lato, fasciata di bende, l’incavo
del collo… un viso addormentato… Poi gli occhi castani si aprono, ed è la
vertigine.
“Ehi…
mi hai quasi fatto spaventare!” Il ragazzo ride. Ride, ride, ride… il suono di
una risata che lei ha udito mille volte, frammenti sconnessi di alberi, profumo
di dolci nel forno, finestre spalancate al mattino, occhi scherzosi e una
carezza sul suo viso… lei crolla a terra, le mani serrate sulle orecchie per non
sentire, per non sentire la voce di quell’infinita risata, per fermare la
pioggia confusa di ricordi di cose che non sa, per cercare disperatamente quel
nome –quale nome?- che più chiama, più scivola giù nel baratro vuoto della sua
mente.
“Qualcosa
non va…bellezza?”
Il calore
di dita forti, piacevolmente possessive, le solleva il mento. E nel fuoco
indistinto delle labbra che si chiudono sulle sue, lei non riesce a capire la
cosa più semplice.
Che in
quella stanza manca qualcosa.
Che in
quella risata manca il sole.
Forse è
il dolore che le morde feroce la gamba, oppure le lacrime che sciolgono il mondo
intorno a lei in un fiume sfuocato di contorni liquefatti. O forse è colpa delle
ferite, della rabbia rossa e impotente che le offusca le percezioni, la fa
sentire come ebbra. Forse è colpa di tutto, o di niente, ma la ragazzina non
riesce a vedere altro che un sorriso davanti agli occhi. Eppure sa che quello
che ha di fronte è chi tra qualche minuto la ucciderà, che quel sorriso non è
che lo sprezzante sogghigno del piacere della distruzione… sa che quello è il
giovane uomo contro cui è andata a sbattere, per caso, nella folla, una sera di
primavera, quando la sua razionalità capiva, lucidamente capiva che quel bel
ragazzo non poteva neanche lontanamente somigliare a…
Ma adesso
esiste soltanto quel dolcissimo sorriso, il richiamo, il dolceamaro sapore di
qualcosa di così vicino, ma allo stesso tempo così lontano, irraggiungibile… La
ragazzina tenta, con tutte le sue forze tenta di dividere i due piani, di
sollevare la visione, ma i due volti, quello dell’amore e quello dell’odio,
tornano inevitabilmente a coincidere. Perché la verità è che è solo uno il
sorriso che in quel momento desidera disperatamente vedere; e nel suo desiderio
non può che annegare, annegare nel buio terribile e stanco di un’arrendevolezza
senza fine.
E poi lo
scatto secco, il rumore di un quadro che si spezza. Il ragazzo, lo sconosciuto,
il capo dei Draghi della Terra afferra il braccio di Kamui, con quello stesso
sorriso glielo torce dietro la schiena fino a strappargli un grido di dolore.
No…
No…
Lui non ha mai usato le sue braccia salde, le sue mani grandi e forti per
fare del male… La ragazzina rivede nitide e vicine le dita di lui
intrecciate col fragile stelo di un fiore, un fiore bianco che le aveva portato
una volta, la sua mano gentile che scivola ad accarezzare la corteccia
ruvida e viva di un albero, la sua stretta sicura e il tocco leggerissimo
che le asciuga le lacrime…
No.
Adesso
può cominciare a rialzarsi in piedi.
Ancora
una volta, è costretto a respirare l’odore della distruzione, quell’odore fatto
di violenza, cemento che si sgretola, del sentore ferroso e di quello spento
della polvere, e già l’odore del sangue. Quante volte l’ha avvertito nell’aria?
Ma questa è la sua volta. Lo sa, l’ha capito da quando gli è apparso
davanti lo spietato splendore di quel sorriso, quell’immagine che non riesce a
cancellare dagli occhi.
La realtà
gli sta davanti, in tutta la precisione della sagoma del grattacielo prossimo a
collassare, nel sapore acre del fumo in bocca, tagliente come il bordo delle sue
pergamene incantate, nei tratti implacabili del comandante dei nemici. Ma gli
occhi preferiscono rifugiarsi in tratti altrettanto crudeli, nella cascata
sfumata di fiori di ciliegio, nel loro profumo d’illusione, stordente e carnale,
nelle sbarre della sua prigione.
Lottare
non serve a niente, se non riesce a vedere il volto del suo nemico.
Chissà se
a lui capita mai? Ma no, forse un solo occhio non può confondere il
mondo, non può permettersi di sbagliare.
Come
vorrebbe non poter più sbagliare.
E invece
le dita intrecciate nella loro complessa postura tremano, antiche sillabe si
confondono sulle sue labbra che inciampano, perdono il filo, ricominciano da
capo, il pensiero occupato da quell’ossessiva allucinazione…
“Guarda
che se non ti concentri perdi la barriera… mio caro Subaru.”
Mio caro Subaru…
E’
finita. Tutto affoga nel sangue, nel dolore, nell’ubriachezza di non capire. La
mano affonda con ferocia nei suoi capelli, e tutto è finito.
“Pe-perché…
tu e Sei…shiro vi…”
“Perché
sei tu… che lo desideri.”
L’improvvisa, violenta luce della comprensione… e poi, il buio.
Gli altri
che ha incontrato non erano così. Si è già imbattuta in tante occasioni nei suoi
nemici. La prima volta, quegli uomini in completo scuro, simulacri di vita,
dietro gli occhiali neri nessuno sguardo e nessuna mente, solo un ordine a cui
obbedire. Poi, la bellezza sofisticata di un giovane uomo, il gioco sottile e
disincantato del suo pensiero, i suoi modi eleganti a contrasto con la smisurata
potenza che aveva scatenato come se combattere fosse un passatempo, un gioco con
in palio l’effimera unicità della vita. E infine quegli occhi di bambino che
che fino a poco fa le stavano accanto, quella mente così teneramente semplice da capire, la
tristezza senza fine di chi non sa neanche di possederla. Tutti diversi, ma in
tutti aveva potuto leggere, intuire la natura di un’anima dietro a tratti così
differenti, dissimili colori di capelli, iridi e vestiti.
Ma lui…
Lui non è
diverso né uguale.
Ricorda
di aver visto una sua foto in mano a Kamui, che l’aveva presa da quella casa
ormai vuota. Ricorda il viso chiaro e onesto, il sorriso appena accennato di
affetto accanto ai capelli biondi e ai tratti purissimi della sorella. Gli
stessi occhi, la stessa riservata dolcezza nello sguardo, la stessa uniforme del
primo giorno di scuola superiore.
Ma
adesso… sì, quei capelli, il colore di quelle iridi, la corporatura giovane e
solida… ma è come se fosse rimasto solo un involucro, un guanto svuotato di ogni
traccia d’identità. Il volto fluttua indistinto, inafferrabile ai suoi occhi,
tra morbidezza e violenza, incerto, sfuocato.
Improvviso sale alla mente della donna un ricordo, un frammento del suo viaggio
in Europa… un affresco irrimediabilmente danneggiato, arte sacra, il tepore
dell’aria in Italia, un Cenacolo e l’inglese un po’ viziato di una guida…
“…si
dice che Leonardo abbia rappresentato gli Apostoli con le fattezze, con volti
veri delle persone che incontrava, ma che abbia lasciato incompiuto il viso di
Cristo, perché non era possibile trovare nel mondo le sembianze di un essere
umano e divino allo stesso tempo, perché somigliasse a tutti e a
nessuno.”
Uno e
nessuno.
Nessuno…
e quell’uno, quegli occhiali, quei capelli che dovevano essere così
soffici al tatto, quel corpo solido e rassicurante, l’infinita, pacata dolcezza
di un sorriso…
Perché?
Perché
lui… è la persona più importante per te.
Ne hai
anche tu, no? …di grandi desideri. Desideri così intensi, da far passare in
secondo piano… il fatto che a causa di essi qualcuno potrebbe soffrire.
…allora
perché si perde di vista…la cosa più importante?
…quegli
occhiali, quei capelli che dovevano essere così soffici al tatto, quel corpo
solido e rassicurante, l’infinita, pacata dolcezza di un sorriso…
…un
sorriso che non ha il diritto di possedere.
Ed è
giusto così.
-----
Non
sapeva se fosse ancora notte, o già mattina, perché le persiane della sua camera
erano sempre chiuse. Non sapeva che giorno fosse, se ancora fuori dalla sua
finestra abitasse la primavera, l’odore dei fiori, e la timida presenza di una
ragazza che lo aspettava per andare a scuola. Forse invece era già inverno, e
già si disegnava, in quel cielo che non poteva vedere, l’alba del giorno finale,
ma non lo sapeva, no, era troppo stanco per sapere, per capire, per permettere
l’ingresso a un ennesimo sogno d’indovino.
Si voltò
nel suo letto, allentando di nuovo la benda che aveva sul braccio per vedere se
la ferita si fosse richiusa. La mente ottenebrata, gli occhi socchiusi, non
sapeva nemmeno quante altre volte fosse stato ferito, o se quella fosse la
prima, quanti dei suoi compagni dormissero ancora nelle stanze accanto alla sua,
o se se ne fossero già andati tutti, lasciandolo solo alla sua ultima battaglia.
In
quell’ora confusa della notte –o del giorno?- i volti dei Sette Sigilli gli
apparivano tutti con chiarezza, sfumata ma concreta. Non c’era differenza se
fossero ancora vivi, nel respiro regolare del sonno, o solo ricordi: esistevano,
ugualmente esistevano, nella sua mente o sulla terra non importava, sapeva che
esistevano ed era una sicurezza che nessuno gli avrebbe mai potuto strappare.
Neanche
con la lama di cento spade.
Neanche
con la lama della Spada del destino che aveva aperto nel suo braccio quella
ferita ancora stillante, che adesso cercava di nascondere di nuovo nella benda
come se non guardandola si sarebbe rimarginata più in fretta.
La spada,
il dolore, Fuuma.
“Fuuma!”
“Continui
a non voler capire… Io sono Kamui!”
Eppure,
nella sua mente non riusciva a smettere di chiamarlo Fuuma. Perché quei capelli
un po’ scompigliati, le larghe spalle, il gesto di scostarsi la frangia dalla
fronte, tutte quelle cose erano Fuuma. Pensava al colore delle iridi, al
timbro fondo della voce, e pensava Fuuma, gli occhi, gli stessi di Kotori,
gli stessi di quando era bambino, ad ogni battito di ciglia dicevano Fuuma,
sussurravano, ostinati, ripetevano Fuuma, Fuuma, Fuuma.
Continui a non voler capire…
Sì, era
proprio così. Non voleva capire.
Non
sapeva se fosse giorno o notte, se fosse desto o stesse errando nel vago paese
del dormiveglia, non sapeva se quella di non voler capire fosse la sua
ultima debolezza, o la sua ultima forza.
Forse era
perché si ostinava ad aggrapparsi ai tratti di quel viso, a voler vedere Fuuma, forse
era per quello che non avrebbe mai potuto vincere. Non avrebbe mai saputo
combattere, mai saputo desiderare di colpire il suo amico d’infanzia per
ucciderlo. Forse quella di avere l’aspetto di Fuuma era semplicemente un’altra
delle armi, la più efficace, del suo Nemico.
Forse non
avrebbe vinto mai.
Ma la sua
mente non poteva abbandonare quell’ultima, tormentosa certezza: che quelle
fattezze, quel volto, quella voce appartenevano a Fuuma Mono. Erano Fuuma
Mono.
Anche se
lui stesso non lo sapeva più, non per questo cessava di essere Fuuma. Non era
un'ingannevole, fumosa somiglianza, non un desiderio, non un miraggio della sua mente: sapeva,
sapeva per certo che quello era Fuuma Mono.
Poteva
essere il suo errore, il suo punto debole.
Poteva
essere la sua ultima speranza, l’ultima speranza del mondo.
E, per un
attimo, quella sicurezza lo spazzò di una luce chiarissima. Non esistevano più
le domande, gli infiniti giorni di dubbio, non aveva più importanza se fosse
sveglio o dentro il suo sonno, se avesse una debolezza o una speranza.
Aveva una
certezza.
Un cielo
limpido sgombro di nubi, un sole perfetto allo zenith, un mondo dove nessuno
poteva morire.
Tutto,
solo un istante, forse.
L’istante
in cui aveva toccato quella piccolissima, indispensabile rivelazione.
Sorrise.
[Note…
Inizialmente avevo disposto in maniera diversa, in ordine cronologico le varie
scene; poi ho deciso di accostarle in una specie di percorso dall’incoscienza
alla comprensione del perché della strana somiglianza del Kamui dei Sette Angeli
con persone così diverse. E la prima e l’ultima sezione sono separate dal resto:
la bambina del num.14 di X e Kamui sono, seppure per motivi diversi, gli unici
che vedono la verità, che vedono “Fuuma”.
Questo
motivo della rassomiglianza è per me una delle idee più geniali e affascinanti
di X, e in questo percorso l’ho ricollegata con l’accenno della necessità di
rinunciare ai propri desideri che compare in tutto il numero 18 del manga.
Credo si
capisca, comunque i personaggi che appaiono sono, nell’ordine, Nataku, Satsuki
(episodio inventato^^), Arashi (ho provato ad immaginare una Arashi che si
unisce ai Draghi della Terra), Yuzuriha, Subaru e Karen. Quale scena vi è
piaciuta di più, se ve n’è piaciuta qualcuna? E come la pensate riguardo ai temi
che ho trattato, avete critiche? Sono una gran curiosona, ormai lo sapete!^__^
E’ per me
doveroso ringraziare davvero, con tutto il cuore Harriet, che con i suoi
incoraggiamenti, le sue riflessioni e il tempo che mi ha dedicato, mi ha dato la
spinta per finire questo racconto, che se ne stava, completo al 99%, nei meandri
del mio hard disk da quasi otto mesi… Ma non prendetevela troppo con lei, siate
clementi!!
Ultima
cosa... L’aneddoto sul Cenacolo di Leonardo da Vinci è tratto dalle
Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori del Vasari; che ci
volete fare, mi è venuto così!]
|