1 - Electric Blue Feline Eyes
Electric Blue Feline Eyes
Sono bastate ventiquattro ore per cambiare.
Era il 2020, e, dalla mezzanotte che separava il 10 e l’11
giugno
e la mezzanotte che separava l’11 e il 12, c’era
una
differenza abissale. La razza umana.
Il mio fratellino-genio mi ha spiegato come è partito tutto,
con
parole semplici. Da una base che si trovava all’esatto centro
del
Polo Nord è evacuato un virus, che, in ventiquattro ore
esatte,
si è espanso. Loro volevano studiare dei metodi per
migliorare
le potenzialità del cervello umano, combinandolo un
po’
con quello degli altri animali, un po’ aggiungendoci e
togliendogli qualche sostanza chimica. Fatto sta che qualcosa
è
andato storto: il gene che erano riusciti a creare, il wild-type, ha
subìto una mutazione improvvisa, ed è diventato
una sorta
di virus a contagio altissimo, che in una misera giornata ha fatto
venire il moccio al naso al pianeta Terra. Il punto è che
non
era moccio, per niente.
Immaginate.
Siete in classe, una mano appoggiata alla faccia, il brusio del delirio
del prof vi disturba, ma voi prontamente pensate ad altro. Vi dite:
altri due giorni e arrivano le vacanze estive, forza, resisti. Spostate
lo sguardo all’interno dell’astuccio, premete un
tasto a
caso e il cellulare si illumina. Manca ancora mezz’ora alla
fine
della lezione, dannazione. Poi tirate di nuovo su lo sguardo, e vedete
che il prof si accascia a terra. Poi, fila dopo fila, più di
tre
quarti dei vostri compagni di classe cadono a faccia in giù
sul
banco, come svenuti. Ma a cinque studenti iniziano a venire delle
specie di convulsioni. Gridano, e, nel frattempo, si sentono le urla
provenire da altre classi, ma non solo urla, anche strilli di
ragazzine, ruggiti – sono ruggiti, quelli?, ringhi, botti,
strani
versi. Infine, i vostri compagni di classe che non si sono accasciati
sul banco, si irrigidiscono, e, con un’andatura zoppicante e
traballante, si alzano dalla sedia. Voi aggrottare le sopracciglia, vi
chiedete se state sognando. Notate che, lentamente, stanno cadendo loro
i capelli, a ciocche. Vi alzate in piedi, guardandovi in giro
circospetti – che cazzo di scherzo è questo?!
– e
notate un vostro compagno, in piedi dietro di voi. Ha uno strano
ghigno, un occhio girato verso l‘interno, tende le mani verso
di
voi. Gli tirate uno spintone, notate che perde un paio di unghie. Vi
scappa una specie di urletto, indietreggiate fino alla porta, la
spalancate, uscite, la richiudete. Fuori dall’incubo, vi
rassicurate. E invece no, vi replicate, alzando lo sguardo
sull’orribile spettacolo che una volta era il corridoio:
peggio
della classe. Urlate, con tutta la voce che avete in gola, e cinque di
quei cosi si voltano nella vostra direzione. Vi tappate la bocca, vi
mordete la lingua. Fate un respiro profondo, e correte. Correte fuori
dalla scuola, per accertarvi che nelle strade è anche
peggio.
Centinaia di corpi abbandonati, decine di cosi che girano emettendo
lamenti lugubri e scontrandosi l’uno con l’altro.
Auto
schiantate qua e là, sirene che suonano impazzite. Ma voi
siete
pieni di adrenalina, correte, correte, correte, correte. Fino a che non
gli andate a sbattere contro.
« Riku?
»
Ha lo sguardo tranquillo, pacato. Una sigaretta di marijuana in bocca,
credo. Di sicuro non è una di quelle alla menta, ci
scommetterei.
« Sora, dimmi
che non sono fatto. » pronuncia lentamente, con
la sua solita voce rotta e graffiante.
« Se sei fatto
tu, allora lo sono anche io. » gli rispondo.
« Fico.
» mormora
lui in risposta, facendo un tiro. Poi mi prende per il polso e inizia a
trascinarmi, ma non deve fare molta fatica, lo seguo tranquillamente. I
cosi sembrano non darci molta corda, al momento sembrano attirati dai
cadaveri che ricoprono i marciapiedi.
« Che cazzo
succede? » gli chiedo, mentre camminiamo. non mi
aspetto una risposta, in fondo.
« Ma che cazzo
ne so? » replica, con tono leggermente irritato.
Continuiamo a camminare per un po’, e nel frattempo capisco.
Mi
sta portando nel suo appartamento, probabilmente quel posto
è
sicuro. E, ancora più probabilmente, quando mi sono
scontrato
con lui, era perché mi stava cercando.
« Riku?
»
« Cazzo vuoi?
»
« Hai i
capelli bianchi. »
« Affanculo.
»
« No,
seriamente. Hai i capelli bianchi.
» gli faccio notare. Non sono palle: normalmente, lui
è
sempre stato biondo cenere, ma i suoi capelli si stavano pian piano
colorando d’argento.
Lo guardo prendersi una ciocca e fissarsela, sempre camminando.
« Minchia.
», lo sento soffiare. Ma non si ferma, fino a che, dieci
minuti
dopo, non arriviamo al suo condominio. Una zona un po’
fatiscente
e abbandonata, un brutto quartiere. Di buono c’è
che poca
gente transitava in quelle zone di giorno, così non troppi
cadaveri ornavano le strade.
Mi lascia il polso solo quando chiude bene a chiave la porta. Lui si
butta sul divano, io mi siedo sopra il tavolo. Ci guardiamo negli
occhi, senza dire nulla. Non ce n’è bisogno, non
c’è nulla da dire.
È diventato tutto una fottuta merda.
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