Happiness
is home
Titolo:
Happiness is home
Pairing:
Sasu/Naru
Rating: Arancione
Note: Ok...so che
molte di voi vorrebbero uccidermi perché ho interrotto due
storie piuttosto
seguite e latito da più di un anno
sull’aggiornamento di Kamikaze XD...per
questo motivo ho pensato di pubblicare questa storiella in 3 capitoli
che
languiva da circa 6 mesi sul desktop. Spero che gradiate il mio ritorno
su Efp!
^^
Ps.
La storia non è betata, l’ho corretta da sola ma
la
punteggiatura potrebbe essere leggermente orrenda XD...se qualcuno si
offrisse
di revisionarla sappiate che non mi opporrò X3...
Parte 1
Il giorno in cui io e mia madre
lasciammo Uzu, pioveva a
dirotto.
A mia madre Kushina, quel
piccolo paesino di periferia era
sempre andato stretto; detestava le strade polverose e
l’indolenza che sembrava
regnare sovrana. Credo che anche essere continuamente additata come
poco di
buono non l’aiutasse ad amare il luogo in cui era nata e
cresciuta.
Per la maggior parte della
gente del paese mia madre era quella
là, la ragazza da indicare alle
bambine che facevano i capricci o alle proprie figlie, quando si
accingevano ed
uscire per la prima volta con il fidanzatino.
“Comportati
come si
deve! Non vorrai mica finire come quella là.”
Mia madre era finita incinta a
soli quattordici anni, dopo
aver intrattenuto una relazione con un uomo più grande di
lei. Un uomo con una
moglie e un figlio. Non ho mai conosciuto i dettagli della loro storia
e ho
deciso da tempo di non credere alle voci che giravano, ciò
che so è che mia
madre, ancora bambina, decise di tenermi malgrado tutto e tutti.
Vivevamo con mia nonna Mito.
Lei sopportava mia madre perché
era sangue del suo sangue e tollerava me perché ero sangue
di sua figlia. Non
era una nonna amorevole, di quelle che cucinano crostate e ti regalano
le
caramelle di nascosto. Il massimo che riuscivo ad ottenere erano delle
mele
cotte, con la cannella se era particolarmente di buon umore.
Non avevo amici; le mamme
dicevano ai loro bambini di non
giocare con me perché ero il figlio di una donna immorale,
nato da una
relazione peccaminosa.
Non ho mai conosciuto mio
padre, non nel vero senso della
parola. Sapevo il suo nome e lo osservavo, quando portava i suoi figli legittimi al parchetto.
Ci sono stati giorni in cui
l’ho odiato, altri in cui ho
desiderato disperatamente un suo sguardo. A volte immaginavo
d’essere io il
bambino che spingeva sull’altalena o la bambina a cui
comprava il gelato; mi
chiedevo come sarebbe stato avere un papà, una bella casa,
tanti amici e una
mamma normale che non somigliava ad una sorella maggiore.
Ripensandoci adesso la mia vita
in quel paesino di provincia
faceva piuttosto schifo.
Eppure piansi come se non ci
fosse un domani, quando, dopo
aver impacchettato i nostri averi, mia madre mi caricò in
macchina quella
mattina piovosa di novembre.
Avevo compiuto da poco otto
anni, stavo lasciando tutto ciò
che avevo sempre conosciuto per l’ignoto ed ero terrorizzato.
Mia nonna mi salutò
con l’unico abbraccio che mi abbia mai
donato e, accarezzandomi i capelli, mi sussurrò
“Sei un bravo bambino Naruto.”.
Potrei giurare
d’averla vista piangere, mentre la nostra
macchina di terza mano si allontanava.
Forse, però, era
solo pioggia.
*
Mi piacerebbe poter dire che
mia madre sapeva ciò che stava
facendo abbandonando Uzu dall’oggi al domani, ma la
verità è che le prospettive
a lungo termine non erano e non sono mai state il suo forte.
Vivere
l’attimo,
questo è sempre stato il motto di Kushina Uzumaki.
Così, vivendo
l’attimo, percorremmo la statale Est senza una
meta precisa, dormendo in motel scadenti e mangiando in altrettanto
scadenti
tavole calde.
Le stanze che affittavamo
avevano sempre il pavimento
ricoperto di moquette lurida, il colore poteva anche mutare dal
classico rosso
mattone ad un assurdo giallo limone ma lo strato di sporco rimaneva
costante. Le
lenzuola pizzicavano la pelle e puzzavano di stantio e il bagno aveva
il
soffitto macchiato d’umidità.
I locali in cui ci fermavamo a
mangiare erano sempre pieni
di camionisti, fumo e cameriere arrabbiate con il mondo.
Per un po’ fu
divertente, una specie di campeggio durante il
quale potevo mangiare patatine fritte e gelato a colazione, pranzo e
cena,
andare a letto quando più mi aggradava e non ero costretto a
lavarmi 3 volte al
giorno.
Fu quando l’odore di
fritto cominciò a nausearmi e dichiarai
che la doccia era la miglior invenzione del genere umano che compresi
quanto
quel vagabondare mi avesse stancato.
Mia madre era ancora nel pieno
della fase born to be wild quando
le chiesi per la
prima volta dove eravamo diretti.
“Verso
l’aurora Naru-chan, ” mi rispose ridendo e
scompigliandomi i capelli biondi.
Quelle parole, che per mia
madre avevano il sapore della
libertà e dell’avventura, su di me ebbero un
effetto shoccante. La sensazione
di assoluta precarietà, che avevo provato abbandonando Uzu,
tornò più viva che
mai.
Non avevamo un posto dove
andare.
Da quel giorno in poi tormentai
mia madre, diventando sempre
più petulante. Volevo una meta, volevo una casa, amici con
cui giocare, volevo
tornare a scuola, volevo una vita normale.
Alla fine mia madre cedette,
credo più perché i soldi
cominciavano a scarseggiare che per le mie rimostranze.
Ci stabilimmo a Degarashi
perché, passando per la sua via
principale, notammo un cartello con su scritto:
Si
cercano operatrici di Call-Center
Chiamare
02xxxxxx98.
Segnai il numero sul mio
palmo con un pennarello verde trovato sotto il sedile e lo recitai a
mia madre
quando, trovato un telefono pubblico, si voltò verso me e
sorrise svampita
mentre ammetteva d’averlo già dimenticato. Fece il
colloquio quello stesso
pomeriggio, con la stessa felpa che aveva sporcato di cioccolato a
colazione, i
jeans spiegazzati e i capelli rossi raccolti in una treccia
scarmigliata. Mi chiedo
ancora oggi come abbia ottenuto il posto.
In ogni caso tornò
con un
sorriso smagliante che sapeva di vittoria e mi annunciò che
non solo era un’impiegata
della Hiroaki Inc. ma che aveva addirittura trovato una casa per noi.
La casa in questione era
un piccolo bilocale piuttosto squallido, situato in un condominio
aziendale
nella periferia della città. Un cucinino con zona giorno, il
solito bagno
macchiato d’umidità, una camera da letto: niente
di eccezionale ma dopo due
settimane di vagabondaggio mi sembrò il paradiso.
Stavamo per cominciare una
nuova vita ed io ero certo che sarebbe stata splendida come
l’aveva descritta
mia madre durante le notti passate in motel.
Ancora non sapevo che dei
sogni di Kushina Uzumaki non ci si poteva fidare.
Il nostro soggiorno a
Degarashi durò circa tre settimane durante le quali si
susseguirono una serie
di avvenimenti che diventarono uno schema fisso per gli anni a seguire.
Inizialmente le cose
andarono piuttosto bene, il vicinato fu accogliente, mia madre
s’inserì bene sul
posto di lavoro ed io cominciai a frequentare la scuola di quartiere.
Essendo il
bambino nuovo, non avevo ancora
molti
amici ma un paio di ragazzini che abitavano nel mio stesso interno mi
salutavano, se m’incontravano sulle scale la mattina, e poco
dopo presero ad
aspettarmi per fare la strada insieme. Era la cosa più
simile a degli amici che
avessi mai avuto e questo mi rese euforico.
Poi tutto andò in
malora.
Cominciò con una banale conversazione fra vicine; la Signora
Ighe incontrò mia
madre nel cortile esterno una sera e, chiacchierando del più
e del meno, le
disse la frase che cambiò tutto.
“Certo non deve
essere
facile occuparsi di un fratellino a tempo pieno per lei che
è così giovane, “.
Mia madre la guardò
a dir
poco allibita e replicò leggermente scocciata
“Naruto è mio figlio Signora.”
La signora Ighe spiazzata
replicò poche parole di circostanza e si dileguò.
Il giorno dopo tutti
sapevano che Kushina Uzumaki, la graziosa ragazza
dell’interno 7, era in realtà
una poco di buono, una sfacciata che si permetteva di sbandierare in
giro l’esistenza
di un figlio di 8 anni, quando lei ne aveva solo 22.
L’intero condominio
ci
ostracizzò e i bambini che erano stati carini con me smisero
di parlarmi.
A scuola ero molto
indietro, a causa del trasloco, e presto mi trovai in seria
difficoltà. Nel giro
di due settimane fui etichettato asino
della classe e, poiché neanche nello sport ero mai
stato una cima, divenni
oggetto di scherno da parte dei miei compagni.
Mia madre, in risposta ai
pettegolezzi condominiali, cominciò ad uscire con un collega
che le faceva la
corte sin dal primo giorno. È un eufemismo dire che fu un
disastro; l’idiota le
spezzò il cuore e la sputtanò in ufficio e fuori.
Tre settimane e tutto era
tornato come ad Uzu.
Tre settimane e rimpacchettammo
i nostri averi, li caricammo sulla nostra vecchia Desoto e partimmo
verso l’alba.
Era il 15 dicembre e la
neve mi sembrò fango, lo stesso che avevo nel cuore.
.....Tbc....