Nunca Más
Maria Elena nacque nel pieno
dell’estate 1959. Nonna Dulcina aveva predetto che una bambina nata sotto un
sole così, a mezzogiorno spaccato, mentre lo zenit raschiava le strade di La
Plata e mia madre urlava come un’indemoniata in sala parto, non avrebbe potuto
che essere biondissima. Io avevo sperato che si sbagliasse, invece a Maria Elena
crebbe da subito una chioma bionda, bionda come oro filato. La invidiai a lungo,
per questo.
Intrecciai i capelli alla
piccola Elenita sugli scalini della nostra casa i primi cinque anni della sua
vita. A volte provavo a mischiarli ai miei, di un castano denso come quello di
papà, e scoprire che insieme erano una cosa dolce a guardarsi, mi dava le
vertigini. Era la mia sorellina, la mia bambola, identica a come era stata la
mamma prima di darla alla luce, prima di finire sprofondata nel letto con le
occhiaie scure sotto gli occhi. Maria Elena si era presa con innocente
prepotenza le sue ultime energie. A mia madre erano serviti sei anni, per
riuscire a rimanere di nuovo incinta, e tutto per abbandonarsi sconfitta sotto
ad un lenzuolo: io non ne comprendevo il perché. A volte volevo credere che
fosse tutta colpa di mia sorella, poi la guardavo mettersi le manine sugli occhi
e sperare di essere abbastanza nascosta da non farsi scoprire, e mi si
scioglieva il cuore. Non avevo nemmeno undici anni e già mi si scioglieva il
cuore a guardarla, la mia Elenita, che era così bella. Così bella, come gli
angeli.
Andai a prenderla io,
all’uscita dal suo primo giorno di scuola. Mamma non si alzava mai, papà
lavorava in macelleria tutto il giorno e nonna Dulcina, che fino all’anno prima
si era occupata energicamente di me e Elenita, cominciava a sentirsi fiaccata
dalla stanchezza che sopraggiunge in vecchiaia. Arrivai in ritardo, e sorpresi
mia sorella occupata a tirarsi delle pietre con un suo compagno, un morso di
bambino dalla testa nera come il carbone e due occhi di fuoco. Si lanciavano
quelle pietre e degli sciocchi insulti, goffi e affannati, mentre attorno a loro
qualche coetaneo assisteva alla scena. Conobbi sette anni dopo il nome di quel
ragazzino furioso: Felipe Casares, così si chiamava, e Maria Elena, insieme al
suo nome, mi confessò anche un amore che era nato quel giorno, raccogliendo
ghiaia e pietre tra le mani, facendosi lacrimare gli occhi per la polvere bianca
sollevata dalla strada.
L’ombra di Maria Elena si
allungò come i tigli che crescevano per tutta La Plata e un’altra ombra
inseparabile, quella di Felipe, le si avvinghiò attorno negli anni. Da quando si
incontrarono per la prima volta, dal giorno delle pietre, non si lasciarono mai
più. Io detestai con amore struggente mia sorella per diverso tempo, mentre la
guardavo assottigliarsi e sfuggire ai nastri con cui volevo legarle i capelli, e
diventare ogni giorno più meravigliosa e più ribelle. Rispondeva per le rime a
me, a mio padre, perfino a nonna Dulcina. Risparmiava le sue scenate solo a mia
madre. Quando ci riuscivo, origliavo le conversazioni tra Maria Elena e la
mamma. Lei andava a trovarla nella sua camera ogni volta che poteva e alle prime
ore della sera, quando papà non era ancora tornato ed io ero occupata a
preparare la cena, si fermava a lungo. Nella bella stagione la sentivo aprire la
finestra, aspettavo che mia madre la rimproverasse come faceva sempre con me
quando tentavo di fare la stessa cosa, e con il respiro spezzato accoglievo il
suo silenzio, il suo mormorio stanco ma impregnato di una tenerezza che non mi
era stata concessa in nessuna occasione. Era Elenita, la sua preferita, come io
ero la preferita di papà. Ma mai, mai papà sarebbe riuscito a coccolarmi così,
sussurrando. A salvarmi da quei patemi d’animo giunse poi Saul, il mio primo e
unico compagno, che mi riempì l’esistenza e ancora oggi la occupa sapientemente,
fedelmente.
Quando Maria Elena mi parlò
di Felipe e del loro primo bacio, aveva da poco compiuto i tredici anni. La
ricordo seduta ai piedi del nostro letto, quello che condividevamo da tempo
immemore, con la luce dei lampioni che le illuminava il viso e quei capelli da
fata, irrorandoli d’argento. Era rinchiusa in un corpo fatto di spigoli e da
come si ostinava a spostarlo pareva proprio che non lo tollerasse, che non
sopportasse le sue misure sgraziate. Raccontò tutto a scatti, come se le parole
le sfuggissero dalle labbra, poi mi guardò smarrita, a lungo. E mi chiese se era
così, che funzionava, se doveva proprio sentirsi così spaventata.
Era il 1972, Perón e la sua
Isabelita guidavano l’Argentina e sembrava che niente dovesse cambiare.
Spesso mi chiedo: e se avessi saputo? Se avessi saputo che quattro anni dopo me
l’avrebbero portata via, che se la sarebbero presa senza ridarmela mai più
indietro, cosa avrei fatto di quel momento, di mille altri? L’avrei abbracciata,
invece di accarezzarle i capelli, invece di incagliarmi sulla sua ostinazione e
urlarle dietro prediche vuote, l’avrei inseguita per tutta La Plata, per dirle
che l‘amavo pazzamente? La mia Elenita, la mia adorata Elenita.
Quella notte stessa prese a
scrivere un diario ed io quella notte stessa cominciai a leggerlo di nascosto.
A settembre nonna Dulcina si
spense in un attacco di cuore e Maria Elena ne uscì stravolta. Io, mia madre e
perfino mio padre, subimmo quella morte come qualcosa di atteso, previsto.
Soffrimmo tutti, ma Elenita permise a quel dolore di cambiarla fino a
trasformarla in qualcosa che nessuno di noi era in grado di controllare. Decise
di iscriversi al liceo artistico di La Plata insieme a Felipe, quando papà aveva
posto un divieto tassativo, e non reagì nemmeno alle preghiere della mamma.
Lessi il suo diario ossessivamente, nei mesi che seguirono la scomparsa della
nonna. Elena era assillata dai sogni, dall’idea della morte, che si ripeteva
morbosamente, in tutte le pagine. Ricordo una frase che allora non mi colpì e
che oggi, alla luce di quel che è accaduto, mi fa tremare: “Settembre non
sarà mai più un buon mese, mai più. A settembre ogni cosa muore, si spegne, ogni
cosa viene soffiata via. Felipe è d’accordo con me: dice che è una buona idea
eliminare settembre, dimenticarselo, fare come se non esistesse. E allora noi
faremo così” aveva scritto in fondo ad una pagina bagnata. L’unica nota
positiva, in quel mare di tormenti che non sarebbero dovuti appartenere ad una
quattordicenne, era la presenza ininterrotta, rassicurante, di Felipe. Non
c’erano tracce di litigi, dubbi, pene amorose. Potei gustare, invece, intere
pagine di ingenua poesia. “Felipe ed io siamo seduti vicini da una settimana,
a scuola, e tutti hanno capito che stiamo insieme. Qualcuno ha paura ad
avvicinarci, secondo lui, perché dice che io sembro un po’ ostile, come se non
mi interessasse niente dei nostri nuovi compagni. Gli ho mentito, gli ho detto
che non è vero, ma lui mi ha scoperta subito. È come se ci fosse un punto, sul
mio viso, che io non ho ancora individuato, dove lui riesce a leggere tutto
quello che penso. Tutto. E non sono gli occhi. Forse è la bocca, Felipe ama
guardarmela, me lo dice spesso. Forse è da lì che io gli confesso anche quello
che non vorrei”.
Il 1974 fu l’anno del bilico:
nazionale e familiare. I disordini politici cominciavano a penetrare negli
strati del popolo ancora non schierato, grosse manifestazioni a Buenos Aires non
facevano ben sperare ed io, lavorando a tempo pieno, mi ero dovuta rassegnare ad
allentare il guinzaglio di Maria Elena. Il risultato era stato disastroso: mia
sorella si era allontanata sempre di più da me e mio padre, alienandosi in una
dimensione alla quale sembrava poter accedere solo Felipe, che ormai frequentava
assiduamente casa nostra, quando papà era in bottega. Io li lasciavo fare e poi
mi riducevo a dover scovare i nascondigli dove Elenita faceva sparire i suoi
diari, riempiti a calligrafia sempre più fitta e difficile da decifrare,
completamente differente da quella tonda e chiara con la quale avevo imparato ad
appropriarmi dei suoi segreti. Lei e Felipe avevano quindici anni, passavano
troppo tempo insieme per non farmi pensare che, prima o poi, qualcosa
sarebbe successo. Così, quando una sera tornai dal turno più tardi del solito e
trovai Elena seduta composta sul nostro letto, compresi immediatamente. Tuttavia
lasciai che fosse lei a parlare, finalmente, dopo mesi di faticosa trincea, come
aveva fatto solo due anni prima. All’inizio mi era sembrata quieta, poi aveva
preso a scaldarsi sempre di più, fino a costringermi a intimarle di abbassare la
voce. Ma era come avvolta in una bolla che la trasportava a due metri da terra
rispetto al resto dell’umanità. Ricordo che d’un tratto spalancò la nostra
finestra e scavalcò il davanzale, piombando in strada. Mi spaventai e mi
affacciai, chiedendole se fosse impazzita. Il suo nervosismo si sciolse in un
sorriso travolgente, che non le avevo mai visto addosso. In quell’istante lo
stomaco mi si contrasse sotto a un pugno di ferro e tra le dita sentii di nuovo
i suoi capelli, intrecciati ai miei. Elenita non era più una bambina, mentre mi
rispondeva “Sì, sì, sono impazzita” e correva giù per la strada, nella notte, a
raccontare il suo amore a La Plata intera. Le andai dietro e tornammo all’alba,
abbracciate. Il giorno dopo lessi il suo diario per l’ultima volta: “Ho fatto
l’amore con Felipe. E ho creduto di morire. È stato qualcosa di talmente
straordinario che non si può spiegare. Ed è assurdo, perché proprio qui, solo
qui lo potrei davvero spiegare. È che le parole non contengono niente di quello
che vorrei dire, tanto che vorrei poter usare un’altra forma d’espressione,
vorrei dipingere ma non basterebbe, e non basterebbe nemmeno urlare. Ci sono
cose che i nostri corpi non possono contenere. Fare l’amore con Felipe è una di
queste, è come il male per nonna Dulcina. Sono due cose completamente opposte e
diverse, eppure sono la stessa. Nessuna delle due il mio corpo, il mio cuore, la
mia mente sono in grado di controllare. Semplicemente, vanno oltre. E oltre non
so quel che esiste. Credo il cielo, o il paradiso, o le costellazioni. Credo che
quel che io intendo si aggiri in una galassia, sia sperduto, scoppiato come un
pianeta e vagante nell’universo. Una meteora. Quel che io ho sentito, mentre
facevamo l’amore, è una stella che esplode. Io non l’ho mai vista, una stella
che esplode. Quindi è proprio questo, credo. Un boato sconosciuto di luce che
muore e continua a brillare nei secoli”.
Maria Elena smise di scrivere
nel suo diario e cominciò a pubblicare articoli sul giornalino scolastico. Lei e
Felipe erano diventati abbastanza popolari, da quel che mi raccontava, e
trovava divertente vedere come i compagni li guardassero con rispetto, invece
di insidiare il loro rapporto. Era orgogliosa di Felipe e del suo polso da
attivista. Io più leggevo i loro articoli, più comprendevo che erano
politicamente identificati, più mi rabbuiavo. Il nome di Rega cominciava già a
circolare troppo frequentemente nelle strade, ma nessuno di noi credeva che le
cose sarebbero precipitate così in fretta. Nessuno di noi, né io, né mio padre,
né la mia povera madre, credeva che degli studenti potessero ritrovarsi a dover
gestire le attenzioni di un’organizzazione militare estremista.
Il 1975 fu un anno di
disordini sempre più violenti e si concluse in un clima di incertezza che
agitava il popolo. Maria Elena non faceva altro che parlarmi dell’Alleanza
Anticomunista Argentina, di come il Paese fosse sull’orlo del baratro, da quello
che riferivano gli universitari con i quali erano entrati in contatto i
rappresentanti dell’Unione Studenti, e di quanto fosse importante non lasciarsi
mettere paura. Era così decisa, così calma, quando mi spiegava quel che io di
tutta la fibrillazione politica non capivo, che mi convinse a non allarmarmi. E
ancora di più mi convinse Felipe, con i suoi modi sicuri e il suo viso pulito da
dipinto, gli occhi ancora pieni di fuoco come li avevo visti in quel bambino
infuriato. Era a casa nostra quando, la mattina del 24 marzo 1976, arrivò la
notizia del golpe. Suo padre, poliziotto, l’aveva cacciato dopo l’ennesima lite:
non approvava che il figlio avesse deciso di entrare nella Gioventù guevarista,
di andare a manifestare. Lo considerava un suicidio. Salvador Casares, uomo
deluso dalla vita e da una donna che lo aveva abbandonato lasciandogli un figlio
da crescere, fu proprio chi vide per primo il futuro avvicinarsi a grandi passi.
Salirono al potere Jorge
Rafael Videla e la sua Giunta militare. Iniziò la dittatura. Iniziò il Processo
di Riorganizzazione Nazionale.
Massera, Agosti e Videla
soffocarono un Paese intero nella morsa del terrore. Chiusero i sindacati,
chiusero i giornali, e dopo fu la volta della sospensione delle attività
politiche, della libera associazione. Stato d’assedio era una parola che
continuava a rincorrersi per i vicoli di La Plata. Poi, iniziarono le ricerche
dei nemici del regime. Iniziarono le sparizioni. Maria Elena tentò di
nasconderci la cosa per un po’, credendo di fare il nostro bene, e ci riuscì
fino a che i desaparecidos divennero troppi anche a La Plata perché noi non ce
ne accorgessimo. Sembrava di vivere in una dimensione parallela. Le persone
uscivano dalle proprie case come ogni mattina, o semplicemente calava la notte,
e un angolo di vuoto inghiottiva tutto. Impiegammo un paio di mesi per
capire che nessuno tornava, dopo essere sparito.
Le liti presero a scoppiare
violente, tra noi ed Elena, mentre mia madre piangeva nella sua stanza. Le
intimammo di smettere di frequentare la gente con cui era solita passare il
tempo, di lasciar perdere le manifestazioni. Ma lei sembrava non capire,
sembrava essere presa da un pensiero fisso, e ci odiava per quel che le
dicevamo. Ci definiva dei codardi. “Ci stanno trascinando sul lastrico e nessuno
apre bocca! Ci stanno togliendo tutto. Nessuno dei miei compagni ha i soldi per
comprare i libri di testo, quest’anno. Nemmeno per pagare un biglietto
dell’autobus. Credete che queste cose cambieranno, se ce ne staremo zitti?
Perché vi ostinate a non capire quanto è importante? Carmen, almeno tu.
Felipe ti ha spiegato…”. Il nome di Felipe fece infuriare mio padre, quella
sera, durante l’ultima conversazione che ricordo veramente bene tra noi tre. “La
gente sparisce, Maria” solo lui la chiamava così “Non tornano più. Io devo
vedere mia figlia sparire in un buco? E’ questo che mi stai chiedendo? Vuoi
ammazzare tuo padre? Vuoi ammazzare tua madre?” sbraitò, completamente fuori di
sé. Allora Maria Elena si placò, immediatamente, come ricordando qualcosa. “No”
mormorò, rilassando le mani “No, no. Non andrò, va bene? Non dovete stare male”.
Si avvicinò e abbracciò mio padre, e forse solo in quell’istante, quando lui le
franò tra le braccia pallido e improvvisamente vecchio, capì che era davvero
spaventato. Mi sorrise da sopra la sua spalla e per un attimo tornò Elenita, la
mia bambola. Avrei dovuto capire che stava fingendo.
Il giorno dopo Felipe e Maria
Elena andarono alla manifestazione. Erano tanti, erano quasi tutti minorenni,
erano pacifici. Volevano solo uno sciocco tesserino liceale, uno stupido
tesserino. Ma non c’erano più differenze, nella repressione.
Quando tornò a casa, le lessi
subito in faccia che era stata lì. Le diedi uno schiaffo, uno schiaffo
fortissimo, non appena fu abbastanza vicina. Lei non emise un gemito e mi
abbracciò. La strinsi violentemente e ricordo di aver provato uno smarrimento
che in quel momento non mi spiegai. “Ho paura”, le dissi “Ho paura, non farti
ammazzare, ti prego”. Lei rise affettuosamente di me e avrei voluto colpirla di
nuovo, invece la abbracciai ancora più forte. “Nessuna tomba può contenere un
rivoluzionario, amore mio” mormorò, prendendomi in giro. Poi si allontanò
accarezzandomi una guancia e sparì nella camera di mia madre, che la coccolò con
i suoi sussurri.
Quella notte Elena si
incontrò con Felipe, come succedeva spesso, e fecero l’amore per l’ultima volta.
Avrei voluto dirle di non andare, di restare con me, ma non lo feci: ero certa
che sarebbe stato inutile. La vidi sgusciare fuori dalla finestra con i suoi
capelli d’argento sparsi tutt’intorno. Indossava la mia maglietta a fiorellini,
bianca, con un bordo spesso e nero che faceva a botte con il suo pallore. Si
voltò prima di allontanarsi nel buio e mi sorrise.
Non la rividi mai più.
Presero Elena mentre
rientrava, all’alba. L’aspettai per tutta la notte, e quando scoccarono le sette
del mattino, compresi che mia sorella non sarebbe tornata. Lo capii dal vuoto
che mi si allargò nel petto e che, con il passare delle ore, divenne una
voragine. Quando papà si ripresentò a casa, dopo una corsa disperata fino da
Felipe per accertarsi che davvero, davvero, Elena non fosse nemmeno là,
aveva esaurito tutte le lacrime ed era un uomo demolito, sbriciolato. Avevano
trovato Felipe e suo padre morti nel loro appartamento. Il padre di Felipe gli
aveva sparato alle spalle, alla nuca, e dopo si era ucciso. Mio padre ripeté
farfugliando, in piedi in mezzo alla stanza, che Felipe aveva quella maglietta
gialla, quella che Elena gli aveva regalato, e che era tutta zuppa di sangue,
che tutti potevano entrare e guardare quei cadaveri come fossero maiali scuoiati
appesi in macelleria. Che c’era chi aveva mormorato di come il poliziotto avesse
saputo del mandato di sequestro per il figlio quella notte stessa e di come
avesse deciso di ammazzarlo, piuttosto di fargli subire le torture.
Quando mia madre scoprì, si
alzò per la prima e unica volta in diciassette anni. Si alzò, e barcollò in
strada, e cadde per terra, e lì rimase, prostrata, urlando il nome di mia
sorella fino a contorcersi sul selciato.
Felipe e Maria Elena se ne
sono andati così, nel settembre del ’76, nel mese che avevano deciso di
cancellare. È come se qualcuno, allungando una mano, li abbia scossi via,
schiantandoli lontanissimo. Mi sforzo di convincermi che ora sono nell’universo,
in quella stella esplosa, in quell’oltre dove finalmente Elena, la mia Elenita,
riuscirà a spiegare cosa è il suo amore. Più spesso succede che invece
queste cicatrici brucino come carboni ardenti. Penso che forse hanno violentato
mia sorella, che le hanno dato le scariche elettriche attaccandole il seno a una
macchinetta, o infilandole un cucchiaino tra le gambe, per andare a spaccarla di
dolore dall’interno. O che l’hanno immersa in una vasca fino a farla morire. E
penso che lei non aveva nessun reato da confessare. E quando penso a questo, non
riesco a dormire per giorni interi. Poi Saul mi viene vicino, mi abbraccia per
ore. Mi sforzo di pensare a quando tutto deve essere finito, a quando lei se n’è
veramente andata da questa terra, e mi chiedo se per caso ho sentito qualcosa di
diverso, cerco di capire quando è esattamente successo. Ma mi dicono in
tanti che questo non può aiutarmi, lo dice anche mio marito. Allora, provo a
pensare a quando l’hanno lanciata da un aereo, addormentata, e i suoi bei
capelli sono finiti nell’oceano, o a quando l’hanno bruciata e le sue ceneri si
sono perse nel vento.
Penso a Elenita che mi
stringe forte e sorride, e scompare oltre la finestra… “Nessuna tomba può
contenere un rivoluzionario”… per non tornare mai più.
Carmen de Acha
Buenos Aires, 16 settembre
1995
“Li portavano sull’aereo
poi dicevano: è una bella giornata, andate fuori un po’ a giocare”.
Silvio Berlusconi, Presidente
del Consiglio italiano, riferendosi ai voli della morte con cui venivano
eliminati gli oppositori del regime. Campagna elettorale nella regione Sardegna,
2009.
“Gli ufficiali ci dissero
che dovevamo combattere la sovversione, difendere la patria, la civiltà
cristiana. Combattevamo il terrorismo, ma solo dopo molti anni compresi che
eravamo noi, i terroristi”.
Claudio Vallejos,
sottufficiale dei marines argentini, torturatore. Intervista rilasciata a Il
Corriere della Sera, nel 27 aprile 1985.
NdA: I fatti narrati sono
ispirati ad avvenimenti realmente accaduti, in particolar modo alla
Notte delle
matite spezzate, un’operazione organizzata dalla polizia argentina che ha
portato alla morte, previa tortura, di alcuni studenti degli istituti superiori
di La Plata, sequestrati nella notte del 16 settembre 1976. Con le espressioni
macchinetta e infilandole un cucchiaino tra le gambe l’intenzione
non era utilizzare metafore contorte per illustrare la tortura, ma riferirsi più
o meno velatamente a delle torture specifiche: i prigionieri sequestrati
venivano torturati anche applicando loro scariche elettriche; nel caso delle
donne, le macchine per le scosse venivano attaccate ai seni, agli organi
genitali, o veniva loro introdotto un cucchiaino nell’utero per far arrivare le
scosse alle parti più sensibili al dolore (la fonte di queste informazioni è
l’intervista a Claudio Vallejos, citato in questa stessa pagina, ed è
integralmente visionabile
qui.
Gli episodi storici riportati
sono tutti realmente accaduti. Maria Elena de Acha e Felipe Casares non sono mai
esistiti, in compenso condividono una storia identica alla loro
approssimativamente 30.000 persone scomparse e uccise durante il regime Videla.
Nunca Mas significa mai più, ed è anche, oltre ad una delle espressioni
che più si ripetono nella One-Shot, il nome del rapporto del CONADEP che riporta
testimonianze su sequestri, torture ed eliminazione di oppositori messi in atto
dalle autorità militari. Ad ogni modo, dei riepiloghi sommari su questo
genocidio si possono trovare al seguente link:
http://www.nuncamas.it/.
Non so se può essere utile in
qualche modo, anzi credo che sia un’informazione totalmente superflua, ma ho
scritto questo testo su due soundtrack specifici:
Tears In The Rain, di Joe
Satriani e Together We
Will Live Forever, di Clint Mansell.
Questa storia si è
classificata prima al Collapsing Night contest, indetto da Alexluna sul forum
Collection of Starlight, il cui bando è stato pubblicato anche sul
forum di EFP. L’icon alla quale sono ispirate le sembianze dei personaggi è
questa,
creata da Boundary (potete trovare
qui il suo
livejournal, pieno di roba bellissima :3 :3, tra l’altro) ed elaborata da
Ulissae.
Credo di aver detto veramente
di tutto, quindi mi ritiro in buon ordine.
Grazie.
Ah, e La Plata lo è sul
serio, piena di tigli.
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