Dè a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe? di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Dè a tha thu_3
SCENA II:
AMLETO [1]
E
MACBETH [2]
Era
sparito fra la folla così com’era apparso,
l’ombra d’un pallido fantasma
dissoltosi nella marea di gente che imperversava fra le strade di
Londra.
Pensai quasi d’essermelo
immaginato, cercandolo ancora con lo sguardo sebbene ormai, di lui,
restasse
solo la sua vaga presenza sulle mie retine. Non seppi perché
mi affannai così
tanto nel ritrovarlo, negli attimi che seguirono, ma cominciai a
vagabondare
fra quelle strade sotto quel diluvio, quasi non riuscissi a darmi pace.
L’avevo
visto solo per un attimo, però quell’attimo era
bastato. E continuai a cercarlo
e a cercarlo ancora mentre intorno a me la gente diveniva man mano
più rada,
non capacitandomi al tempo stesso del perché seguissi quello
spettro che avevo
veduto e che a sua volta, per non più d’una
frazione di secondo, aveva rivolto
verso di me il suo sguardo.
Cosa mai avrebbe potuto
significare quella mia ossessione? Avevo trovato un’altra
creatura che
condivideva il mio stesso destino o, forse, volevo soltanto tentare
d’illudere
la mia persona, e dunque quella visione che ai miei occhi era apparsa
così
reale era invece stata solo un parto della mia mente stanca e annoiata?
Non lo
sapevo, ma passarono ore ed ore senza che trovassi più
alcuna traccia. Con
molta probabilità, rincorrendo i miei soliti pensieri e
perdendomi nel passato,
avevo involontariamente generato quell’immagine speculare,
lasciando che la
fantasia prendesse momentaneamente il sopravvento sulla
realtà. Ma se era stato davvero così,
perché non riuscivo a togliermi dalla mente quello sguardo
un po’ vacuo, quegl’occhi
d’un azzurro così intenso d’apparire di
ghiaccio come quello d’un husky, e quei
capelli ramati e arruffati che nascondevano il pallido viso? Che sorta
di
maleficio mi aveva fatto, quell’essere, se realmente
esisteva? Più ci pensavo,
più il mio meravigliarmi mi sembrava pura follia. Ma
continuai a farlo anche
quando raggiunsi il palazzo e mi chiusi la porta alle spalle,
liberandomi
distrattamente di giacca e cilindro mentre salivo le scale per
raggiungere il
mio alloggio.
Non appena vi entrai, fui
investito dall’odore della pittura, reso ancor più
intenso dall’aria viziata,
date le finestre che Henry aveva lasciato chiuse. Aprirle
con quella pioggia non era l’ideale, certo, ma mettersi a
dipingere senza farlo era un po’ come
suicidarsi, dati i quantitativi di colore che lui era solito
utilizzare. Diceva,
però, d’esserne ormai assuefatto, e chi ero dunque
io per impedirgli di fare ciò
che voleva? Quello per me non era un problema, anche perché
erano rare
le volte in cui ritornavo a casa. Ero perfettamente a mio agio anche
altrove.
Esattamente come avevo
previsto, trovai Henry dinanzi ad una delle sue tele. Attraversai quel
poco
spazio non ingombrato da tavoli e tavolinetti, attento a dove mettevo i
piedi
per non inciampare in qualche foglio svolazzante o colore. Con il
disastro che
c’era in giro, non mi preoccupai nemmeno del fatto che, con
le mie scarpe
imbrattate, stessi bagnando il pavimento.
«Hai fatto tardi,
stasera», mi
salutò Henry, senza alzare gli occhi azzurri dal suo
dipinto. Intinse invece il
pennello in uno dei colori della tavolozza che reggeva, riprendendo
tranquillo
il proprio operato come se fosse ancora solo.
Poggiai il giaccone su una
delle poche sedie libere, ritrovandomi poi a scoccargli
un’occhiata di scarsa
importanza. «Sono stato impegnato», ribattei,
sentendo appena un suo mezzo
sbuffo ilare.
«Bugiardo»,
replicò difatti,
mescolando il nero e il ciano per stemperarli poi sulla tela, assumendo
un’espressione poco soddisfatta.
Io, però, sbuffai.
«Pensa ai
tuoi quadri, pittore», lo ammonii, lasciando il cilindro dove
capitava. Odiavo
quando Henry si metteva in testa di fare la parte della madre
appiccicosa o
dell’amante geloso, e queste semplici cose sarebbero bastate
per risvegliare
quella natura che mi animava. Lui, pur sapendo ciò che ero -
o, per meglio
dire, sapendo quel poco di cui ero venuto a conoscenza
anch’io -, non si faceva
poi tanti problemi a sfidarmi o a fare in modo che mi arrabbiassi, per
nulla
preoccupato delle conseguenze.
Si vive una volta sola,
diceva, e della sua vita gliene importava ben poco per sua stessa
ammissione. Io,
che ero diventato quell’essere proprio a causa del mio
attaccamento alla vita,
non lo comprendevo. Ma d’altra parte sembravo attendere
proprio il momento in
cui quella sua vita si sarebbe spenta, consumandosi a poco a poco come
la cera
d’una candela. Era come se aspettassi pazientemente qualcosa,
senza riuscire
ancora a comprenderne il motivo. Forse quando quel momento sarebbe
arrivato
l’avrei capito, e mi sarebbe anche stata spiegata la
sensazione che provavo
quando lo vedevo davvero all’opera, completamente immerso nel
suo mondo dove
nessuno, me incluso, poteva raggiungerlo. Quelli erano attimi in cui
qualcosa,
dentro di lui, fremeva, premeva insistentemente per poter uscire, e io
ero lì
ad osservare, pronto a ghermirla non appena si fosse liberata.
In quel momento, invece, Henry
non mi trasmetteva quella stessa percezione. Era soltanto un semplice
uomo che
giocava distratto con i suoi colori, senza dipingere ancora nulla di
concreto
com’era solito fare. «Mancanza
d’ispirazione?»
domandai sarcastico quando mi spostai di poco per sbirciare la tela,
vedendolo
abbassare il pennello per poggiarlo sulla tavolozza. Mise su una
sottospecie di
broncio che stonava non poco sul suo viso, poi, aggrottando la fronte e
incurvando le labbra all’ingiù.
Guardò a sua volta la tela
senza proferire ancora parola, come se la stesse contemplando. Era
diversa da
quelle che ero solito vedere, e me ne meravigliai: il tratto base dei
soggetti era chiaro e sottile, quasi nullo, e le pennellate
che componevano la
prima passata di sfondo erano solo linee di colore prive d’un
vero motivo.
Sembrava quasi che fossero state buttate lì a caso, e forse
era davvero così. Si
scorgeva vagamente un viso, in quell’ammasso di colori e
forme, ma era
piuttosto difficile stabilire il sesso del soggetto rappresentato.
«Sacrebleu, je suis un faillite [3]»,
mormorò infine nella sua lingua, abbandonando la tavolozza
su una sedia lì
accanto prima d’afferrare saldamente la tela per lanciarla
con foga sul lato
opposto della stanza. Andò a scontrarsi con la libreria
accostata al muro, e i
pesanti tomi che caddero non furono per niente pochi. Ma Henry non
sembrò
curarsene, alzandosi dallo sgabello che aveva occupato per dirigersi
invece
alla finestra, dove si accostò prima di tirar fuori un
sigaro.
«L’unica cosa di cui
sono
capace è dipingere, mon
amie,
ma se non riesco più a fare nemmeno quello, cosa
potrò mai inventarmi?» quella
sua domanda non sembrò diretta propriamente a me,
giacché non aspettò per
niente una risposta. Si accese invece il sigaro e se lo
portò alle labbra,
concedendosi quell’unico e piccolo piacere.
«Potresti ammazzarmi», continuò poi,
scompigliandosi i capelli. «Sarebbe di sicuro molto
più interessante di questo
mortorio».
Sollevai un
sopracciglio, prendendomi qualche attimo di silenzio, come se stessi
cercando
le parole adatte. C’era un lato di me che non si faceva poi
tutti questi
scrupoli ad uccidere, certo, ma se avessi ammazzato Henry, quali altri
svaghi
avrei avuto? Quel mio fantasma che mi era sembrato di vedere durante il
ritorno? Davvero una bella prospettiva.
Così sbuffai e, scuotendo il
capo, andai a recuperare la tela. «Cercati un altro mostro per farti
ammazzare, pittore», ribattei infine, chinandomi per prendere
anche alcuni
libri caduti. «Io e la morte abbiamo ancora un conto in
sospeso», soggiunsi
sarcastico, vedendolo appena con la coda dell’occhio storcere
il naso prima di
tirare una bella boccata dal suo sigaro. Fra le mani mi
capitò uno dei
tomi che tempo addietro avevo studiato nel tentativo di comprendere la
mia
natura, e mi ritrovai a carezzarne appena il dorso prima
d’alzarmi in piedi,
così da rimettere tutto a posto. «Credi ai
fantasmi, piuttosto?» domandai a
bruciapelo, accostando la tela contro la gamba d’un tavolino.
Henry assunse un’aria
piuttosto perplessa, dando vita ad
una breve risata per nulla divertita.
«Cos’è, uno scherzo?» chiese
in risposta.
«Sto parlando con una sottospecie di demone, mon Dieu»,
ci tenne a ricordarmi, come se poi ce ne fosse davvero
bisogno. «Chiesta da te, la cosa è alquanto
ironica».
Tagliai corto con un gesto
secco della mano, impedendogli di continuare. «Niente
sofismi, gradirei
piuttosto una risposta», insistetti, poiché non
riuscivo ancora a liberarmi
dell’immagine di quell’apparizione.
Però Henry scrollò
semplicemente le spalle, tirando un’altra boccata di fumo.
«Se credo in ciò che
vedo adesso e non sono dunque impazzito, perché non dovrei
credere anche
all’esistenza dei fantasmi? Non mi stupirei nemmeno se da
quella porta entrasse Dracula [4]
in
persona, in questo momento».
Quel suo sarcasmo, nonostante
tutto, mi fece brevemente sorridere. «Temo che tu sia rimasto
troppo a lungo
chiuso in questa stanza, pittore», dissi.
«L’odore di quei colori gioca brutti
scherzi».
«Sei stato tu ad avermelo
chiesto», mi tenne presente, scombinandosi ancora una volta i
corti capelli
castani prima di ravvivarli alla bell’e meglio
all’indietro. «Io mi sono solo
limitato a rispondere. Tu, piuttosto, sei più strano del
solito. E ce ne vuole,
aggiungerei».
Non
risposi, limitandomi solo ad attraversare la stanza per dirigermi verso
il mio
piano, carezzando lievemente il legno massello con cui era stata
lavorata la
parte superiore che nascondeva la cassa. Mi sedetti poi al mio posto,
alzando il
coperchio della tastiera per sfiorare con due dita i tasti bianchi e
neri. «Credo
d’aver intravisto uno spettro», rivelai infine.
«È stato solo un attimo, ma mi
ha guardato dritto negli occhi prima di sparire».
Henry mi fissò per una buona
manciata
di minuti, sorridendo poi lieve. «Oh, mon amie, e di cosa
ti preoccupi?» domandò, lasciandomi un
po’
basito. Ancora mi stupivo di come la vita di quell’essere
umano sembrasse
essersi ormai adattata alle stranezze di quel mio mondo sovrannaturale.
Non ne
era rimasto sconvolto come avevo creduto, bensì mi aveva
semplicemente posto
quella domanda. Forse, dopo dieci anni, quella sua padronanza nel
gestire situazioni
del genere era più che normale, chi poteva dirlo. Possibile
che quello stupito
fossi io che appartenevo a quel mondo e non lui?
«Non era questa la risposta
che
mi aspettavo, se me lo concedi», risposi poi, facendo
scivolare l’indice sulla
tastiera, vedendo di sfuggita Henry sorridere brevemente.
Spense il proprio sigaro nel
posacenere riposto su uno di quei bassi tavolini da the, rivolgendomi
poi un
cenno del capo. «Mon
cher»,
cominciò. «Se permetti, dopo dieci anni che ti
conosco ci sono ben poche cose
che possano riuscire a farmi scappare in preda al panico»,
soggiunse,
allargando di poco il sorriso «e il tuo aver visto uno
spettro non rientra
ancora tra queste, mi spiace».
A quelle sue parole mi
innervosii e, abbattendo con forza entrambe le mani sui tasti del
piano, creai
un suono grottesco e per nulla armonioso che si propagò
intorno a noi come una
lugubre melodia. «Dovresti temere un po’ di
più ciò che non conosci», lo
redarguii, ma lui si limitò ancora una volta a scrollare
semplicemente le spalle,
come se la cosa non lo riguardasse per niente.
«Ho ben altro da fare che
spaventarmi per ogni piccolezza esistente a questo mondo»,
ribatté
semplicemente, accennando poi un inchino nella mia direzione.
«Pardonne moi,
monsieur [5]»,
soggiunse poi, scomparendo nella stanza adiacente per tornare solo
svariati
minuti dopo con un’altra tela immacolata, riponendola sul
treppiedi occupato
poco prima da una sua sventurata compagna.
A quanto sembrava, Henry aveva
intenzione di riprendere il proprio lavoro, e di questo non mi stupivo.
Non
faceva altro che dipingere dalla mattina alla sera, per quel che ne
sapevo, e
forse i pasti che consumava si riducevano appena a del porrige e a del
pane di segale. L’unica
bevanda poteva magari essere del whisky scadente, ma non contavo
nemmeno su
quello. Se non avesse conservato almeno un briciolo di buon senso, si
sarebbe
lasciato morire di stenti e di fame dinanzi a quelle sue dannate tele.
Dopo quella nostra breve
conversazione non parlammo più, perdendoci l’uno
nel silenzio dell’altro. Lui
s’impegnò su quella sua nuova opera, io continuai
a pensare a quel ragazzo
fantasma che avevo intravisto appena, pigiando di tanto in tanto
qualche tasto
dello strumento dinanzi al quale ero seduto. Mi persi ben presto, sia
per mio
diletto sia per non curanza, nell’intonare la Sonata in Re
maggiore [6]
di
Mozart, di cui tempo addietro mi ero innamorato quando mi ero ritrovato
ad
ascoltarla. Lasciai che fossero le sue note a guidare i miei pensieri,
nella
vana speranza che li direzionasse presto altrove.
Era stata un’illusione, mi
ripetevo, forse timoroso che la follia che di tanto in tanto muoveva
Henry
stesse cominciando a divorare anche me. Ma come poteva mai essere che
uno stato
così umano potesse insinuarsi persino in una creatura pari a
un demone quale
ero io? Probabilmente era stata quella stessa trasformazione a rendermi
pazzo,
e gli effetti stavano iniziando a farsi vivi solo ora dopo secoli. Il
mio
pensarci con così tanta intensità ne era la
prova.
Interruppi di scatto la melodia
che avevo cominciato ad intonare e chiusi il coperchio della tastiera,
così
forte che quasi temetti di rompere esso e i tasti sottostanti.
Così facendo fui
capace di richiamare l’attenzione di Henry, che mi
osservò con tanto d’occhi
senza muovere un muscolo.
Lo fulminai con
un’occhiataccia, nervoso per un motivo che solo io conoscevo,
alzandomi poi per
andare a recuperare il mio giaccone. «Non
aspettarmi», dissi semplicemente in
tono secco, imboccando la porta prima di richiudermela con un tonfo
alle
spalle.
Scesi le scale in fretta e
furia, ritrovandomi ben presto nuovamente fra le strade di Londra. Non
pioveva
più forte come prima, fortunatamente, ma una leggera
pioggerellina continuava
insistentemente a scendere, bagnando il lastricato. Anche le grondaie e
i portici
dei palazzi che sorgevano sui lati delle strade gocciolavano
pigramente,
diffondendo nell’aria quel lieve ticchettio che preannunciava
una futura
schiarita.
L’ora era ormai tarda, dunque
erano poche le persone che ancora si attardavano fra le vie. Decisi di
spostarmi allora verso l’East End [7],
dove
avrei di sicuro potuto godere di qualche attimo di distrazione. Era
esattamente
quel che mi ci voleva, dopo tutte le reminiscenze che avevano affollato
i miei
pensieri per tutto il giorno. Avevo bisogno di uno svago, di un
qualunque
divertimento, di forviare magari qualche giovane mente come si
confaceva alla
mia natura stessa. Così facendo, forse, avrei anche potuto
dimenticare il reale
motivo che mi aveva spinto ad uscire.
Vagai fra quelle strade e quei
vicoli avvolto nel mio soprabito, silenzioso e rapido come
un’ombra,
evanescente io stesso come uno spettro. Quelle poche persone che
incrociavo - per lo più prostitute con i loro clienti, e ad
una certa distanza
il protettore che li seguiva -, sembravano non badare a me o non
vedermi
nemmeno, quasi fossi realmente inconsistente come la notte che ci
avvolgeva.
Non arrivai mai dove mi ero
prefissato, però, e la ragione non fu il mio perdermi fra i
miei pensieri,
stavolta: avevo udito quella stessa melodia che sembrava aver guidato i
miei
passi verso la città di Londra duecento anni or sono.
E seppur avessi cominciato
ormai a pensare che anch’essa fosse soltanto un parto della
mia mente,
probabilmente una rimembranza delle canzoni che mia madre, prima di
morire,
soleva cantarmi quand’ero bambino per conciliare il mio
sonno, avevo
semplicemente deciso di seguirla verso luoghi sconosciuti, perdendomi
nelle
note basse e cariche d’attesa prodotte da quello strumento
che, forse, in
realtà non esisteva.
[1] È
un’opera in 5 atti di William Shakespeare,
rivista da Ambroise Thomas con il nome di Hamlet e rappresentata
all’Opéra de
Paris il 9 marzo del 1868.
La tragedia assume un
carattere romantico: il suo senso iniziale viene stravolto, Amleto
perde la sua
solita e tagliente ironia, i cortigiani spariscono, il ruolo di Polonio
non
esiste, Gertrude sa del crimine e ne è persino complice. Il
dramma si restringe
sulla tensione al cuore del personaggio di Amleto, mentre i suoi
aspetti
bizzarri sono cancellati.
Nel corso del capitolo si
capirà vagamente la scelta del titolo.
[2]
Uno tra i più conosciuti drammi di Shakespeare,
nonché la tragedia più breve.
Modello della brama di potere
e dei suoi pericoli, tale opera è stata riadattata e
rappresentata
frequentemente nel corso dei secoli.
Per la trama Shakespeare si
ispirò liberamente al resoconto storico del re Macbeth di
Scozia di Raphael
Holinshed e quello del filosofo scozzese Hector Boece.
Ci sono molte superstizioni
fondate sulla credenza che il dramma sia in qualche modo maledetto e
molti attori non vogliono menzionarne ad alta voce il titolo,
riferendosi ad
esso come “Il dramma scozzese”.
Nel corso del capitolo si
capirà vagamente la scelta del titolo.
[3]
La
traduzione sarebbe “Accidenti, sono un fallito (O
fallimento)” ed è
naturalmente francese.
[4]
Nome del
protagonista di un romanzo gotico dalle atmosfere cupe e minacciose che
riprende il mito del vampiro, scritto nel 1897 dall’irlandese
Bram Stoker, che
si ispirò alla figura di Vlad III, principe di Valacchia.
[5]
La
traduzione sarebbe “Mi scusi, signore” ed
è naturalmente francese.
Potrebbe essere letto, a seconda di come lo si interpreta, anche come
“Mi
perdoni” o “Chiedo scusa”.
[6]
Fu composta ed eseguita a Londra nel 1765, ed è
la quarta sinfonia dell’allora giovane Mozart.
Si apre con un Allegro per variare poi con un Andante
e concludersi con un Presto.
[7]
Prossimo al vecchio porto di Londra, proprio per
tale motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un
posto in cui
stare.
La sua storia, a volte vista in chiave romantica, è
fatta di umorismo e valori della classe operaia, ma anche di delitti
come
quelli di Jack lo Squartatore a Whitechapel, crimine organizzato,
gangsters
come la Banda Kray, povertà affrontata e resa sopportabile
dalla tenacia
britannica.
La verità, forse un po’ cruda, è che
nell’East End si
concentrano alcuni dei quartieri più poveri del Regno Unito,
con tutti i
problemi che ciò comporta.
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