I'm
searching for answers
Not questioned before
The curse of awareness
There's no peace of mind
As your true colours show
A dangerous sign
It’s
in your eyes
- A
Dangerous Mind, Within Temptation -
PROLOGO
Somerge
era un piccolo borgo all’estremo
sud-est della Terra di Asante i cui abitanti, abituati alla serena
tranquillità
della vita campagnola, poco avrebbero gradito la presenza della alta
sagoma
nera che, le mani affondate in tasca, si aggirava indisturbata per le
stradine
del paese, fischiettando un motivetto sommesso nella caliginosa foschia
notturna.
Non
c’era nulla di strano in un
ragazzo che camminava facendosi i fatti suoi, non fosse stato che il
ragazzo in
questione, oltre a un lungo pastrano di pelle – roba da
loschi criminali, secondo
l’opinione popolare – che contrastava vistosamente
con il pallore del suo
incarnato, sfoggiasse anche, e con un certo orgoglio, una lunga coda di
capelli
neri come la pece e una piccola zanna appuntita che gli pendeva
all’orecchio
sinistro. Il suo aspetto sarebbe parso bizzarro e vagamente minaccioso
nelle
maggiori città delle Sette Terre, figurarsi cosa ne
avrebbero detto in un
minuscolo villaggio come quello.
Un
grosso corvo nero lo seguiva
fedelmente, svolazzando da un davanzale all’altro, da un
lampione all’altro,
senza perderlo mai di vista. Di tanto in tanto, sfiorato dalla sua
ombra che lo
sorvolava, Lucius sollevava lo sguardo con un sorriso sbilenco, come
per fargli
capire che non si era scordato di lui, e poi lo riabbassava,
proseguendo come
nulla fosse.
Una
volta sola Rok gli aveva
risposto con una gracchiata di rimprovero, che era riuscita a
strappargli una
breve risata sommessa.
Se
non fossero stati tutti
addormentati nei loro letti, i benpensanti che abitavano le casupole
in pietra
che fiancheggiavano la stradina lastricata probabilmente lo avrebbero
additato
con orrore e accusato di essere un mercenario in cerca di
rarità da rubare, o
qualcosa di analogo. D’altronde non si sarebbero poi nemmeno
sbagliati di
molto. Una volta, mentre visitava in incognito una cittadina nelle
terre degli
umani, era stato apostrofato come figlio del demonio e aveva sorriso,
interrogandosi su quale sarebbe potuta essere la reazione di quella
gente nello
scoprire che, in effetti, era lui stesso un demone.
Creature
affascinanti, gli umani.
Le
leggende sovrannaturali che
sembravano tanto intrigarli, in fondo, erano nate così:
qualcuno aveva
raccontato una storia – più o meno vera
che fosse – e quella storia aveva viaggiato di bocca in
bocca, acquisendo ogni
volta nuovi particolari e finendo così per affermarsi tra le
credenze popolari.
Bastava un nonnulla, a volte, e la superstizione e il fanatismo
facevano il
resto. Alcuni ci credevano davvero, altri le ritenevano solo sciocche
favole
per bambini, ma quasi nessuno aveva una vera e propria idea di dove
poggiassero
le fondamenta di certe storie. C’era chi incontrava un demone
o un angelo per
strada, o in una taverna, e nemmeno se ne rendeva conto. Certo, era
raro che
qualcuno degli Occulti decidesse di fare spontaneamente visita alle
zone di
insediamenti umani al di là dell’oceano; quando
capitava, si trattava per lo
più di ricognizioni di qualche membro della Lega che andava
ad assicurarsi che
tutto fosse sotto controllo.
Senza
saperlo, gli umani
fantasticavano da sempre sul Mondo Occulto, congetturando di
strabilianti poteri
magici e guerre millenarie tra Bene e Male. Su alcune cose avevano
avuto delle
giuste intuizioni, su molte altre si sarebbero sbagliati di grosso fino
alla
fine dei loro giorni.
Pochi
di loro – o più probabilmente
nessuno – avrebbero creduto che quell’affascinante
giovane che spesso appariva
– come dal nulla – dalle loro parti fosse un demone
di quarantasette anni in
cerca di svago. A tutti gli effetti, la sola cosa che distinguesse
Lucius da un
comune mortale erano dei poteri sovrumani e una vita nettamente
più longeva,
più del doppio rispetto a quella media degli umani, che si
aggirava attorno a
sessanta miseri anni.
Molto
volte Lucius, nel suo
vagabondare, si era conquistato un’occhiatina di
apprezzamento da parte di
qualche fanciulla umana incrociata per strada, oppure aveva rimesso al
suo
posto qualche ubriacone molesto in vena di risse, e nessuno aveva mai
sospettato niente. Gli piaceva stare in mezzo agli umani: avevano un
modo del
tutto diverso di vedere le cose, di abitare il mondo. Spesso si
dimostravano
ingenui, a volte anche patetici, ma nessuna era perfetto.
Di
per sé, era sempre stato uno
di poche pretese, ma soprattutto, e orgogliosamente, un inguaribile
romantico. Amava
le lunghe passeggiate notturne, sentirsi il cielo sopra la testa che
contava i
suoi passi mentre il buon profumo di freddo gli riempiva i polmoni.
Riusciva
persino a commuoversi di fronte alle gocce di rugiada che imperlavano
le
ragnatele sui cespugli di more nei boschi.
Nella
sua pur giovane vita ne
aveva viste di tutti i colori – e per lo più si
era trattato di colori macabri
e cupi, sporchi di crimini che preferiva non ricordare – ma
non aveva mai perso
la capacità di stupirsi e meravigliarsi davanti alla
bellezza delle cose.
La
Madre era come un immenso
scrigno che custodiva tesori che la maggior parte delle creature che la
abitavano non sarebbero mai state in grado di vedere veramente. Gli
umani era
troppo occupati a inventarsi nuovi modi per complicarsi
l’esistenza e nuocere
sempre più gravemente al ventre terreno che aveva donato
loro la vita; le razze
degli Occulti – angeli o demoni che fossero – erano
invece divise tra coloro
che lottavano quotidianamente per riparare ai danni causati dagli
esseri umani,
coloro che non se ne curavano minimamente e, ancora, coloro che
procuravano
danni persino peggiori.
Lui
apparteneva attualmente alla
prima categoria, e tuttavia non si era mai privato del sottile piacere
di
godersi un bosco in autunno, o un lungomare accarezzato dalle sfumature
violacee di un crepuscolo, o semplicemente sedersi su un muretto a
osservare la
frenesia quasi ridicola delle grandi città, con i loro
mercati, le osterie, le
fiere per la vendemmia e il raccolto. Sotto certi punti di vista, gli
umani
rappresentavano un gigantesco, affascinante mistero, per lui.
La
suola spessa dei pesanti stivali
calpestava senza quasi fare rumore il lastricato umido, uno specchio
sfocato
che rifletteva fiocamente le luci gialle dei lampioni e delle lanterne
delle
abitazioni e la volta scura del cielo nuvoloso. L’odore
intenso di pioggia che
impregnava l’aria lasciava presagire un temporale imminente.
Non
c’era anima viva, in giro.
Sporadicamente,
in lontananza, si
potevano udire i richiami acuti di qualche animale selvatico
trasportati dal
vento che serpeggiava tra gli alberi come una carezza incorporea, ma a
parte
quello, il silenzio era il sovrano incontrastato della notte.
La
via principale aveva inizio
nella piazzetta del Tempio, nel cuore del paese, e da lì
scendeva gradualmente nel
centro abitato, conducendo direttamente nell’aperta campagna,
trasformandosi
via via in un serpente di terra battuta che si perdeva tra i meandri
del
territorio.
La
solennità della colline
addormentate ricreava un’atmosfera lugubre, abbracciando ogni
cosa in una fitta
coltre di ombre nebbiose, e la valle, cullata dallo scorrere pigro del
fiume,
era immersa nella sua stessa tranquillità, racchiusa tra
soffici mura verdi e
scure.
La
bruma dei boschi era densa e
odorava intensamente di ghiaccio. L’inverno non era la
stagione più adatta per
godersi quella zona, soprattutto di notte, ma a Lucius non importava
più di
tanto.
I
climi rigidi gli facevano
tornare i mente luoghi e persone distanti ma a lui molto cari e di cui
spesso,
pur non rimanendone mai lontano molto a lungo, sentiva una mancanza fin
troppo
dolorosa.
Casa è dove lasci il cuore.
Chiuse
gli occhi per un momento
per scacciare quei pensieri. Non era il momento di perdersi nella
nostalgia.
La zona sembrava deserta,
placida e quieta sotto
a un cielo livido e gonfio di pioggia. A parte un frullio
d’ali echeggiante
nella lontananza, se c’era qualche rumore da sentire, il
vento freddo lo
copriva.
Appena
uscito dalla fitta
vegetazione del boschetto ai piedi della cittadina, Lucius si
ritrovò a
fronteggiare il pendio roccioso che si stagliava come una torre nel
mezzo della
pianura: la ripida parete, ricoperta di arbusti selvatici e sterpaglie,
saliva
in un profilo discontinuo fino alla cima, quella notte completamente
inghiottita da basse nuvole fumose. Era lassù che si
trovava: la Corte, dimora e
quartier generale della più grande organizzazione criminale
del Mondo Occulto,
e forse dell’intero pianeta.
Appariva
agli occhi degli
abitanti delle campagne circostanti come un vecchio rudere in rovina e
i
sigilli che lo proteggevano facevano sì che a nessuno
potesse anche solo venire
il mente di tentare di avventurarsi fin lassù. La mancanza
totale di vie
d’accesso tra le rocce scoscese e di nascondigli, inoltre,
scoraggiava
qualunque potenziale scocciatore dal tentare di avvicinarsi. Non che
non ci
fossero altri modi meno scontati di passare inosservati: semplicemente,
nessuno
che sapesse cosa l’aspettava, lassù, era
così stolto da voler capitare nei
pressi della Corte di Ganus Desmond.
Lucius,
in ogni caso, non si
considerava un qualunque potenziale scocciatore: più di una
volta, in passato,
gli era capitato di varcare i confini di quel luoghi, e quel poco che
aveva
avuto modo di vedere gli era bastato per una vita intera.
C’era
un detto che da secoli
circolava su quel luogo: se riuscivi a entrare alla Corte, o ne uscivi
che non
eri più lo stesso, o non ne uscivi affatto.
Si
fermò in mezzo al sentiero,
restando in ascolto: il silenzio era tanto e tale da essere inquietante.
Molte
volte gli era capitato di
perlustrare quell’area, per dovere o per piacere personale,
ma mai aveva
trovato quella calma surreale. I suoi sensi non percepivano altro che
inquietante immobilità.
Qualcosa
non andava.
I
suoi occhi vagarono ovunque
alla ricerca di qualche segno, di qualcosa di anomalo, senza trovare
alcunché
di sospetto. Se voleva vedere oltre le nubi, doveva avvicinarsi di
più.
Con
un balzo deciso atterrò su
una sporgenza di roccia e con un secondo giunse fin sopra lo spiazzo
erboso che
circondava la Corte. Non accadde nulla.
Erano
anni che non si avvicinava
tanto al confine segnato da potenti sigilli attorno al perimetro del
maniero.
Normalmente, un intruso avrebbe risentito degli influssi del sortilegio
difensivo già ai piedi della rupe. Se lui era giunto fin
lì, ci doveva sicuramente
essere da preoccuparsi. Si sollevò lentamente in piedi,
scrutandosi intorno con
circospezione attraverso i densi banchi di nebbia, il fruscio delle ali
di Rok
alle sue spalle. Non un rumore, non una voce, non un sussurro.
Risoluto,
protese una mano verso il cielo e chiamò a sé il
soffio del vento, il quale in
pochi secondi, vorticando attorno a lui e per tutta la vetta,
spazzò via le
nuvole, spalancandogli davanti una visuale perfetta sotto ai raggi
lunari. Quello
che Lucius si ritrovò di fronte, però, non era
ciò che si era aspettato.
Rimase
a bocca aperta.
Dove
una volta c’era stato il
maestoso castello antico, ora non restavano che ruderi e macerie,
spazzate da
deboli aliti di vento: enormi blocchi di pietra scura ricoperta di
muschio
giacevano sul prato attorno a un esile scheletro di arcate e scalinate,
uniche
parti superstiti dell’intera, gigantesca struttura. Era come
se il castello
fosse stato assediato e distrutto da interi eserciti. Un intenso odore
di morte
incombeva su quello spettacolo raggelante.
Ferro, acqua, e vita evaporata.
Lucius
sapeva che da una parte
avrebbe dovuto esultare: in secoli di storia, nessuno era mai riuscito
a
distruggere o anche solo intaccare quella fortezza, custode di orrori e
crudeltà che la maggior parte della gente non avrebbe
nemmeno potuto
immaginare, ma proprio qui si presentava il rovescio della medaglia:
chi poteva
mai essere tanto potente da radere al suolo uno dei siti più
inviolabili che
fossero mai esistiti?
Rabbrividì.
Decise che si sarebbe
curato in un secondo momento dei come e dei chi, e soprattutto dei
perché.
Si
avvicinò con cautela al cumulo
di macerie. Sotto al manto di velluto grigio scuro della notte, tutto
era
immobile, prigioniero di una stasi che faceva ghiacciare il sangue
nelle vene.
Qualcosa di terribile si era consumato lassù, non molte ore
prima.
Si
avvicinò ancora e studiò
meglio la situazione: nel buio denso riuscì a individuare
corpi privi di vita
scacchiati tra i macigni, orbite rovesciate in un’agonia
sgomenta. Era accaduto
tutto all’improvviso, intuì. Erano stati colti
tutti di sorpresa.
Chissà
se Desmond si trovava là
in mezzo, sepolto assieme ai suoi, o se invece aveva scampato la
tragedia, in
qualche modo.
Lucius
si disse che l’ipotesi più
probabile era la seconda: i peggiori erano i più duri a
morire e Desmond
trascorreva lunghi periodi lontano dalla sua Corte, per controllare da
vicino
le cellule della sua congrega o alla ricerca di fonti di potere da fare
proprie, a qualunque prezzo, con qualunque mezzo. Era fortemente
probabile che
nemmeno fosse a conoscenza dell’accaduto, e, in quel caso,
avrebbe fatto meglio
ad avvertire immediatamente il quartier generale. Non era nemmeno
prudente
rimanere lì da solo, senza rinforzi.
Stava
per girare sui tacchi e
tornare da dov’era venuto, quando qualcosa attirò
la sua attenzione: alla luce
improvvisa di un lampo, distinse una grossa macchia rossa sul bianco
opaco di
una lastra di marmo.
Osservò
meglio: adagiato a peso
morto sulla pietra c’era un corpo, ricoperto di polvere e
sangue. Sembrava molto
giovane – una ragazza – ed era senza dubbio un
demone, anche se Lucius non
aveva mai visto nessuno come lei.
Si
accostò con cautela e si
inginocchiò. I lunghissimi capelli, sparsi
tutt’intorno a lei, erano di un
colore innaturale, un rosso intenso e vivo, identico a quello del
sangue che le
rigava il viso e le mani e le impregnava i vestiti: la macchia rossa
che aveva
attirato la sua attenzione. Era pallida, così pallida da non
lasciare dubbi se
potesse essere ancora viva. Aveva gli occhi aperti, sbarrati, colmi di
un’emozione violenta che Lucius non riuscì a
distinguere. Erano grandi, a
mandorla, anch’essi di una tonalità innaturale,
verdi e luminosi, eppure
inspiegabilmente adombrati. C’era qualcosa di umano nel
dolore che
riflettevano.
Con
tutti quei cadaveri, pensò, i
Liberatori avrebbero avuto un gran bel daffare, non appena la Lega
fosse stata
informata dell’accaduto.
Mosso
a pietà, si avvicinò,
chinandosi per chiuderle le palpebre, quando all’improvviso
una goccia di
pioggia cadde sul viso cereo della ragazza e lo solcò lenta,
tingendosi di
rosso mentre le moriva sulle labbra. Fu allora che si accorse della
debolissima
condensa di vapore che si sollevava dalla sua bocca.
Sussultò, sorpreso: era
viva, allora. Le appoggiò due dita sulla giugulare e la
osservò con più
attenzione: era gelida e immobile, ma il suo cuore, seppur quasi
impercettibilmente, batteva ancora.
–
Mi senti? – le disse,
scostandole una ciocca di capelli dal viso incrostato di sangue. Lei
non
rispose né si mosse, ma nel suo sguardo si accese qualcosa.
Nervoso, Lucius si
accertò che non avesse ferite particolarmente gravi o ossa
rotte, poi la
sollevò delicatamente tra le proprie braccia. Era esile,
leggera. Non era il
tipo da fidarsi senza sospetti di una situazione così
singolare, a maggior
ragione visto il luogo in cui si trovava, ma la purezza – l’innocenza – che
scorgeva sul volto di quella giovane lo
convinsero che portarla in salvo fosse la cosa giusta da fare.
Stava
per rialzarsi in piedi,
quando all’improvviso si vide comparire la punta di una lama
affilata al di
sotto del mento.
–
Fossi in te la lascerei dov’è –
disse una voce roca e profonda.
Lucius
sollevò lentamente la
testa: sopra di lui torreggiava una figura scura e massiccia, un uomo
che
vestiva insegne mai viste lo fissava calmo ma minaccioso, il volto
pesantemente
sfigurato da bianche cicatrici. Una gli attraversava obliquamente
l’occhio
destro, di un azzurro lattiginoso e vitreo, privo di pupilla.
–
Non cercare di fare l’eroe per
salvare una vita già segnata. Lascia la ragazza e vattene,
è un consiglio da
amico. –
Chiunque
egli fosse, sembrava
avere intenzioni tutt’altro che amichevoli.
–
Vi ringrazio per il consiglio, amico,
ma non mi sembrate un tipo
affidabile – un piccolo sogghigno ironico. – Con
permesso. –
Fece
di nuovo per alzarsi, ma
l’uomo gli puntò la lama dritta nella carne,
lacerando superficialmente la
pelle.
–
Non osare muovere un altro
passo! – tuonò l’uomo. – Non
ti voglio uccidere, la tua vita non mi interessa.
Dammi la ragazza, o sarò costretto a usare la forza, e,
credimi, non ti piacerà.
–
La
mano sinistra di Lucius,
nascosta alla vista dello sconosciuto, si mosse lesta fino
all’elsa della spada
che portava legata alla cinta. Le dita scivolarono sul metallo
intarsiato,
afferrandolo saldamente.
–
Credo che sarà uno spiacevole
scontro per entrambi, allora. –
Con
uno scatto rapido, lasciò la
ragazza e si sollevò in piedi, sguainando la spada.
Approfittò
dell’istante di
smarrimento dell’uomo per affondare contro di lui, ma questo
si riebbe
immediatamente e schivò con agilità, affondando
poi a sua volta. Lucius balzò
di lato e parò all’ultimo momento. Aveva scampato
per un soffio un colpo che lo
avrebbe ferito molto seriamente al fianco.
Stava
iniziando a piovere, per di
più. Il terreno si sarebbe fatto presto fangoso e
sdrucciolevole e combattere sotto
all’acqua non era la cosa più semplice, con
un’innocente priva di sensi alle
spalle da proteggere. Non doveva rispondere solo ai colpi rivolti a
lui: il suo
avversario stava facendo di tutto per riuscire ad allontanarlo dalla
ragazza ed
avere campo libero su di lei, ma Lucius non glielo avrebbe permesso.
Solo si
chiedeva quanto avrebbe resistito. Avrebbe dovuto ricorrere alla magia,
ma
aveva come la sensazione che anche su quel versante lo sconosciuto gli
avrebbe
dato del filo da torcere.
Doveva
trovare il modo di uscirne
alla svelta, o avrebbe avuto la peggio. Era un bravo spadaccino, ma
quel
guerriero era troppo superiore a lui in tecnica. Per quanto coraggio e
quanta
avventatezza ci fossero in lui, non gli sembrava il caso di farsi
uccidere
così.
–
Dammi retta, ragazzo – sentenziò
l’uomo mentre le loro spade si incrociavano per
l’ennesima volta in uno stridio
di lame. – Non ne vale la pena. –
Lucius
sferzò l’ennesima parata
stentata contro un colpo degno dei migliori maestri che avesse mai
incontrato.
–
Grazie del parere – ansimò.
Il
clangore delle spade che si
aggredivano gli risuonava acuto nelle orecchie, mentre la pioggia,
fitta e
pungente, lavava lo scenario circostante dalle macchie rosso scuro che
lo tingevano
macabramente. Anche il fetore acre della carne morta si stava
attenuando,
coperto dall’odore della terra fradicia e dell’erba
calpestata.
Lucius
era abituato ai lunghi
duelli, ma un conto era un’ora di puro e semplice
allenamento, un altro era battersi
contro un avversario così capace in uno scontro reale. Non
avrebbe resistito a
lungo.
L’unica
speranza era riuscire a
raggiungere il Portale. Se fosse riuscito a sbarazzarsi di quel tizio
per
almeno qualche secondo, forse sarebbe stato in grado di portare in
salvo sé
stesso e la ragazza.
Da
solo non ce l’avrebbe mai
fatta, ma forse non tutto era perduto.
Proprio
mentre la speranza già
prendeva forma nella sua mente, l’avversario
riuscì a coglierlo in fallo su una
mossa particolarmente azzardata e la sua lama penetrò la
difesa con un assalto
a tradimento, trafiggendogli la carne sul fianco destro. Anche se
superficiale,
lo squarcio gli causò una violenta fitta di dolore acuto che
si propagò fino al
petto, costringendolo a soffocare un urlo in un semplice gemito.
Non
si fermò nemmeno a
riflettere. Anziché contrattaccare, Lucius balzò
agilmente di lato, fiotti di
sangue che gli grondavano dalla ferita, evitò con una
capriola il secondo
attacco e, con una mossa non proprio leale, fece perdere
l’equilibrio all’uomo,
che, colto di sorpresa, rovinò a terra con
un’imprecazione furiosa.
Lucius
fu lesto: si precipitò
dalla ragazza, se la strinse al petto ignorando il terribile pulsare
bollente
nel fianco, poi sollevò lo sguardo verso il cielo e
chiamò con tutta la voce di
cui disponeva:
–
Rok! –
Dopo
un fugace istante di
smarrimento, il guerriero si era rialzato in piedi e già si
preparava a una
nuova offesa, l’occhio perlaceo che brillava in modo
innaturale accanto al buio
in cui si celava l’altro. Un urlo rabbioso si levò
dalle sue labbra nel partire
alla carica con la lama sguainata.
Lucius
tenne la mano sinistra ben
salda attorno all’elsa della propria spada, pronto a
difendersi, ma proprio
mentre l’uomo stava per abbattersi su di lui, qualcosa di
nero sfrecciò nell’aria
tra di loro e si avventò sul volto dell’uomo come
una furia.
Le grida piene di dolore dello
sconosciuto si persero nel
cielo aperto, mentre il grosso corvo beccava e graffiava su di lui,
senza
pietà. Rivoli di un rosso acceso presero a colargli sulla
pelle martoriata.
–
Grazie, fratello! – boccheggiò
Lucius, che aveva quasi temuto di essere spacciato.
Il
corvo rispose con un
gracchiare deciso, che a stento si udì nel mezzo dei lamenti
dell’offeso.
Senza
perdere tempo, Lucius
rinfoderò la spada e prese in braccio la ragazza, correndo
verso l’orlo del
precipizio.
Come
aveva fatto per salire, in
due salti di disumana estensione raggiunse la pianura e da
lì, senza guardarsi
indietro, corse verso il fitto del bosco.
–
Coraggio, resisti – sussurrò
alla ragazza, che gemeva debolmente tra le sue braccia. – Ora
ti porto al
sicuro. –
Gli
alberi cavi erano i suoi
portali preferiti, secondi solo a quelli subacquei.
Quando
Lucius uscì dalla vecchia
quercia sgangherata, era pieno di tagli e ferite e i suoi vestiti
grondavano
acqua e fango, ma perlomeno era in salvo.
La
ragazza dai capelli rossi
giaceva inerte tra le sue braccia, priva di sensi. Le sue ferite erano
serie e
la vita che scorreva in lei si faceva più fioca di momento
in momento. Doveva
fare presto.
Avanzò
per qualche decina di
metri nella selva lungo un sentiero che, anche
nell’oscurità, sapeva percorrere
con la stessa sicurezza con cui si muoveva alla luce del sole.
Arrivò
in una grande radura che
lambiva il dorso della montagna. C’era una statua di pietra,
in un angolo, seminascosta
dalle sterpaglie: era un angelo dalle ali completamente avvinte
dall’edera,
annerito dal tempo e dalle intemperie, una benda sottile a coprirgli
gli occhi.
Teneva un libro stretto al petto con la mano destra, mentre la sinistra
era
protesa in avanti, il palmo aperto rivolto verso
l’osservatore, in un gesto che
si sarebbe potuto interpretare come un ordine di fermarsi.
Ma
Lucius, che conosceva bene
quella statua e il suo significato, non si fermò.
Si
avvicinò, e quando fu giunto
al cospetto dell’angelo gli si accostò, fino a che
la mano protesa finì per
toccare il lato sinistro del suo petto. Angina non avrebbe potuto
trovare una
protezione migliore per l’ingresso al suo covo: un
incantesimo che leggeva le
intenzioni del visitatore direttamente dal suo cuore.
Inizialmente
non accadde nulla,
poi l’edera che ricopriva il fianco della montagna
iniziò a sostarsi delicatamente,
e man mano che questa si apriva, nella nuda roccia si disegnava la
cornice intarsiata
di un arco a ogiva.
Lucius
attese pazientemente che
il varco si spalancasse completamente su un caldo bagliore luminoso,
poi
finalmente entrò. Immediatamente, dietro di lui la roccia si
rinsaldò e l’edera
tornò al proprio posto, occultando ogni segno
dell’esistenza del passaggio.
La
dimora di Angina e dei suoi
era scavata nel ventre della montagna, diverse centinaia di metri al di
sotto
del suolo, un’immensa caverna naturale creata nei millenni da
un fiume
sotterraneo e dotata di infinite minuscole gallerie che fungevano da
canali di
aerazione. Dall’ingresso, c’era un lungo e stretto
corridoio che si inoltrava
nella montagna, illuminato a intervalli regolari dalle molte torce che
erano state
affisse alla parete umida.
Lucius
percorse il tragitto senza
esitazioni, svoltando al momento giusto, senza farsi ingannare di molti
bivi
posti ovunque come trabocchetto. Nessuno era mai riuscito a entrare
là dentro
senza essere invitato, ma se mai qualche malcapitato ce
l’avesse fatta, di
sicuro non sarebbe più stato in grado di uscirne vivo.
Terminato
il dritto cunicolo in
piano, iniziava un’interminabile serie di scalini da
scendere, scolpiti
direttamente nella pietra e resi scivolosi dalle infiltrazioni
acquifere
presenti ovunque. Faceva sempre più freddo man mano che si
scendeva in profondità.
Era una via tortuosa e scomoda, ma del resto era fatta apposta per
confondere
chi vi aveva accesso. Ci vollero almeno quindici minuti per raggiungere
la zona
centrale del rifugio, e Lucius cominciava a sentirsi affaticato. La
ragazza era
leggera, ma era pur sempre un peso morto che gli impacciava i movimenti.
L’odore
di muschio e di umidità
si mescolava con l’acredine degli stoppi ardenti, saturando
l’aria di alcuni
tratti fino a renderla a malapena respirabile.
Finalmente,
dopo quasi cinque
minuti di cammino, il corridoio sfociò sull’atrio
principale. Si trattava di un
enorme camera circolare, alta una trentina di metri e ampia almeno due
volte
tanto. Il soffitto era completamente ricoperto di bianche stalattiti
calcaree
di ogni dimensione su cui riverberava la luce delle fiamme che ardevano
negli
enormi bacili disposti a cerchio lungo il perimetro della sala.
–
Chi va là? – tuonò una profonda
voce da uomo non appena Lucius discese l’ultimo gradino. Da
lontano, vide due
degli uomini di Angina, armati di spada, che si avvicinavano rapidi.
–
Sono io – annunciò. – Ho una
ragazza ferita, qui. –
–
Lucius – disse uno dei due, che
lui riconobbe immediatamente come Kael, il braccio destro di Angina.
Il
suo sguardo si posò sulla
giovane, soffermandosi sugli abiti laceri e sudici che essa portava con
una
certa apprensione. Apprensione che mutò in diffidenza quando
lo sguardo si
spostò sui suoi capelli.
–
Lei chi è? Cos’è successo? –
–
Non so chi sia. È una lunga
storia. –
Kael
lo occhieggiò sospettoso.
Era
un uomo robusto, con un viso
aperto e una lunga barba bionda intrecciata, i modi spicci di chi agiva
pensando già al passo successivo.
–
Ha bisogno di cure – Gli disse
Lucius con urgenza. – Ti spiegherò poi, adesso
dobbiamo aiutarla. –
Kael
valutò rapidamente la
situazione, poi annuì e si voltò verso il
compagno:
–
Elath, va’ a chiamare Venena.
Avremo bisogno di lei. –
Venena,
un’erborista le cui
immense conoscenze la rendevano esperta tanto nel curare i mali quanto
nel
causarli, fredda e apatica, non rientrava nelle più grandi
simpatie di Lucius.
L’uomo
obbedì e si congedò con un
saluto marziale, sparendo poi oltre uno dei tanti cunicoli che si
dipanavano
dall’antro.
–
Tu vieni con me – disse poi Kael,
facendo cenno a Lucius di seguirlo. – Angina non
c’è, ma dobbiamo sistemare la
tua amica. La vedo piuttosto malconcia. Dove hai detto di averla
trovata? –
–
Tra le macerie della Corte. –
Tra
loro cadde un attimo di
significativo silenzio.
–
La Corte? –
Gli occhi azzurri di Kael si sgranarono
nella sorpresa. – Intendi quella
Corte? –
–
Sì – Confermò Lucius.
Snocciolò
i dettagli fondamentali
lungo la strada.
Kael
non fece altre domande. Lo
condusse verso il lato Sud della caverna – il Dedalo, come lo
chiamavano i suoi
abitanti – dove si trovavano la Farmacia, le serre e la
Biblioteca.
–
La Corte di Desmond in macerie…
– borbottò Kael fra sé. – Chi
diavolo può avere fatto una cosa simile? –
Era
terrificante soltanto
pensarci: quello che per secoli era stato teatro di innominabili
torture e
esperimenti che costituivano veri e propri abomini contro la natura era
andato
completamente distrutto in una notte.
–
Non ne ho idea, ma credo che
forse lei possa saperlo – Rispose Lucius, abbassando lo
sguardo sulla ragazza.
La
sua espressione sofferente lo
portò a domandarsi chi fosse e cosa ci facesse
là, nel luogo peggiore dove
chiunque potesse capitare.
–
La Lega cosa ne dice? – indagò
Kael.
–
È per questo che sono qui.
Dovete occuparvi di lei, io devo fare immediatamente rapporto.
–
La
stretta scalinata si
interrompeva direttamente davanti a un pesante portone di legno
massiccio. Kael
vi appoggiò una mano sopra, ma prima di spingere si
voltò con aria seria:
–
Cosa sta succedendo là fuori,
Lucius? –
Lui
chinò il capo, impotente, le
ossa dolenti, i muscoli stanchi. Di qualsiasi cosa si trattasse, il
Mondo
Occulto doveva prepararsi ad affrontarlo.
–
Vorrei tanto saperlo anch’io. –
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A/N: questa
storia è nata più di un anno fa, da un'idea
improvvisa che per scherzo ho iniziato a mettere per iscritto, pezzo
per pezzo, man mano che l'ispirazione mi dettava qualcosa. Ad oggi,
sono quasi giunta al termine della stesura e tra tre o quattro capitoli
potrò finalmente scrivere la parola fine. La speranza
è di vedere un giorno questa mia piccola creatura pubblicata
e distribuita nelle librerie e non appena sarà ultimata,
tenterò la fortuna mandando il manoscritto a qualche casa
editrice. Chissà.
Per ora ho deciso di iniziare a postare qui su EFP, tanto per vedere
cosa ne può pensare la gente. Non ho mai pubblicato, qui,
storie originali a multicapitolo (e vi avverto già che di
capitoli pronti ne ho già 26), quindi non so bene cosa
aspettarmi. Non so quanta gente legga questa sezione, non la conosco
molto bene, ma spero che se qualcuno passerà di qui e
leggerà, vorrà quantomeno lasciare due righe di
commento, almeno per aiutarmi a capire se quello che sto scrivendo ha
qualche speranza di incontrare il gradimento di un eventuale pubblico.
Luoghi e personaggi sono ben chiari nella mia testa e magari
più avanti, se a qualcuno interesserà,
condividerò con voi i volti e i paesaggi che mi hanno
ispirata e tuttora mi ispirano quando scrivo di questo mondo.
Al prossimo capitolo!
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