È
la prima volta che nella mia serie Raining Stones tratto del
personaggio di Uryuu Ishida in modo approfondito. Beh era anche ora
che ne parlassi!
Comunque,
tornando alla storia, qui si parla di epilessia. Mi sono documentata
sulla malattia ovviamente, anche se comunque mi sono presa delle
piccole libertà letterarie. Niente di esagerato o di
denigrante sia
chiaro – è l'ultima cosa che voglio. Un'altra
libertà è stata di
creare una secondogenita per Mayuri (già apparsa in
“Vendetta”
se non l'avete letta) oltre alla già canonica Nemu. Non
è una
scelta buttata in aria ma è il tutto ai fini di trama.
Ricordate
che le più insulse stupidaggini che mostro poi avranno, in
futuro,
pesanti ripercussioni in tutti gli avvenimenti della serie.
Per
il resto, la storia si riallaccia a “Malizia” oltre
che alla
succitata “Vendetta”, anche se comunque potete
leggerla senza
aver letto prima le altre.
Detto
questo vi auguro buona lettura, e ditemi cosa ne pensate grazie ^^
Ps:
il titolo è liberamente ispirato alla canzone dei Led
Zepelin
“Stairway
To Heaven” che ho trovato perfetta per questa storia.
Al mattino aveva assistito
ad uno spettacolo a dir poco incredibile sulla veranda di casa.
Non che assistere ad un
colossale pestaggio tra Ichigo Kurosaki e quel rozzo esemplare umano
di Grimmjow Jaggerjack – con l'aggiunta del signor Isshin
Kurosaki
dalle sorprendenti abilità di ballerino in mezzo alla lotta
–
fosse uno spettacolo apprezzabile agli occhi di Uryuu Ishida. Ma vi
era un sottile senso di appagamento nel vedere quelle scimmie
antropomorfe darsela di santa ragione, che per uno strano
motivo decise di non bloccarli.
Per quel mattino, se ne
era rimasto seduto su di una sedia a gambe incrociate a consumare i
propri cereali con assoluta tranquillità.
Anzi, chiunque fosse
passato di li, oltre ad osservare tre imbecilli che se le davano come
delle ragazzine in delirio, avrebbe visto per giunta un ragazzo che
li scrutava con fare annoiato. Come se fosse stato davanti alla
televisione a guardare un programma noioso, anziché un
pestaggio
preoccupante e intervenire per calmare gli animi.
Uryuu lo sapeva, che
quando Jaggerjack , un tizio decisamente poco raccomandabile che
viveva nel condominio a due passi dalla loro abitazione, si metteva a
litigare con Ichigo era meglio farsi gli affari propri.
Neppure quando i tre
ebbero finito con il loro spettacolino disgustoso, dette loro un
aiuto concreto. Semplicemente, si limitò ad alzarsi dalla
sedia in
silenzio una volta finita la colazione, per tornarsene in casa.
Aveva da fare
all'università quel giorno, pertanto non aveva tempo e
neppure la
voglia di indignarsi anche giusto dieci minuti.
Già ci pensavano Renji e
Yumichika – entrambi affacciati alla finestra della cucina
– a
pensare ai tre caduti filmandoli con il cellulare e congratulandosi
con loro quando eseguivano mosse di karate degne di essere chiamate
tali, per cui lui non aveva bisogno di star li a prestare loro
soccorso medico.
Prima avrebbe preso la sua
laurea in chirurgia e poi avrebbe operato per salvare loro la
pellaccia. Ma a gratis gli andava stretto fare queste cose.
Per tal motivo, una volta
che si fu vestito di semplici abiti confezionati da lui stesso, se ne
andò dalla villetta a schiera che occupava assieme ad altri
coinquilini – quasi tutti discutibili e cafoni –
tutti impegnati
ad accaparrarsi una laurea il prima possibile, zaino in spalla e
deciso ad ignorare i tre uomini ormai agonizzanti a terra e a pochi
passi dall'entrata di casa.
Dentro alla vecchia sacca
che si portava dietro dalle scuole medie, i libri da riconsegnare
alla biblioteca dell'università, il blocco per gli appunti e
giusto
una salutare mela per non rimanere affamato all'ora di pranzo.
Pochi spiccioli nelle
tasche giusto per l'autobus di ritorno e quei pochi soldi che
guadagnava con il suo lavoretto part-time nella piccola biblioteca di
quartiere, se li teneva ben stretti per pagare una parte dell'affitto
e spese varie.
Alla povertà il giovane
Ishida ci aveva fatto il callo. Quasi facesse parte della sua
formazione cattolica impartitagli da suo nonno – una delle
poche
persone al mondo che riteneva degne di essere considerate tali
–
non era mai andato a chiedere spiccioli al padre, ne quest'ultimo
gliene aveva mai dati.
No, tra lui e Ryuken
Ishida – questo era il nome del suo detestabile
padre –
non scorreva affatto buon sangue. E del perchè e del come
fossero
giunti a tanto era una lunga storia che gli dava fastidio anche solo
sfiorare con il pensiero.
Per questo, si incamminò
agile per lo stradello lastricato che dava fino alla strada,
soffermandosi solo un minuto davanti ad un Ichigo rantolante e sporco
di sangue. Il setto nasale rotto la diceva lunga sul furioso
pestaggio che lo aveva coinvolto nell'ennesima lite con Grimmjow.
“Tu e la discrezione
proprio non sapete andare a braccetto, vero?”
si sistemò sul naso gli
occhiali nel dire quelle parole, dando così ad Ichigo una
scarsa
visuale dei suoi occhi scuri a causa del riflesso del sole.
“Fattfi
gli affavi
tuoi... caffo...” borbottò in direzione
di un Ishida che lo
superò senza aggiungere altro, prima di svenire esausto
assieme agli
altri due lottatori.
[…]
forse Uryuu era troppo
duro con se stesso. Oppure semplicemente troppo auto critico.
C'è chi lo avrebbe
definito snob, eppure lui non si definiva lontanamente così.
Era
sempre pronto a dare il meglio di se – fin quasi al
sacrificio
estremo se ciò sarebbe avvalso giocarsi una promettente
carriera pur
di ottenere qualcosa – e ad aiutare il prossimo facendo
comunque la
morale.
Si, non si vergognava di
essere “moralista” anche perchè, senza
una morale, non sarebbe
stato migliore di suo padre.
Camminando diligentemente
sul marciapiede sgombro di pedoni e con un certo passo sostenuto,
Uryuu Ishida si faceva strada verso l'università per un
lungo
percorso di cui non sentiva minimamente fatica.
Accidentalmente dette un
paio di calci a dei sassolini che gli intralciavano il passaggio,
tuttavia dovette constatare che lo fece con una certa stizza
istintiva dovuta alla mente che per un attimo – come al
solito –
si era rifugiata nel passato a rimembrare ricordi fastidiosi.
Avrebbe superato suo padre
e lo avrebbe fatto a modo suo. Il nonno non aveva sbagliato nulla nei
suoi insegnamenti, a discapito di quello che diceva Ryuken.
A ridestarlo da quei
pensieri e in modo definitivo fu, nel mentre che percorreva il lungo
cavalcavia che lo avrebbe poi portato all'università, un suv
nero
parcheggiato a ridosso del marciapiede e una figura avvolta in un
impermeabile con panama bianco ben calcato in testa vicino al
baratro.
Istintivamente, per quanto
ancora fosse distante, ad Ishida parve – o ebbe il sentore
– che
in qualche modo quella figura sinistra e variopinta la conoscesse
bene.
Di gente conciata così ce
ne era al mondo, ma lui era sicuro che quell'individuo che in braccio
teneva qualcosa, forse un bambolotto data la distanza e la sua
miopia, lo aveva già visto da altre parti.
Per istinto le gambe gli
dicevano che magari era meglio cambiare aria, anche solo attraversare
la strada con il suo via vai di macchine per raggiungere l'altro
marciapiede e starci così lontano.
Invece no, sicuro che il
suo istinto gli stesse giocando un brutto tiro – assurdo
trarre
conclusioni così affrettate da una silhouette in lontananza
–
continuò a camminare in linea retta per il cavalcavia fino a
raggiungere a lenti passi l'omino che gli sbarrava la strada.
E si maledì Uryuu Ishida,
per non aver dato retta a quel suo dubbio atroce. Trovandosi ad
avvertire un amaro sobbalzo al cuore quando finalmente scorse al
meglio la figura che ammirava il panorama sottostante fatto di altre
macchine che correvano veloci, appoggiato con i gomiti alla ringhiera
del parapetto.
Era ormai troppo tardi per
cambiare strada e far finta di non averlo visto, perchè ora
che era
a meno di un paio di metri da lui, in quell'impermeabile consunto e
sotto quel panama candido come la neve, si celava un volto che a
Uryuu destava non poco odio.
“Mayuri
Kurotsuchi...”
Quel nome gli uscì
sottovoce e quasi sopraffatto dal veleno più puro
– che a stento
riuscì a mantenere una postura degna senza saltargli addosso
dalla
rabbia – udito comunque dall'uomo che guardava il traffico
sottostante e perso nei suoi pensieri.
“Oh...? Ma guarda un
po'! Un Ishida... vivo!”
quando due pigri occhi
d'agata si voltarono lentamente in quelli bui come la notte di Uryuu,
quest'ultimo non poté che provare rancore per il modo quasi
beffardo
con cui quel presunto uomo di scienza – a detta dello
studente
universitario un autentico macellaio – aveva pronunciato
l'ultima
parola.
Quasi dettata da un
sottile piacere nel farla uscire dai denti ingialliti per le troppe
sigarette.
Stando più attento poi,
notò che il dottore non era solo. In braccio aveva la
più piccola
delle sue figlie – Uryuu conosceva di sfuggita Nemu
poiché
frequentava con rarità la sua stessa facoltà di
medicina, più
dedita a star dietro al padre che ai libri, e sapeva che aveva una
sorellina di quattro anni – che tranquillamente beveva un
succo di
frutta persa a guardare il traffico sottostante e ignara della
presenza del giovane, più una figura all'interno del suv che
guardava con noia la scena.
La figura sedeva nei
sedili posteriori, intenta a frugare nella propria borsa. A detta
dello stesso ragazzo quella donna aveva un maglione decisamente
orrendo addosso – di una lana rossa sgargiante – e
con tutta
probabilità doveva essere la governante
di casa Kurotsuchi.
Si, il bastardo all'ordine
casalingo ci teneva e, dato che una figlia lo
“aiutava” con il
lavoro mentre l'altra andava ancora all'asilo, a quanto pare dati i
pettegolezzi aveva assunto una governante piuttosto polemica e dal
nome impronunciabile.
Probabilmente data la
sua pelle ambrata, era una colombiana...
“Non sono affatto
sorpreso del suo rammarico” insinuò un Ishida
nell'atto di
sistemarsi gli occhiali.
Se non perdeva le staffe
era perchè li in mezzo c'erano due persone che non
c'entravano
nulla.
L'altro di tutta risposta
sghignazzò soddisfatto, sistemandosi al meglio una bambina
identica
in tutto a Nemu nelle braccia, ancora intenta ad ignorare il nuovo
arrivato. Buon per lei.
“Oh via, porti ancora
rancore per il tuo amato nonnetto? Ehe, mi spiace per
quello
che è successo sai?”
ci fu un'onda di puro odio
che investì in pieno un nervoso Uryuu quando, quell'essere
che lui
definiva totalmente blasfemo, ebbe l'arroganza di parlare del suo
povero nonno.
Se colui che lo aveva
cresciuto era morto in modo terribile, era solo per colpa di
quell'individuo che si definiva uno scienziato.
Mayuri Kurotsuchi non era
uno scienziato, era un mostro con aspetto di essere umano.
Perchè colui che avrebbe
dovuto curare suo nonno da una rara forma di cancro alle ossa, si era
dimostrato un vivisezionatore più
intento a studiare la
malattia che curare il paziente.
Non un miglioramento in
quei sei mesi di agonia pura, ben trattenuta comunque da un solido
orgoglio. Suo nonno era orgoglioso. Una delle poche cose che ormai
ricordava di lui – a causa dei tanti anni passati –
era che anche
di fronte alla morte, pallido come un cencio e con addosso piaghe
simili a segni di una peste bubbonica, aveva mantenuto una
dignità
tale che lui non considerava neanche umana.
Quasi a non volerla dare
vinta a quel folle dottore, il cui unico intento era stato di aprirlo
e somministrargli sostanze a intervalli regolati dai suoi ritmi di
scienziato. Se solo Uryuu non avesse avuto solo otto anni all'epoca,
quasi sicuramente sarebbe riuscito a fare qualcosa di più
per
proteggere suo nonno.
A quel tempo Kurotsuchi
oltre che lavorare per la casa farmaceutica Soul Society, lavorava
anche per l'ospedale cittadino.
E proprio in quel periodo
– un intervallo di qualche mese dalla morte dell'anziano
parente –
lo scienziato aveva volontariamente lasciato l'ospedale per dedicarsi
unicamente a progetti “ben più
importanti”. Le malelingue
parlavano che di mezzo c'era un allontanamento voluto dai vertici
massimi della struttura, ma restavano comunque voci flebili e poco
considerate dato il timore di “sporcare” l'immagine
di un pezzo
grosso di una ditta farmaceutica importante.
Uryuu non sospettava che
su queste voci c'era un fondo di verità e che portava il
nome di
Ryuken Ishida.
Ma in quel momento
decisamente non ci stava pensando, pronto com'era a deglutire rabbia
e rispondere al dottore per le rime.
“Già... Posso
immaginare che ad un segaossa* come lei possa non
essere
andato a genio di non aver potuto frugare ancora un po'...”
l'impertinenza e la
sfacciataggine dell'Ishida superstite stavolta – seppur
dettate con
la solita flemma arrogante – toccarono in modo negativo i
sensi di
Mayuri. Che tosto, abbassò il ghigno vittorioso in uno
decisamente
seccato per quella presenza mal voluta e improvvisa.
Decidendosi quindi – per
evitare che la governante polemica iniziasse a berciargli addosso
–
di cambiare aria annoiato da quel ragazzino saccente.
“Ehi tu – abbassò lo
sguardo verso la bimbetta che finalmente alzò lo sguardo per
dare
retta al padre – hai finito quel succo? Non voglio
più fermarmi
per cose simili”
“Si, babbo” squillò
la piccola indifferente al tono burbero del genitore.
Staccando la cannuccia
dalle labbra e allontanando dal volto un succo alla pesca ormai del
tutto finito.
La risposta infine, fece
sorridere con un ghigno assurdamente malefico Mayuri, o almeno
così
lo trovò Ishida che ben trovava disgustoso che potesse
tenere in
braccio una creatura, ordinando poi alla piccola cosa fare in
seguito.
“Brava la mia bambina...
Adesso sai che cosa si fa con la spazzatura?”
un lieve
sguardo d'agata si indirizzò nel giovane laureando, come
famelico in
cerca di vendetta, quasi ignorando la risposta della bambina e al suo
gesto successivo.
“Si butta!” esclamò
lei, buttando oltre la ringhiera metallica, oltre un baratro pieno di
automobili e biciclette, un succo vuoto come se fosse stata davanti
al cestino dell'immondizia.
Letteralmente gli occhi di
Ishida si spalancarono per quel gesto vandalico ma tuttavia dettato
da una certa innocenza – o pessima educazione impartita da un
pessimo soggetto – e la bocca letteralmente si dischiuse
sconvolta
quando l'oggetto in questione cadde a terra.
Colpendo in pieno viso un
ciclista che stava passando di sotto.
Nonostante il traffico
incessante e piuttosto rumoroso si levò distintamente un
grido di
sorpresa misto a spavento per il colpo ricevuto dal povero passante,
che in breve tempo perse la concentrazione e quindi l'equilibrio
sulla bicicletta. Trovandosi a capitolare sull'asfalto a gambe
all'aria.
E come una reazione a
catena sviluppatasi in poche frazioni di secondo, si scatenò
il
caos.
La macchina che era dietro
il ciclista – una macchina giapponese di un rosso sgargiante
–
dovette inchiodare all'improvviso per evitare l'impatto con lo
sventurato ciclista facendo stridere le gomme. Gesto che
portò la
macchina dietro a quella rossa a inchiodare a sua volta senza
però
riuscirci in pieno, sfondando così il bagagliaio e
spingendola in
avanti per via della forza d'urto.
Il ciclista letteralmente
gridò spaventato e con una velocità fulminea
riuscì a gattonare
fino al ciglio della strada per restare più al sicuro, al
contrario
della bicicletta distrutta dalle vetture, mentre dietro di lui si
estendeva un tamponamento a catena in un miscuglio di frenate
assordanti e bestemmie gridate a voce alta.
Uno spettacolo assurdo e
grottesco a cui Uryuu assistette nella più assoluta
impotenza
silenziosa.
Uno spettacolo totalmente
grottesco tanto quanto l'ideatore di tale piano. Ossia un Mayuri
Kurotsuchi che sghignazzando soddisfatto della scena – e
ignorando
le occhiate allarmate di una governante che pareva chiedere cosa
stesse succedendo – si diresse al proprio suv nero salutando
come
ultima cosa, non senza una divertita nota maligna, l'Ishida
superstite ancora sconvolto dall'incidente provocato da un semplice
succo di frutta.
“Ci vediamo su Facebook
eh!”
pronunciate infine tali
irriverenti parole, lo spaventoso spaventapasseri non aggiunse altro,
decidendo saggiamente di ripartire sgommando lasciandosi dietro un
ragazzo intento ora a mordersi il labbro inferiore.
Perchè effettivamente,
forse era il caso che pure Uryuu se la desse a gambe da quel posto,
prima che di sotto uno dei tamponati lo puntasse come artefice di
tutto quel disastro.
E francamente, di finire
in mezzo ai disgustosi disastri combinati da altri lui non ne aveva
proprio voglia. Di conseguenza, si mise in cammino quasi correndo,
cercando di trattenere una adrenalina e un certo imbarazzo,
maledicendosi di non aver risparmiato abbastanza per una bicicletta.
[…]
“Uhm... Coso?
Quelle non le mangi?!”
per l'ora di pranzo Uryuu
Ishida aveva misteriosamente optato per mangiare
fuori
dall'università.
Il motivo però più
spiegabile, era che a trascinarlo in quel centro commerciale
– e
più precisamente in quel fast food posto in modo strategico
in una
grande “piazzetta” – era stato Pesche
Gauitche, un suo “amico”
(ma non certo per scelta sua) che da quel che ne sapeva studiava per
diventare un fotografo di successo.
Come potesse quel
giovanotto dai corti capelli biondi e da un viso magro e ovale in cui
erano incastonati due occhi d'agata apparentemente persi tra le
nuvole, avere l'ambizione di andare in giro a fotografare modelle
famose e riuscire nell'impresa, per il futuro chirurgo risultava un
mistero.
Ma lo conosceva da un po'
seppur non benissimo. Pesche abitava nel condominio poco distante
dalla sua villetta – lo stesso dove abitava Grimmjow
– e più di
una volta ormai da quasi quattro anni si incontravano. Sapeva, per
sua stessa voce, che abitava con l'anziana nonna e poco tempo prima
con il cugino Dondochakka Birstanne. Ora da qualche
mese in un
villaggio turistico in uno stato dell'Africa – forse il
Kenya, ma
Ishida non se lo ricordava bene – a fare l'animatore ai
turisti.
“Non mi chiamo coso...
Ma Uryuu! – sbuffò seccato per quella sua continua
sbadataggine
sui nomi, accavallando le gambe e incrociando le braccia al petto
–
e non dovresti mangiare così tante patatine fritte, fanno
male”
“Uhm, scusa ma l'ho
dimenticato. Sai che con i nomi maschili faccio fatica a
ricordarmeli... eh!” borbottò di rimando un Pesche
più impegnato
a prendere il cartoccio de patatine del ragazzo portandoselo
così
vicino.
Uryuu lo lasciò fare,
perdendosi nell'ascoltare una canzoncina fuoriuscire dagli
altoparlanti del grande atrio affollato di gente e dal
chiacchiericcio di ragazzi della loro medesima età intenti a
mangiare ai tavoli vicini.
Seduti nei loro sgabelli
cromati parevano ignari di dover affrontare ogni giorno un futuro
incerto come invece faceva il giovane Ishida da quando suo nonno
–
unica persona ad averlo cresciuto e unica a cui avesse voluto davvero
bene – era venuto a mancare.
Se ne rimanevano li con i
loro abiti firmati, le borse all'ultima moda e sempre i portafogli
gonfi per i soldi di papà che puntualmente mandavano a
cagare ma
che, però, accettavano le paghette e le vacanze al mare.
Lui non aveva mai visto
nulla di tutto ciò, figurarsi se suo padre gli dava
qualcosa,
ritrovandosi per questo a crescere con un occhio critico verso tutti
e tutto. Trovando ben poche persone che si salvavano dalle sue
polemiche, come ad esempio la sua ex compagna di superiori Orihime
Inoue ma lei era decisamente un caso a parte.
Cercando infine di non
pensare a tutti quei pensieri molesti, scaturiti dalla figura dannata
di un Mayuri Kurotsuchi, si perse nel bere la propria cedrata con la
cannuccia di plastica rossa, osservando in seguito – e
avrebbe pure
aggiunto quasi divertito – un Pesche abbuffarsi anche delle
sue
patatine.
Giovanotto che tuttavia
smise ben presto di ingozzarsi come un pulcino di gazza ladra, per
scrutare oltre le spalle del giovane Uryuu Ishida sgranando gli occhi
e bloccare – come se preso da una brutta notizia e
ciò quasi portò
allarme nell'universitario – una frenetica masticazione
fermandosi
con parecchie patatine che gli spuntavano dalle labbra.
“Uhmpf!
Covo! Quella
è Civucci!!”
“Pesche! Non mi chiamo
coso! E poi non mangiare con la bocca piena
– si sistemò
gli occhiali sul naso per stemperare una evidente seccatura prima di
continuare – è da maleducati se non lo
sai”
il biondo tuttavia, non
dette quasi retta all'ammonimento di Ishida per alzarsi dal tavolo in
modo quasi repentino – non prima però di aver
inghiottito le
patatine con un bel sorso di coca cola – dandosi giusto una
sistemata ai jeans sbrindellati in più punti, resi
così non certo
da una casa di moda, prima di incamminarsi velocemente verso una
figura in apparenza intenta a scrutare una vetrina dall'altra parte
della piazzetta.
Uryuu sentitosi quasi in
causa, più che altro per evitare che quel suo
“amico” si
beccasse un altro pugno in faccia da una donna e
che mettesse
in mezzo pure lui nelle molestie con annesso altro pugno e occhiali
rotti, decise saggiamente di scattare pure lui in piedi per tentare
quantomeno di raggiungere un Pesche che quasi si metteva a correre
pur di raggiungere una persona ancora sfocata alla sua miope vista.
Tentò pure di richiamarlo
– facendosi notare a malincuore da qualche passante
– ma quello
sordo ai suoi richiami raggiunse in poche falcate quella che era a
tutti gli effetti una donna in abiti piuttosto eccentrici. Per non
dire ridicoli e poco pratici.
Di Gothic Lolita Uryuu
in giro ne aveva viste, ma quella che si parò di fronte a
lui era un
qualcosa di eccessivo fino alla nausea.
Un abito elegante ma fin
troppo merlettato e pieno di dettagli. Dai troppi pizzi, perline nere
e nastri viola che stringevano il busto della proprietaria e
decoravano l'ampia gonna di pizzo con fiocchettini qua e là.
Poi c'erano le calze di
pizzo nero con gli autoreggenti in bella vista – mostrare
le
mutande no? – e come ultimo tacchi alti e unghie
delle mani
laccate di nero pronte a graffiare, quasi sicuramente, le facce di
quei due idioti intenti ad importunarla.
Uryuu Ishida odiava
decisamente l'eccesso e ciò che aveva di fronte ne era la
prova, la
morte del buon gusto e dello stile.
Ma a bloccarlo
dall'assumere una espressione critica, ci pensò la donna e
il suo
sguardo che dire truce era poco.
“Cirucci! Cirucci
Tunderwitch! E-ehi... ti ricordi di me? Vero? E-ehm...?!”
l'iniziale mezzo
entusiasmo di Pesche morì quando la donna che stava
osservando un
capo d'abbigliamento il cui prezzo se lo poteva permettere solo uno
sceicco, lo scrutò con una punta di critica e una smorfia
offesa che
assunsero le sue labbra color porpora per essere stata interrotta nel
suo shopping quotidiano.
“Scusa ragazzino –
scrutò dall'alto in basso Pesche schioccando la lingua
dietro gli
incisivi – ma non ho spiccioli con me”
Per Ishida era
interessante notare come l'amico tenesse sempre bene a mente i nomi
femminili ma non quelli maschili. Che avesse una memoria di ferro
verso quella donna che lo stava giudicando come un barbone,
portandolo a spronarlo maggiormente nel darle spiegazioni.
“Eh...?! Ah n-no ehm, io
sono Pesche Gauitche! C'ero anche io la settimana scorsa per quel
servizio fotografico che...”
“Ragazzino, io faccio
servizi fotografici ogni giorno”
“Ah lo so... Lo so bene!
Infatti mi chiedevo se serviva ancora il mio aiuto per queste
cose...”
ecco ben spiegato il
motivo della sua folle corsa verso quella donna, ossia l'elemosinare
un lavoro contando sulla presunta “amicizia” con
una eccentrica
modella dalla memoria corta. L'esatto contrario di Uryuu che ben si
guardava di elemosinare un qualsiasi lavoro.
Tuttavia le parole di
Pesche portarono Cirucci a rimembrare l'episodio citato dal ragazzo,
assumendo una espressione sorpresa quando i ricordi le riaffiorarono
nella mente, per poi mutare come una stagione improvvisa e farsi
perfida sul volto pesantemente truccato.
“Oohh... ora ricordo! Tu
devi essere quella nullità che ha fatto
più danni che foto
ben fatte per tutto il periodo del servizio! Beh, mi sorprende che
non ti abbiano mandato il conto dei danni a casa... E ora per favore,
levati dal cazzo!”
dette testuali parole la
donna girò i tacchi e iniziò ad allontanarsi da
quei due uomini che
decisamente trovava insulsi e noiosi. Ben lontani dai fratelli Grantz
e dai rapporti tesi che la legavano a quei due a doppio taglio. Ma
Ishida si sentì quasi preso in causa per quell'atteggiamento
tanto
arrogante quanto maleducato.
Iniziando pure lui a
seguirla e seguito quasi di riflesso da un fotografo fallito un po'
confuso per lo strano comportamento dell'amico.
“Con tutte le dovute
maniere, credo che lei debba delle scuse e credo anche, molto
fortemente, che adoperiate un linguaggio più appropriato ad
una
signora piuttosto che uno da scaricatore di porto”
le parole pacate di Uryuu
Ishida portarono una Cirucci – ora intenta a svoltare
l'angolo
decisamente seccata in un corridoio di servizio che portava a dei
bagni pubblici – ad osservarlo truce per essere stata
interdetta in
ciò che lei riteneva sacrosanto.
“Ma come ti permetti, eh
quattrocchi? Chi ti ha chiesto niente e poi come cazzo ti permetti?
Signora a me? Mi credi così
vecchia?!”
“Sicuramente, meno
fondotinta non guasterebbe alla sua pelle...”
le labbra dall'intenso
rossetto viola si arricciarono sdegnate per quella sua sfacciataggine
e presunzione, portandola a camminare con più
velocità verso il
bagno ora decisamente poco distante da loro.
Però...
Però Uryuu si accorse con
una punta di perplessità che nonostante tutta quella
determinazione
qualcosa non quadrava nel suo comportamento.
C'era qualcosa di
decisamente strano e già all'inizio – o quasi
– della loro breve
chiacchierata aveva notato lo strano tic delle sue dita laccate di
smalto nero. Un fattore magari dovuto al nervoso di avere a che fare
con due individui assolutamente patetici per lei... Ma allora
perchè questo improvviso bisogno di andare in bagno e quel
frugare
con rabbia trattenuta dentro la borsetta?
“Uhu? E adesso che
volete? Sparite bambocci! O volete vedere mentre mi cambio
l'assorbente?!”
Le parole le uscirono via
fluide come il veleno di un serpente che morde a tradimento il
proprio incantatore, come a volerli disilludere di chissà
quali
false speranze soprattutto ad un Pesche affamato di lavoro –
e
bravo nel fuggire dai guai che combinava non lasciando nessun
indirizzo dove trovarlo – che era giunto sino li con la
speranza
che Cirucci si ricordasse in positivo dei suoi servigi. Quantomeno
del caffè che aveva soffiato al direttore per darlo a lei.
Poteva
anche darsi che avesse davvero bisogno di cambiarsi assorbente in
quel preciso momento, tuttavia per Uryuu – che aveva studiato
certe
malattie e i loro sintomi – aveva il
brutto presentimento
che qualcosa non andava.
E tale
presentimento era assai corretto purtroppo, poiché
ciò che successe
sotto i suoi occhi si svolse tutto in poche frazioni di secondo.
Cirucci
dette le spalle per l'ennesima volta a quei due disgraziati
ficcanaso, ma non fece che un altro paio di passi bofonchiando
bestemmie verso i due giovani studenti che subito si ritrovò
pietrificata sul posto.
Ci fu
un sussulto nell'aria – simile a quello che preannuncia un
singhiozzo – prima che gli occhi della modella guizzassero
rapidi
da una parte all'altra del corridoio come in cerca di comprendere
cosa le stesse succedendo, poco prima di crollare a
terra in
modo rovinoso come abbattuta da un colpo di cecchino nel più
gelido
dei silenzi.
Il
primo a rimanerne sorpreso fu lo smemorato Pesche. Che ebbe quasi un
sussulto confuso – lo stesso che ebbe per un momento il
compagno di
fianco a lui – nel vedere una giovane tanto in forma crollare
sulle
ginocchia come se nulla fosse.
“Ohi!
V-va tutto
ben...”
“Vattene
via imbecille! – gli urlò addosso una Cirucci che
ora, seduta a
terra e pallida come un cencio, lo guardava con una punta di panico
mal celato – non c'è nulla da vedere! L-lasciami
in pa... ghg!”
accadde
tutto in poche frazioni di secondo – questo se lo era
già
ampiamente detto – ma per quanto Uryuu Ishida sapesse alla
perfezione come si manifestasse un attacco epilettico grave,
dovette rimanere quasi sconvolto e nel silenzio più assoluto
per ciò
che vide quel giorno. Perchè per quanto ne conoscesse i
sintomi, non
aveva mai visto la sua manifestazione dal vivo.
Si
morse il labbro inferiore – mentre accanto a lui Gauitche si
lasciò
scappare un grido smorzato – arrivando persino a fermare per
un
paio di secondi la respirazione nel vedere quella donna maleducata di
nome Cirucci, che sino a pochi minuti prima camminava con una
agilità
unica su quei trampoli di cattivo gusto, pietrificarsi e accasciarsi
del tutto sul lucido pavimento di marmo preda di convulsioni sempre
più forti.
Momenti
decisamente preziosi che si maledì di aver perso
nell'osservare un
paziente – non più una persona ma un paziente
– che aveva
urgentemente bisogno del suo aiuto.
“Maledizione”
strozzò
un ringhio in gola prima di tuffarsi pure lui sul pavimento –
seguito pure dal biondo quasi ad un riflesso condizionato –
inginocchiandosi accanto alla modella e più precisamente
vicino alla
sua testa.
Le
convulsioni erano forti e nervose – a scatti frenetici come
un
giocattolo a molla rotto – con gli occhi tendenti a
ribaltarsi
all'indietro per il troppo dolore a cui era sottoposto l'intero
corpo.
“Pesche!
Aiutami a girarla sulla schiena!”
non
poteva permettere che subisse troppi danni fisici per quei colpi
frenetici e incontrollabili, quindi aiutato da un amico ancora
confuso, girò Cirucci a pancia in su tenendole la testa
sollevata da
terra con ambo le mani. L'ultima cosa che voleva era un trauma
cranico con annesso peggioramento della situazione.
Non
poteva però continuare così a lungo, quella donna
doveva avere
qualche farmaco che ne bloccava i sintomi sull'immediato e... La
borsa!
Quasi
sicuramente nella borsa doveva esserci qualcosa, sennò non
spiegava
il suo frugare di prima, costante e quasi disperato, alla ricerca con
tutta probabilità del farmaco salvavita.
Deglutì
per darsi coraggio, nel mentre che i sussulti della donna si stavano
facendo più forti con il rischio di attirare qualche testa
indesiderata che fraintendesse tutto.
“Pesche,
prendile la testa tra le mani e tienile la lingua distesa. Si sta
soffocando da sola...”
Doveva
rovistare nella borsetta il prima possibile e sperare con tutto se
stesso che ci fosse qualcosa di utile al suo interno. Sennò
in
alternativa c'era da chiamare una ambulanza con annesso
sbeffeggiamento di suo padre.
“Eh?!
Uh... Coso... Ma intendi che devo a-avere un contatto...?”
“Fallo
e basta accidenti a te!!”
Quasi
costrinse Gauitche – strattonandolo per un braccio sino a
sé – a
prendere la testa della donna in mano, spiegandogli brevemente come
tenerle su la lingua con un paio di dita, prima di allungarsi verso
la borsa nera ed eccentrica svuotandone con frettolosa attenzione
tutto il contenuto sul pavimento.
“Ah...
ok... Ho un contatto con la lingua di Cirucci... – da parte
sua
Pesche se la stava comunque cavando bene nel tenere in vita quella
donna, seppur nessuno era lì ad elogiarlo – ehm...
ma non è che
mi morde, vero...?”
“Se
ti morde resisti – borbottò Uryuu nell'atto di
rovistare tra
trucchi e borsellini vari alla ricerca di quel fottuto medicinale
– è un rischio che bisogna correre”
fu poi
proprio quando iniziava a perdere le speranze in mezzo a tutto quel
caos femminile che il chirurgo trovò ciò che
cercava, arrivando
quasi ad urlare – seppur in modo pacato – un
“trovato” nel
prendere in mano un astuccio con su sopra stampati simboli medici e
scritte che solo lui poteva comprendere. Aprendo l'oggetto in
questione non rimase deluso dal suo contenuto.
All'interno
dell'astuccio vi erano un laccio emostatico e tre siringhe
già colme
di liquido, non osservò con attenzione tutti i
complicatissimi
ingredienti sulle etichette ma ad una fugace occhiata erano quelli
giusti, immediatamente pronte all'uso nei casi più urgenti.
Con
una calma che solo un chirurgo come lui poteva avere, dannatamente
invidiato da un ragazzino biondo quasi nel panico nel gestire una
situazione che affatto conosceva, Uryuu Ishida prese laccio
emostatico ed una delle siringhe, per correre velocemente al braccio
più vicino della modella e lì a strapparle via il
costoso pizzo
nero che copriva buona parte dell'arto.
Tale
gesto – che quasi sicuramente gli sarebbe costato sul
portafoglio –
rivelò anche una candida carne coperta, in alcuni punti da
segni
ormai vecchi in altri da più recenti, di segni di punture
dovute ad
una dose di farmaci piuttosto costante.
Solo
una volta aveva visto un simile supplizio, e cioè nelle
braccia di
una Nemu Kurotsuchi che imprudentemente e senza farlo apposta aveva
mostrato in pubblico le sue braccia, nell'atto di sistemarsi una
giacca di lana inadatta alla stagione.
Quasi
sicuramente le braccia martoriate di Nemu non erano dovute a farmaci
salvavita, quanto alla spregiudicatezza di un padre che di certo non
andava chiamato tale per lui. Ma paragone inappropriato a parte,
Uryuu infilzò con l'ago la carne di Cirucci appena la vena
fu ben
visibile grazie al laccio legato appena sopra il gomito. Seppur con
una certa fatica dato tale braccio che nonne voleva sapere di stare
fermo, riuscì perfettamente nell'impresa.
La
puntura inizialmente non venne minimamente percepita dalla donna
ancora colpita da forti spasmi carichi di dolore. Fu solo qualche
secondo dopo che si mostrò a rilassarsi nei movimenti e
nella
respirazione, portando sollievo ai due improvvisati soccorritori.
Finendo
infine a tornare con una respirazione normale seppur esausta,
ignorando ora la presenza dei due ragazzi inginocchiati accanto a
lei.
“Coso...
Direi che siamo stati grandi eh?!”
la
voce di Pesche era ancora un po' stranita dall'evento seppur felice
che non ci fosse scappato il morto. Non ancora almeno, dato che era
sicuro che Cirucci li avrebbe massacrati a dovere.
Di
risposta a quelle mezze parole entusiaste, Uryuu si limitò a
sospirare brevemente e chiedere un nuovo favore al fotografo.
“Pesche,
ti dispiacerebbe portarle un bicchiere d'acqua? Omettendo per cosa
serve sia chiaro...”
“Ah
si... Torno in dietro e.... Ah! Me li passi tu gli spiccioli per
l'acqua?”
alle
volte davvero non capiva se Gauitche lo prendesse in giro o memo,
oppure semplicemente si limitava ad essere spontaneamente sincero. Ma
anche senza quella piccola domanda personale, il giovane
universitario non aveva voglia di polemizzare su una cosa simile.
Prese
dalla tasca dei pantaloni un paio di spiccioli, e li
consegnò un po'
riluttante ad un giovanotto che ringraziò raggiante.
[…]
Il
risveglio di Cirucci venne accolto dal buio più assoluto.
Appena
aperte le palpebre coperte di un pesante ombretto viola, ciò
che la
modella vide fu una insistente cappa nera che a poco a poco decise di
rischiarirsi – grazie ad uno spiraglio di luce di una porta
semi
aperta – per lasciar spazio alle ombre di scope e di flaconi
dall'inconfondibile odore di detergenti per la casa. Per quanto una
iniziale confusione albergasse nella sua testa dolorante, stava con
calma focalizzando il luogo in cui si trovava.
Come
diamine avesse fatto a finire da un corridoio a un magazzino per le
scope era per lei un autentico mistero, almeno per il momento si
intende, che la portò a tentare di alzarsi in piedi dalla
postura
seduta borbottando in modo sommesso.
“Uhh...
ma che cazzo...?!”
Ma non
fece che un misero tentativo di rialzarsi sulle gambe traballanti,
poiché subito venne inchiodata con la schiena al muro da una
mano
sconosciuta.
“Resta
ferma dove sei, devi riposare”
“Oh?!
Ma chi cazzo
sei?!”
allarmata
per quel contatto sconosciuto, Cirucci Tunderwitch spalancò
gli
occhi viola in quell'ombra ora non più così
pesante – non dopo
che tali occhi si erano abituati a quel buio – ritrovandosi a
smorzare il respiro dalla sorpresa, e aggiungendoci pure dalla paura,
quando intravide un paio di occhiali e un volto visti solo qualche
minuto prima di finire in mezzo a polverose scope.
Ci
impiegò qualche secondo per capire che a parlargli era stato
quel
dannato quattrocchi che le aveva dato della vecchia una decina di
minuti fa, portandola per questo ad arricciare le labbra disgustata
da quella sua presenza e scostandosi via – con gesto seccato
–
quella sua mano dalla spalla.
“Pezzente!
Cosa mi hai fatto eh?! Lasciami immediatamente andare o chiamo la
p-polizi-”
“Hai
avuto una crisi, ecco cosa c'è. E se lo
vuoi tanto sapere, ti
ho fatto solo un favore a trascinarti in questo luogo appartato
lontano dalla vista di tutti!”
alla
modella decisamente non piaceva essere interrotta nel mentre che
insultava un suo sottoposto. Ma quando sentì la parola
“crisi”,
allora non poté che capire con calma cosa quel rompiscatole
stesse
dicendo.
Stava
parlando della sua persona e stava principalmente parlando di quel
suo problema. Decisamente un elemento scomodo che
tentava ad
ogni modo di nascondere a chiunque, ritrovandosi per questo a provare
un sottile odio verso quel ragazzo che alla fine le aveva salvato la
vita oltre che la reputazione.
Si
morse con frustrazione il labbro inferiore, portando lontano lo
sguardo da quello del quattrocchi che la fissava severo e con
insistenza, tentando di deglutire per mantenere autorità.
“Come
ti chiami?”
la
domanda portarono il giovane – e non voluto –
salvatore a
lasciarsi momentaneamente andare ad una espressione lievemente
sorpresa, prima di ritornare severo e presentarsi a lei con annesso
quadro della situazione.
“Mi
chiamo Uryuu Ishida. Sto studiando... Beh, diciamo che per farla
breve sto studiando per diventare medico chirurgo. Quindi direi che
hai avuto fortuna che ci fossi io che comprendeva un minimo di quelle
tue strane siringhe...”
…
che stranamente nessuna modella dovrebbe avere visti i componenti non
ancora rilasciati sul mercato, avrebbe volentieri aggiunto. Ma data
l'espressione della donna, le lasciò intendere tutto
aumentando così
la sua frustrazione.
Poi,
dopo tali e pacate parole tra i due si antepose un silenzio piuttosto
lungo e di difficile comprensione. Quantomeno Uryuu non seppe dirsi
se per la situazione in generale che ancora sconvolgeva la ragazza
oppure perchè... Sinceramente non lo sapeva pure lui. Ma
stava
iniziando a maledire Pesche e il suo ritardo nel portare una
bottiglia d'acqua.
Almeno
in quella situazione si sarebbe aspettato un flebile
“grazie” da
parte di Cirucci. Ma ciò non avvenne nel mentre che i
secondi
passavano tesi e incalcolabili in quell'anonimo sgabuzzino lasciato
imprudentemente aperto dal personale di servizio. Era stata una
fortuna trovare quella porta aperta in quel corridoio comunque non
del tutto nascosto da occhio umano.
Le
aveva fatto ben due favori in una sola volta ma quella non lo
calcolava di striscio.
Sapeva
fin troppo bene che a fare il medico capitava di incontrare soggetti
simili – che altro non facevano che aumentare poi l'arroganza
e la
superbia del medico stesso come nel caso di suo padre – ma
visto
che di risponderle un inutile “non c'è di
che” non gli andava
affatto, preferì soffermarsi su ciò che aveva
visto nelle siringhe.
E in
principale, il nome del medicinale a lui totalmente sconosciuto.
“A
proposito, quell'Hogyoku è
un farmaco non ancora in commercio vero? È interessante che
una come
te se ne sia imposessat-”
“Una
come te, cosa?!”
Ci fu
uno scatto improvviso e carico di rabbia da parte di una Cirucci ora
ritornata aspra come un limone scaduto, quando il futuro dottore
pronunciò quelle ultime parole non certo dettate da
pregiudizio
alcuno. Scattò con ira la testa spettinata verso lo sguardo
gelido
dell'Ishida, incurante che le aveva salvato la vita e decisamente
seccata per quel suo intromettersi nella sua vita privata.
Anzi,
decise di cambiare totalmente strategia verso uno stronzo che non si
meritava affatto di vederla incazzata in quel modo specifico,
accantonando velocemente la furia che momentaneamente l'aveva colta
finendo col sorridergli con una punta di cattiveria superiore
nell'atto di rialzarsi in piedi – ora con meno incertezza
– ben
decisa a non dirgli in nessun modo grazie. Non a lui.
Non a nessuno che le
chiedesse qualcosa in cambio ogni santissima volta.
Cinguettandogli
per questo, parole simili al veleno.
“Sappi,
caro il mio quattrocchi, che una come me
– calcò con fare derisorio quell'ultima parola,
scrutandolo
attentamente in quella penombra – ha amicizie piuttosto
elevate che
uno straccione come te può solo sognarsele! Speravi che ti
ringraziassi? Oh mio caro, dopo che mi hai rovinato questo vestito
che tu a malapena puoi permetterti, dubito fortemente sai?!”
Concluse
il tutto con un tono a dir poco soddisfatto – ovviamente
accennando
alla camicia di pizzo strappata per farle quella benedetta iniezione
– guardandolo di scorcio con un sorriso a dir poco
soddisfatto
nell'atto infine di aprire quella porta e inondare di luce il piccolo
ripostiglio.
Dette
infine le spalle ad un Uryuu che deglutì nervoso, non
aspettandosi
di certo una sua lapidaria risposta. Un qualcosa di decisamente
odioso che quasi portò – senza che il medico se ne
accorgesse –
quasi a vomitare per la frustrazione.
“La malattia è
in progressione”
Silenzio.
Fu
come se aperta quella porta, un fantasma fosse passato in mezzo ai
due congelandoli dalla paura.
Ma
lo sguardo di Uryuu Ishida era dannatamente severo, mentre quello
della modella che gli dava le spalle – e che con tutta
probabilità
si immaginava la sua reazione – era indecifrabile nascosto
com'era
dall'ombra dei lungi capelli neri.
E
come colpi di pietra le parole del ragazzo continuavano, ferendola in
modo invisibile in un orgoglio che spesso era messo a dura prova da
un branco di maschi arroganti.
In
particolare a quel Szayel Aporro Grantz che le procurava quelle
siringhe non certo in modo gratuito.
“Cirucci
Tunderwitch, la tua malattia è in progressione. Questo
quantomeno è
ciò che ho dedotto osservandone i sintomi. A breve neppure
questo
intruglio strano ti salverà da una sorte ben
peggiore...”
Non
fu con intento crudele che Uryuu fu così lapidario nei
confronti di
una donna, piuttosto era nel suo stile essere conciso e cristallino
verso un paziente che tanto ingenuo non era.
In
definitiva non era da lui usare fronzoli o melodrammatiche scenate.
Per
cui in parte comprese il modo in cui la donna assorbì una
notizia
già nota, notando un suo sospiro trattenuto e una presa al
pomello
della porta che si faceva più duro e crudele nel tentativo
di
trattenere rabbia.
Poi
infine, sempre sotto lo sguardo scuro come la notte di un dottore in
erba, la modella se ne andò a testa bassa dando –
senza però
farlo apposta – una spallata ad un Pesche Gauitche che
finalmente
sopraggiungeva con una bottiglia d'acqua minerale ormai del tutto
inutile.
[…]
Verso
sera inoltrata il suo studio alla biblioteca era decisamente
terminato.
Uryuu
Ishida, stanco di una intera giornata in cui ne erano successe di
cotte e di crude, era intento a camminare con calma per il
marciapiede illuminato dai lampioni sul ciglio della strada diretto
alla sua umile dimora che condivideva assieme ad altri disadattati.
Un
cammino il suo fatto nel più tombale dei silenzio, perso
nella mente
e nei ricordi di un nonno saggio e spesso sibillino.
Spesso
il nonno aveva un modo tutto suo di definire le persone, che al tempo
che fu un Uryuu bambino affatto comprendeva. Forse era troppo piccolo
per capire, oppure quelle spiegazioni erano troppo assurde da
comprendere anche da un adulto di venti anni.
Eppure
quella sua massima, quella di dire che gli esseri umani tentano
sempre di raggiungere il paradiso con una scala, in quella sua stanca
testa risultava piuttosto vera come non mai.
Sbuffando
stanco per quel lento camminare che ancora vedeva parecchia strada
prima di vedere il proprio quartiere, Uryuu si chiese se mai lui
avesse tentato di usare una scala per raggiungere il paradiso.
Se
mai si fosse circondato di ipocrisia e di gioia effimera, nella
convinzione di essere nel giusto più assoluto.
Oppure
se avesse macinato false speranze con una incantevole panacea,
ignorando ogni giorno quanto fosse fragile e illusoria la scala sotto
i suoi piedi.
Poi,
dopo una attenta analisi fatta con il suo intelletto, decise che
no... Lui non si era mai fatto illusioni ne false gioie nell'arco di
tutta la sua vita.
Non
aveva mai tentato di raggiungere questo fantomatico paradiso,
cercando unicamente di farcela con le proprie forze standosene sempre
con i piedi per terra.
Ed
era quasi triste – a quel punto e accantonando ogni rancore
– che
persone come Mayuri Kurotsuchi o come Cirucci Tunderwitch, donna
decisamente fastidiosa, si aggrappassero a scale dorate consapevoli
di essere in
pauroso bilico tra dolore
e gioia.
Ma
per lui ora, che stava percorrendo la via di casa senza sogni per la
testa, bastava non avere più a che fare nella propria vita
con
questi due individui e basta.
*segaossa: è un termine dispregiativo coniato nel medioevo per indicare quei medici ignoranti incapaci di fare una semplice amputazione, o dediti solo a segare arti senza sapere nulla di medicina. Rimane una parola dispregiativa tutt'ora, venendo usata anche come "parolaccia" denigratoria verso le competenze di un medico.