Novembre
Novembre.
Un altro foglio cade sul pavimento della cucina, cianotica luce ingloba
in sé raggi di un biancore desolante, assopisce la vista
scaraventandola verso l’ infinito indecifrabile, colmo di immenso
silenzio. Emerge dalla gola quel desiderio di vedere attraverso occhi
di onice, per lasciar spegnere nella loro pesantezza ogni infuriare
d’ onde cerebrali, cumuli di pensieri, distruzioni personali, la
contaminazione e le nostre fragili teche riposte via, sotto lo spessore
delle viscere, mai abbastanza sorde.
Essenza scalfita, ma non perduta, eppure quante volte avresti voluto
annegare quella indecisione forgiata, indomata. Non ti perdoneresti mai
se qualcuno vi sbirciasse, o osasse tenerti immobile.
Cosa ne resterebbe del resto, di quella solitudine metafisica a prova
di colpi, di proiettili. L’ equilibrio della stabilità di
un battito regolare. Eppure emorragiche perdite si dilagano.
Non appartenere a nessuno, per i corpi spenti abbandonati, segnati dal
tuo male, saggiati dalla tua stessa sfiducia nel genere, nell’
altalenante bisogno di placarsi fino a svanire.
Affidarsi all’ aria gelida, intorpidisce le dita che si fanno
rosse come le sfumature tenui dell’ albeggiare, fatiscenti ombre
oblunghe vegliano al seguito dei tuoi passi, fra le strade vuote e il
solito lampeggiare ridondante dei semafori, sembrano domandarsi cosa
vorresti da quel risorgere del giorno.
Binari morti di menti intorpidite, sbadate, perennemente stanche.
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