Waiting for Him
L’attesa paziente di qualcuno o qualcosa non era mai stata uno dei tratti caratteriali per cui il vero Neuro era conosciuto: lui voleva tutto e subito.
Anche il semplice fatto che
Yako fosse in Sud America ad indagare sull’omicidio di cui sua
madre era la presunta esecutrice e lui fosse ancora in Giappone, senza
il suo “tramite obbligato” per risolvere i misteri di cui
doveva nutrirsi, aveva scosso la sua debole pazienza al punto da
prendere l’altro schiavo e andarsene in Sud America pure lui.
Dopo la scioccante
rivelazione circa suo padre, la Katsuragi aveva insistito per andare a
Sharato ad indagare più a fondo sulla cosa.
Neuro, invece, si era dichiarato contrario.
«Io tornerò al
villaggio e scoprirò il vero colpevole
dell’omicidio» aveva detto, prima di abbandonarla nelle
mani di Godai assieme alla collega di sua madre.
Adesso era nei guai ed era
da sola, completamente: il suo cellulare, cui era tra l’altro
collegata la povera Akane, gliel’avevano portato via
un’altra volta mentre era svenuta e di Godai, là intorno,
non c’era traccia.
Probabilmente il sacerdote
e i suoi discepoli l’avevano messo in un’altra cella per
paura che, assieme, riuscissero a scappare.
Neppure della giornalista amica di sua madre c’era alcun segno, ma lei era la vittima di quella situazione: il sacerdote l’aveva scambiata per Seiren e voleva ucciderla.
Doveva riuscire a liberarsi
e andare a salvarla, così come anche Godai, ma la testa le
faceva ancora male per il colpo con cui l’avevano stordita e le
braccia, legate sopra la sua testa, le si erano intorpidite per lo
scarso afflusso di sangue che quella postura comportava.
Yako era tenuta prigioniera
nell’angolo più lontano dalla porta di una piccola cella
dalle pareti strette ed il soffitto basso costruita con grossi blocchi
di pietra dello stesso colore della terracotta.
Le catene che la
vincolavano al muro erano scure e pesanti, fatte con anelli di metallo
incredibilmente grossi. Anche le gambe erano imprigionate da due
strette cavigliere che le facevano male alle gambe, alle quali sentiva
distintamente il metallo lavorato rozzamente sfregare contro la pelle
ad ogni suo minimo movimento, scorticandola a poco a poco.
La posizione più
comoda che era riuscita a trovare in quelle condizioni era stare
raggomitolata su se stessa, in ginocchio, appoggiata al muro accanto a
lei, gli occhi che si arrischiavano ad esaminare i dintorni in cerca di
qualcosa che potesse aiutarla ad uscire da quel pasticcio, invano.
La testa le pulsava sempre più dolorosamente, mentre la vista sbiadiva di tanto in tanto.
«Neuro... arriverà, prima o poi...?»
si chiese in silenzio, stordita, mentre cercava di rimettere a fuoco
per l’ennesima volta la stanza. Forse aveva qualcosa alla testa:
non era normale che il dolore - anche se al capo - persistesse tanto e
che addirittura le causasse problemi di vista.
Iniziava a respirare
affannosamente a causa delle braccia alzate e vedeva sfocato ad
intervalli via via più piccoli, ciononostante continuava a
cercare con gli occhi particolari nelle pareti, nel pavimento, nelle
catene, che potessero farle venire in mente qualcosa per liberarsi e
aiutare gli altri.
Abbassò gli occhi ad
ispezionare la piccola grata situata al centro del pavimento senza
però vederla in realtà: la sua attenzione, in quel
momento, era rivolta tutta all’attesa di Neuro.
«Deve
arrivare. Non posso lasciare che Mio e Godai vengano uccisi
perché non sono in grado di farcela da sola. Sentirà il
profumo del mistero... arriverà...» si disse,
mentre il suo corpo fremeva impercettibilmente per la paura di perdere
due persone che con quella storia non c’entravano niente.
«È
arrivato quando c’era bisogno di lui anche prima. Arriverà
anche adesso... deve... devo... liberarli... liberarmi...».
Iniziava a sentirsi confusa e debole.
La testa le faceva
terribilmente male e i pensieri si perdevano in un vortice
d’incoerenza da cui le sembrava sempre più difficile
riuscire a riemergere, ma lei ancora annaspava cercando di aggrapparsi
alla lucidità mentale, all’idea e all’attesa, divenuta ormai tormentosa, che Neuro giungesse anche allora al momento giusto.
Le sarebbe servito
solamente che la liberasse, poi al resto avrebbe potuto pensare anche
da sola. Le serviva soltanto una mano in quel frangente dove non
sembrava esserci nessuna via d’uscita.
«Neuro... vieni...» supplicò mentalmente, esausta, come se lui potesse sentire la voce dei suoi pensieri.
Sapeva che lui desiderava
che riuscisse ad arrangiarsi anche da sola, ma in quella situazione
proprio non ci riusciva. Forse era perché voleva salvare anche la vita
di altre persone, oltre alla propria, ed inconsciamente non si sentiva
in grado di prendere sulle sue sole spalle un tale fardello.
La Katsuragi si
accasciò contro la parete, i polmoni che le bruciavano per lo
scarso apporto d’ossigeno, la testa che pareva esploderle e la
vista che andava e veniva ad intervalli ormai brevissimi.
Stava per essere nuovamente
sopraffatta dall’incoscienza, l’attesa piena di speranza
che il demone arrivasse che l’animava ancora, simile ad una
fiamma inestinguibile che le ardeva in petto, quando un boato
improvviso e assordante riempì la stanza.
Il rumore riecheggiò
tra le quattro strette mura della stanza e le giunse alle orecchie
amplificato un migliaio di volte, stordendola ulteriormente.
«Ecco dov’eri, serva».
Yako alzò la testa, piena di gioia al sentire quella voce maschile conosciuta e profonda.
«Neuro!» esclamò.
Sentiva la speranza
bruciarle in fondo all’anima come un incendio: adesso che lui era
arrivato, avrebbero potuto salvare tutti.
La sua attesa non era stata vana.
Il demone avanzò a
grandi e lenti passi verso di lei, sul viso un’espressione di
noia venata appena di irritazione: vederla incatenata e senza
l’autosufficienza necessaria a liberarsi lo infastidiva
abbastanza, ma in fondo era un essere umano, per cui poteva anche
passarci sopra, per quella volta.
Si tolse il guanto destro,
scoprendo così quei paurosi artigli propri della sua forma
demoniaca, che calò come coltelli sulle catene, spezzandole di
netto, come fossero state di semplice cartapesta.
Yako si affrettò ad
alzarsi, appoggiandosi un momento alla parete per riprendere fiato,
quindi alzò gli occhi a guardarlo in viso.
Nel suo sguardo il demone colse una scintilla di determinazione che non le aveva mai visto prima in volto.
«Neuro dobbiamo andare: Godai e Mio sono in pericolo!».
Neuro, in piedi davanti alla detective, si spostò lateralmente in silenzio, come ad invitarla a mostrargli la strada.
«Il mistero è
maturato a sufficienza» commentò semplicemente,
incrociando le braccia sul petto, sorridendo macabro, già
pregustando il banchetto che l’aspettava e che si preannunciava
essere abbondante.
Allora la Katsuragi si diresse verso la porta: l’attesa era finita.
Adesso era venuto il momento di agire.
|