-Gestation-
Non potevo
certo immaginare che quella mia scelta di non fare alcuna ecografia
sarebbe stata la sua sola salvezza, o quei mostri mi avrebbero
costretta ad abortire.
E uno dei primi ad attivarsi sarebbe stato proprio lui, Kurama.
Il mio sposo.
Colui che pensavo l’avrebbe amata come non si ama nessun
altra persona al mondo.
[Hiromi + Mariko]
FanFiction partecipante alla Challenge "The COW-T - Terza settimana"
indetta su maridichallenge
-Titolo: Gestation
-Autore:
XShade-Shinra
-Anime:
Elfen Lied
-Personaggi:
Hiromi, Mariko
-Genere:
Gen, Introspettivo, Sci-fi
-Rating:
Giallo
-Warning:
Missing Moment
-Capitoli:
One-Shot
-Prompt:
Attesa
-Disclaimer:
Tutti i personaggi
di questa storia sono maggiorenni e comunque non esistono/non sono
esistiti realmente, come d’altronde i fatti in essa narrati.
Inoltre questi personaggi non mi appartengono (purtroppo...), ma sono
proprietà dei relativi autori; questa storia è
stata
scritta senza alcuno scopo di lucro ma solo per puro divertimento.
-Note: La FF
è divisa in due parti, con due POV diversi: il primo
è di Hiromi, il secondo di Mariko.
Ringrazio la mia E.P. (Fiamma Drakon) per la betatura lampo! <3
- Gestation -
«
Come la chiameremo?
»
Quella domanda mi sta ronzando in testa da quando il mio consorte me
l’ha porta.
Ci sarebbero stati ancora cinque lunghi mesi di attesa prima di poter
vedere il nostro primo figlio venire alla luce, dopo tutte le volte che
abbiamo provato ad averne uno. Nel frattempo mi terrà
compagnia e non mi sentirò mai sola mentre mio marito
è al lavoro.
Non so se prenderà i miei capelli castani, o il taglio
severo degli occhi del padre. Nemmeno cosa vorrà fare da
grande, se sarà studioso o meno, se diventerà
Presidente o netturbino; ma già lo amo.
L’ho desiderato per così tanto tempo che quando mi
hanno detto che il test di gravidanza era positivo e non era uno
sbaglio, mi ero messa a piangere dalla gioia – ormai la
fecondazione in vitro era rimasta la nostra ultima
speranza.
Poiché tengo particolarmente a questo bambino, che
è sia parte di me che parte del mio adorato marito, sto
facendo tutte le analisi necessarie e sto prendendo tutte le medicine
che possono aiutarlo a nascere e crescere forte e sano, ma non
l’ho voluto vedere con un’ecografia. Non voglio
sapere se sarà una femminuccia o un maschietto,
sarà una sorpresa.
Una bellissima sorpresa dopo nove mesi. Ma quell’attesa non
è solo per me, ma anche e soprattutto per lui, che
sicuramente non aspetta altro che venire al mondo per scoprire quanto
sia bello e vivere felice con i suoi genitori, che lo ameranno
indiscriminatamente da tutto.
~ Non potevo
certo immaginare che quella mia scelta di non fare alcuna ecografia
sarebbe stata la sua sola salvezza, o quei mostri mi avrebbero
costretta ad abortire.
E uno dei primi ad attivarsi sarebbe stato proprio lui,
Kurama.
Il mio sposo.
Colui che pensavo l’avrebbe amata come non si ama
nessun altra persona al mondo. ~
« Come la
chiameremo? »
« Se sarà una bambina,
voglio che si chiami Mariko. »
« Va bene. Mi piace. »
~†~
Quando ero ancora là dentro, mi chiedevo spesso cosa ci
fosse al di fuori di quello spazio troppo piccolo per potersi muovere
all’interno di esso e troppo grande per poterlo definire una
tomba.
Le uniche cose che sapevo di ciò che c’era fuori
da quel liquido, che non permetteva che mi si formassero le piaghe da
decubito e manteneva il mio corpo ad una temperatura ottimale, mi
veniva raccontato dalle dolci parole della “mamma”,
la Dottoressa Saitou, colei che era stata incaricata di fornirmi un
supporto psicologico per poter sopravvivere senza impazzire.
Ma è difficile non diventare pazzi per una creatura che
possiede un Q.I. così elevato e che è costretta a
vivere in una gabbia, non trovate, sciocchi umani? Anche le fiere
diventano matte dentro le loro prigioni, arrivando ad auto-lesionarsi
una volta precipitati nella spirale bianca e nera della pazzia.
Oltre la poca compagnia che potevo avere dalla mamma,
cos’altro mi avete offerto se non la solitudine e la noia?
A parte dormire, non avevo nulla che riempisse le mie giornate e che mi
fungesse da valvola di sfogo. Mi nutrivate attraverso dei tubi
– quelle cose
che chiamate flebo –, senza farmi conoscere il vero sapore
del cibo, e scartavo il superfluo attraverso altri tubi, senza che
dovessi fare nulla.
Vivevo come una pianta e soffrivo silenziosamente per non far notare
agli scienziati che, piano piano stavo diventando pericolosa
– sia per loro che per me stessa.
Nonostante mi avessero messa in quella cella di contenimento, creata
per isolarmi dal mondo esterno per più di undici metri,
perché i miei ventisei vettori non potessero nuocere, ero
certa che non si sentissero sicuri a lavorare a stretto contatto con
me.
« Mamma, perché non posso venire da te?
» domandai una volta alla ricercatrice, durante una delle
nostre tante chiacchierate.
« Perché per il momento devi rimanere
là. » mi spiegò calma.
« Ma io qui non ho nulla da fare… sto male se non
ci sei tu. » pigolai.
Quelle parole cariche di dolore, furono lette come una dichiarazione
d’amore per la mamma, che quasi scoppiò a piangere
dicendo ai suoi colleghi « Avete visto? Sono importante per
lei! Mi vuole bene! », e io avrei tanto voluto
dirle che non era importante, ma fondamentale
per me, perché altrimenti mi sarei uccisa con le mie stesse
mani, anzi con i miei vettori, se non avessi avuto quel poco di tempo
impegnato.
Quella prigione nella quale ero stata tenuta reclusa per ben cinque
anni – e che a me ricordava tanto un feto materno, come se in
realtà non fossi mai nata o come se fossi figlia di quei
freddi pannelli di acciaio – mi aveva insegnato solo una
cosa: mai fidarsi di quegli esseri mostruosi così simili a
noi Silpelit che si fanno chiamare “umani”.
Potevo avvertire la presenza di altri Diclonius come me dentro quella
struttura di contenimento, quel laboratorio che utilizzavano per
studiarci, e potevo sentire chiaramente la loro sofferenza; non solo
fisica, ma anche e soprattutto psicologica, ed ero certa che anche loro
riuscissero a captare la mia, nascosta in un guscio di freddezza ed
impassibilità che si infranse come uno specchio buttato a
terra quando finalmente la mia lunghissima attesa –
l’aspettare qualcosa che non sapevo nemmeno cosa fosse,
perché ignoto – finì.
E finalmente mi sentii viva.
Quando aprirono le paratie dell’unità di
contenimento, mi sentii come nascere per la prima volta, come se avessi
atteso nell’utero materno per ben cinque anni e nove mesi.
La luce artificiale di quella stanza mi riscaldava appena e mi ridava
vita, come un fiore nato nel buio ed esposto finalmente al sole, i cui
raggi effettivamente mi ferivano gli occhi – i quali non
avevano visto altro se non il nero delle tenebre e il tenue led delle
lucine all’interno della mia prigione –, ma ne
valeva la pena.
Le gambe non riuscivano a reggere il mio corpo, poiché non
avevo sviluppato i muscoli necessari per sostenere il mio stesso peso,
anche se i miei vettori sarebbero stati abbastanza forti per tenermi in
piedi. L’unico problema fu che non riuscii ad utilizzarli
subito e caddi a peso morto sul pavimento, facendomi un po’
male.
Il dolore.
Non avevo mai provato una cosa simile.
Era… bellissimo.
Vista, tatto, gusto, odorato, udito.
Tutti i miei cinque sensi si erano affinati, e si stavano svegliando
piano piano a causa della lunga attesa, come quelli di un bruco che
intacca la pupa e poi la rompe, uscendo dalla crisalide sottoforma di
farfalla, riuscendo a vedere il mondo dall'alto.
Mentre cadevo, mia “madre” mi corse incontro,
preoccupata.
Ora mi ha presa in braccio, ed io le sto abbozzando un sorriso.
L’attesa è finita.
Sono finalmente nata.
E posso sentirmi viva.
« Come la
chiameremo? »
« Se sarà una bambina,
voglio che si chiami Mariko. »
« Va
bene. Mi piace. »
« Ah, Kurama?
»
«
Sì, Hiromi? »
« Secondo te, di quale colore
potrebbe piacergli la tutina? »
« Non
lo so, Hiromi. Io gliela comprerei rossa, dopotutto è un
colore che piace ad entrambi… »
E la mia vita
– la mia vera vita – ha inizio con il colore
più bello.
Il rosso del sangue.
§Owari§
XShade-Shinra
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