Dreams melt into Nightmares
Ricordava
distintamente di non essere uscito dall’ufficio della sua agenzia
investigativa: si era semplicemente limitato a mandare i suoi due
schiavi a far pubblicità alla sua attività, poi non aveva
più mosso un muscolo. L’unica cosa che aveva fatto era
stata reclinare all’indietro lo schienale della sua poltrona ed
osservare il soffitto, aspettando che i suoi sensi rilevassero un
qualche mistero nelle vicinanze di cui nutrirsi.
Probabilmente si era assopito, perché era perfettamente conscio di
cosa potesse e non potesse fare in quanto demone, ed una delle sue
mancanze era senz’ombra di dubbio quella del teletrasporto non
intenzionale.
Comunque, in qualsiasi modo fosse andata, adesso si ritrovava in un posto che con il suo ufficio non aveva assolutamente niente a che fare.
Si trattava di un prato,
una distesa d’erba fitta e bassa che ricopriva una miriade di
colli dai dolci pendii che sembravano succedersi ad intervalli
irregolari fino all’orizzonte, creando tra di loro piccole valli.
Neuro volse lo sguardo
intorno a sé un paio di volte, incrociando le braccia sul petto:
non c’era traccia di un’anima viva nel raggio di chilometri.
C’era solamente lui.
Le alternative che gli si
presentavano innanzi erano due, semplicissime: rimanere inchiodato
lì e aspettare che accadesse qualcosa, magari che si svegliasse,
oppure muoversi e andare in cerca di altre forme di vita, più o
meno intelligenti che fossero.
Optò per la seconda
chance, così s’incamminò lentamente lungo il
pendio, le palpebre a mezz’asta in un’espressione vagamente
pensosa e gli occhi che guardavano il prato che scorreva sotto i suoi
piedi.
Sembrava assorto in pensieri lontani dal luogo dove si trovava.
«Neuro!».
Una voce femminile che gli
era dannatamente familiare lo distrasse dal suo apparente stato
meditativo, facendogli alzare la testa.
Si guardò intorno,
finché non incrociò la minuta figura dalla quale gli era
pervenuto il richiamo: con la solita uniforme scolastica indosso, Yako
gli stava correndo incontro, sorridendo estasiata - per cosa, Neuro non
avrebbe saputo dirlo, ma non gl’importava granché saperlo.
La cosa importante, in quel
momento, era il fatto che stava correndo verso di lui e che sembrava
che quell’espressione estatica fosse rivolta proprio a lui
- un pensiero di per sé stomachevole, considerato che il demone
le aveva più d’una volta fatto bene intendere che lui era
dominante e lei soltanto una pezza per i piedi.
Non aveva i diritti
necessari per rivolgergli un sorriso del genere - e poi lui era privo
di sentimenti e tutte le manifestazioni di questi ultimi, a prescindere
da quali fossero, lo infastidivano.
Non c’era assolutamente nessun legame affettivo tra loro e mai ci sarebbe potuto essere. E allora... perché quell’espressione?!
Quando fu a circa tre metri
di distanza, Yako lo chiamò di nuovo, ma stavolta la voce gli
giunse più soffusa, riecheggiante, anche se non c’era
niente là intorno che potesse creare un effetto eco, e Neuro
avvertì l’improvviso istinto di abbracciarla - del genere “stringere tra le proprie braccia con fare estremamente protettivo”.
Avrebbe voluto afferrarla
per la testa e sbatterle il viso a terra, come faceva di solito,
così da cancellarle quel sorriso dalla faccia, eppure quando la
ragazza gli si gettò addosso l’accolse tra le braccia,
carezzandole dolcemente i capelli, appoggiandole il mento sul capo.
Erano cose che facevano i bravi fidanzatini, non certo un demone, men che meno con un essere inferiore come un umano.
Nonostante la
consapevolezza di ciò, una parte di lui l’obbligava a
rimanere in quella posizione, permettendo che la guancia della ragazza
strusciasse contro il proprio petto - l’altra parte, quella
più violenta e tuttavia soppressa, avrebbe risolto tutta
quell’astrusa situazione in fretta ed in modo indolore, almeno
per sé stesso.
Dopo qualche minuto
sentì le proprie labbra schiudersi e la propria voce proferire
un caldo ed affettuoso: «Sensei...» con quella vocetta che
usava solitamente per fingersi umano.
Se fosse stato due persone
distinte, al vedere quella scena il secondo sé stesso avrebbe
dato di stomaco: era tutto così melenso, troppo per i suoi gusti.
Yako si staccò
all’improvviso da lui e lo guardò dritto negli occhi per
alcuni istanti, poi gli prese una mano e lo tirò a sé,
trascinandolo verso il declivio erboso.
«Andiamo a fare una passeggiata?» gli domandò con una voce pura e casta.
L’immagine che
risultava di lei agli occhi del demone era di una bambola di vetro
suscettibile a rompersi anche per un insignificante alito di vento e ne
conseguiva un irrefrenabile ed assolutamente incongruo bisogno di
difenderla che strideva con il suo vero io.
Invece di liberarsi
malamente dalla sua presa e scaraventarla a terra, Neuro le rispose
candidamente: «Certamente, sensei...!».
Si tenevano mano nella mano
e lui la seguiva con un sorriso in viso così innocente da farlo
rassomigliare inquietantemente alla versione umana di sé stesso.
Era insopportabile sapere di star sorridendo quando in realtà non avresti mai voluto farlo.
Se da fuori Neuro sembrava
carino e sorridente, nel suo inconscio si stava scatenando un vero e
proprio putiferio: era come se il vero
Neuro fosse stato ingabbiato all’interno del suo stesso corpo,
lasciando che si manifestasse solamente la parte più umana del
suo carattere.
La visione
dell’esterno del demone ebbe un tremito improvviso, ma rimase
sostanzialmente inalterata. L’unica differenza era che,
all’improvviso, lui si trovava in uno spazio rosso sangue seduto
sul fondo di una gabbia di metallo nero e vedeva l’ambiente che
lo circondava come una sottile patina sfocata che riusciva ad acquisire
nitidezza soltanto quando fissava il vuoto.
Adesso la metafora del suo
“vero io intrappolato nel suo stesso inconscio” era
diventata improvvisamente reale, senza un suo perché effettivo.
Si alzò e s’accostò alle sbarre, afferrandole e tentando di forzarle, senza tuttavia riuscirvi.
Non riusciva a capire perché tutto ciò stesse accadendo e perché proprio a lui: non doveva essere il suo sogno, quello?
«Neuro... ti amo».
La voce di Yako gli riecheggiò nella testa, facendolo montare su tutte le furie: che le era saltato in mente?!
Si tolse i guanti e tentò di tagliare l’inferriata con le unghie, invano.
Doveva liberarsi ad ogni
costo da quella prigione e riuscire a riprendere il controllo sulle
proprie azioni prima che facesse qualcosa di irreparabile.
«... anch’io, sensei».
Sentire la sua “voce
umana” proferire quelle parole fu come una doccia d’acqua
fredda che lo colse completamente alla sprovvista: lui non l’amava!
Non poteva amarla, perché non poteva concepire alcun tipo di sentimento.
Strattonò più
e più volte le sbarre, senza muoverle nemmeno d’un
centimetro, gli occhi che scintillavano smeraldini nella penombra
dell’antro in cui si trovava.
Il suo sguardo, che non
fissava niente in particolare, riusciva a distinguere un poco
più chiaramente la scena che si parava innanzi alla sua vista
“fisica”: Yako si stava sporgendo verso di lui, il quale a
propria volta si stava chinando su di lei.
Già il fatto che si
stessero lentamente avvicinando l’un l’altra lo stava
allertando circa cosa sarebbe successo di lì a pochi attimi,
fatto che lo fece profondamente rabbrividire, ma in quelle condizioni
non sarebbe riuscito ad impedire che accadesse.
Avvertì il profumo
della ragazza invadergli il naso - odorava di fiori, con un retrogusto
dolciastro che non riusciva ad individuare - il sapore delle sue labbra
e la leggera pressione di queste sulle sue. Era un contatto delicato
quello che lei cercava, ma pur sempre un contatto e a lui non piaceva
affatto.
Quel bacio lo
pietrificò dov’era lasciandolo esterrefatto: era
così dolce eppure pieno di timida passione. Non riusciva a
capacitarsi che stesse accadendo una cosa simile. Da un ipotetico sogno
quello si era trasformato nel suo peggior incubo: scendere a patetici
compromessi con il lato umano che stava emergendo da dentro di lui con
il trascorrere del tempo, e quel bacio sembrava essere proprio uno di
quegli accordi.
Il contatto tra le loro
labbra si protrasse per dei minuti, avvertendo un dolore sempre
più forte dentro il cranio: sentiva come un fuoco che gli stava
divorando la mente ogni secondo che passava. Era come se la sua parte
umana gli stesse mangiando le cervella ed era tremendo persino per i
suoi standard di sopportazione.
Ad un tratto, nella testa
udì distintamente il riecheggiare del rumore di un vetro che
andava in frantumi nello stesso istante in cui una fitta ancor
più acuta del dolore che lo stava consumando gli esplodeva
all’altezza delle tempie.
Sentì una mano
artigliargli il petto e strappargli qualcosa, mozzandogli il respiro,
poi si trovò catapultato fuori della gabbia, nel suo vero corpo, finalmente di nuovo padrone delle sue azioni.
Fortunatamente, anche il dolore era cessato.
A quel punto rivolse
un’occhiata di fuoco all’indirizzo di Yako, cercando di
svincolarsi dalla sua presa senza riuscirvi.
«Non abbandonarmi, amore...».
Il viso della fanciulla si
trasformò all’improvviso sotto il suo sguardo: le guance
si scavarono fino a mettere in macabro risalto gli zigomi, occhiaie
nere allagate di sangue le comparvero sotto gli occhi, stranamente
più grandi del normale ed infossati nel cranio.
Somigliava indescrivibilmente ad un cadavere.
Il cielo tutt’a un tratto iniziò a colare, lasciando scoperta una volta celeste sanguigna e lugubre.
L’erba schiarì fino a diventare trasparente ed assunse la fragile solidità del vetro.
La creatura che fino a poco
prima era Yako serrò ulteriormente la presa sul polso del
demone, che non si peritò minimamente ad affibbiarle un ceffone
tale da scaraventarla a qualche metro di distanza.
Nel colpirla al viso, le ossa del suo collo emisero una macabra serie di scricchiolii, come se qualcuna si fosse spezzata.
Neuro indietreggiò, togliendo i guanti, rivelando le sue vere mani: se quella cosa voleva combattere, poteva farsi comodamente avanti. Lui era certo della propria superiorità.
La ragazza si
rialzò, lo fissò... e scomparve. Nel punto in cui lei era
fino ad un momento prima, adesso non c’era più niente!
Il demone si guardò prudentemente attorno, i muscoli pronti a scattare alla minima avvisaglia di pericolo.
«Neuro...!».
La sua voce gli giunse da
dietro di sé, facendolo voltare di scatto, tuttavia non fu
abbastanza svelto a contrattaccare: Yako gli saltò addosso,
afferrandolo al collo, stringendo con forza.
Neuro abbatté senza
pietà gli artigli sui suoi arti, spezzandoglieli di netto dal
resto del corpo, spruzzando una raggiera di sangue tutt’attorno.
Lei sibilò di rabbia e dolore, ma le sue mani continuarono a stringere.
Lui iniziava ad annaspare,
l’aria che principiava a non arrivare più ai suoi polmoni.
Stava soffocando e non sembrava esserci modo di fermare il suo
aggressore, che riusciva a strangolarlo pur avendo gli arti strappati.
Continuò a straziare
il suo corpo a suon d’unghiate, cercando di ferirla in punti
chiave in modo da farla fermare, senza riuscirvi.
«Amore...» continuava a ripetere, in un ossessivo mormorio.
Ogni volta che quella
parola fuoriusciva dalle sue labbra le sue dita si stringevano di
più attorno alla sua gola, affondando senza timori nella sua
carne.
Il suo petto era coperto
del sangue che fuoriusciva dai graffi che gli aveva aperto con le mani,
anch’esse inzaccherate di rosso.
Se solo avesse potuto sapere dove colpire per metterla a tacere definitivamente...!
«... non puoi lasciarmi»
disse Yako, dando una stretta vigorosa che tagliò drasticamente
il già debole apporto d’aria ai suoi polmoni.
In uno sprazzo d’ira
feroce contro la sua ferrea ed insensata volontà
d’ucciderlo, Neuro la colpì alla testa.
Con un grido straziante che
gli lacerò i timpani, la testa della creatura cedette sotto la
sua mano ed uno schizzo di sangue gli cadde sugli occhi,
accecandolo.
«NEURO SVEGLIATI!».
Il demone aprì gli occhi di scatto, stralunato, ritrovandosi a guardare il soffitto del suo ufficio.
Si drizzò meglio
sulla sedia e spostò lo sguardo al fianco della sedia,
incontrando Yako, l’espressione preoccupata e perplessa.
Era di nuovo normale:
guance piene e lisce, occhi grandi il giusto senza il minimo segno
né d’occhiaie né di sangue.
«Ti stavi agitando
nel sonno... sembrava che stessi soffocando» esclamò lei,
come a giustificare la sua presenza lì, accanto a lui.
Il demone l’afferrò per i capelli e la scaraventò a terra.
«Ahio...! Che cosa ho
fatto?» domandò la ragazza, mettendosi carponi, girandosi
per metà verso di lui con un delizioso broncio in viso,
massaggiandosi la testa.
Neuro si toccò il
collo, che non gli doleva minimamente, poi, senza degnarla di alcuna
risposta, girò la sua poltrona verso la finestra.
Era stato tutto un sogno, ma era stato dannatamente vivido, soprattutto lo strangolamento e quel bacio; eppure, non riusciva ad attribuirgli alcun tipo di significato.
Forse - suppose infine - era stato soltanto uno scherzo meschino della sua mente.
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