Dear father-Capitolo 1
Dear
Father
CAPITOLO
1
“Cosa
diamine vuol dire che l’auto non è ancora
arrivata?! Ho
specificato chiaramente che l’auto avrebbe dovuto essere qui
già due ore prima
del nostro arrivo, e ora mi dite che non
c’è?!”
Un
ragazzo moro osservava da dietro i suoi occhiali la scena.
Il manager era alquanto
alterato e stava urlando in tedesco contro una
donna che lo guardava, incapace di rispondere. Arrivò alle
sue spalle
un uomo alto e robusto che poggiò le mani sulle spalle della
donna,
invitandola ad allontanarsi.
“Signor
Jost ci scusiamo per il disguido ma l’autista che
avrebbe dovuto riportare l’auto ieri sera ha avuto un
incidente con la stessa.” disse l'uomo in un perfetto
tedesco.
Doveva
essere il direttore pensò.
Aveva
una voce pacata, sembrava che l’ira del manager non lo
toccasse poi molto. Probabilmente era abituato a scene come
queste.
I
pensieri
del moro furono interrotti quando si sentì preso in causa
dall’amico.
“Ah
perfetto ci mancava solo questa! Non solo abbiamo dovuto
aspettare per tre ore i due mister America ora dobbiamo farcela a piedi
fino all'Hotel!” disse in un soffio un ragazzo dai capelli
lunghi e
piastrati.
“Finalmente
qualcuno che riconosce la mia bellezza con un
titolo adeguato, anche se è riduttivo dire mister
America!” disse beffardo il
moro.
“Tom
credo che Georg
volesse insultarti non apprezzarti. E poi non è colpa nostra
se ci sono
state turbolenze durante il viaggio”
rispose un ragazzo identico a lui, se non fosse stato per il trucco
pesante
attorno agli occhi e i vestiti decisamente attillati rispetto a quelli
“comodi”
del primo.
“Nooo
ma non mi dire! Credevo si fosse preso una cotta per
me. Beh se mai dovessero piacermi gli uomini tu saresti il primo a
saperlo
caro!” finì a malapena la frase quando una ragazza
con un vestito blu che
lasciava poco all’immaginazione, le passò
di fianco.
Il
ragazzo la squadrò dalla testa a i piedi per poi
sorriderle sghembo.
"Devo
constatare che esista una sola remota possibilità
che questo accada!"
rise il biondino accompagnato da un sorriso del frontman del gruppo,
che vide il fratello ancora intento ad osservare
il fondo schiena
della ragazza.
“Bene.
Il direttore ci ha chiamato dei taxi per raggiungere
l’albergo, la limousine sarà pronta domani mentre
per voi…” disse l’uomo porgendo
ad ognuno dei ragazzi un mazzo di chiavi “…ha
messo a disposizione quattro auto
per l’intera durata del soggiorno qui a Milano. Le potrete
trovare in albergo.”
“Devo
dire che l’attesa ha ripagato. Spero solo che vadano
veloci!” disse il piastrato più a sé
stesso che agli altri.
“L’importante
ora è che andiamo noi! Siamo già in ritardo
per l’intervista e se non ci sbrighiamo saremo in ritardo
anche per lo shooting
fotografico delle due!” urlò il manager che ormai
era svanito dietro le porte scorrevoli dell'uscita.
Si
misero in viaggio.
David
osservò silenzioso il paesaggio dal finestrino per tutto il
tragitto.
Si sentiva strano, quasi impotente come se qualcosa più
grande di lui gli stesse per piombare addosso da un momento all'altro.
Non gli piaceva Milano.
Portava
con sè troppi ricordi ormai passati. Sebbene una volta
potessero essere
definiti felici, ora gli lasciavano solo dell'amaro in bocca.
Sì, voleva che quella settimana finisse velocemente.
Chiuse più volte gli occhi stringendoli, come se, con quel
gesto, potesse ritrovarsi comodamente seduto sull'aereo di ritorno a
casa.
Era ancora tutto
lì, gli edifici, gli alberi, le persone.
Era ancora a Milano.
***
Scese
lentamente dal letto per poi dirigersi verso il bagno.
L’immagine
che le
appariva riflessa non le si addiceva, delle goccioline di sudore si
erano
cristallizzate sulla sua fronte, i suoi occhi erano accerchiati da
occhiaie e i
capelli neri solitamente mossi erano annodati e aggrovigliati.
Erano
ormai le sei del mattino, la luce del sole che
cresceva inondava la stanza di una felicità che non le
apparteneva. Aveva
dormito ben poco quella notte, disturbata dagli assordanti ricordi che
le
riecheggiavano nella mente.
Decise
di farsi una doccia per far scivolare via tutti i
suoi pensieri, per estraniarsi dal mondo per un tempo infinito.
Osservò
l’orologio che segnava le sette in punto. Era
presto.
“Beh
ho tutto il tempo necessario per trovare qualcosa da
mettere” si disse aprendo le ante dell’armadio.
Niente,
dopo un’ora di ricerche non trovò nulla che
potesse
addicersi a un appuntamento come il suo. In fin dei conti cosa avrebbe
potuto indossare
ad un appuntamento di lavoro che potesse contemporaneamente andare bene
per
una
rimpatriata famigliare?
Prese
il cellulare. “Sono le otto e un quarto, se Claudia
dorme ancora credo che le farebbe piacere sentire la mia soave voce al
posto
del fastidioso allarme di una stupida sveglia! Che dici
Akira?”
Sabrina
guardò la cagnolina abbaiare e scodinzolare felice.
Prendendo il comportamento della sua piccola amica come un consenso,
compose il numero e inoltrò la chiamata.
“Uhm…”
“Buon
giorno anche a te!” disse immaginando la faccia
dell’amica.
“Bri
per quale assurdo motivo mi stai chiamando così presto?
Non mi sembra la mia sveglia sia già
suonaaah…” un rumoroso sbadiglio
interruppe la frase “…hata”.
“Beh
scusa se mi preoccupo per la salute della mi migliore
amica!” disse con tono acido mentre si versava del
caffè caldo in una tazza.
“Devo
dire che ti sei alzata di buon umore! Prima mi svegli
e poi mi rispondi come fossi tu la vittima!” aspettò una
risposta ma dall’altro capo del
telefono udì solo silenzio.
“Bri
tutto bene?”
“Oggi...”
aspettò qualche secondo prima di finire la frase. Non
ne sarebbe stata del tutto consapevole finché quelle parole
non le fossero
uscite dalla sua bocca, e questo lo sapeva bene.
Prese
fiato.
“Te
l’avevo detto che oggi avrei dovuto tenere lo shooting
dei Tokio Hotel e che quindi avrei rivisto mio padre.”
Era
fatta ormai l’aveva detto. Lo avrebbe rivisto. Avrebbe
rivisto lui. Lui
che si era ormai scordato di avere una figlia, lui
che girava per il mondo troppo preso
dal suo lavoro, troppo occupato a gestire la vita di quattro ragazzi
piuttosto
che chiamare la sola ragazza di cui avrebbe dovuto importargli
veramente.
Ma
cosa avrebbe dovuto aspettarsi?
David
Jost era un uomo d’affari, lo era sempre stato e
l’immagine da bravo paparino non gli si addiceva. No, non gli
si addiceva per niente.
“Sabri..
se hai bisogno vengo immediatamente da te. Basta
che mi dai dieci munti per vestirmi”
“Sì
ti prego vieni! Non so cosa mettermi ed è da ore che
cerco qualcosa da indossare e…” una fragorosa
risata la interruppe.
“
Che cavolo ti prende adesso?” sbottò.
“Scusa
è solo che credevo fossi agitata perché avresti
dovuto rivedere tuo padre e invece non sai quali vestiti mettere! Vammi
a
comprare una brioche e prepara il caffè che tra mezzora sono
da te!”
“Grazie!”
“Prego,
ma ricordati che ti devo svegliare una di queste
notti!!” disse scherzando l’amica.
“Sì
certo, a dopo Claudia!”
Si
infilò i primi vestiti che le capitarono tra quelli
ammucchiati
sul letto, mise il guinzaglio ad Akira e uscì.
***
Il campanello
suonò insistentemente.
"Arrivo un attimo!"
urlò la ragazza dalla sala.
"Bonjour
medemoiselle! Sono stata assegnata a una certa Sabrina Jost,
è lei?" disse una ragazza minuta e bionda.
"Oh oui
mademoiselle! Je suis Sabrina mais vous pouvez m'appeler Bri!" disse
sorridente la mora porgendole la mano.
"Non so cosa tu mi
abbia detto. In ogni caso sono venuta a farti da stylist mia cara e
come ricompensa vorrei la mia brioche!"
"È in cucina insieme
al caffè." la bionda seguì l'amica che le
versò il caffè e le diede la brioche alla
marmellata. Si sedettero in silenzio a sorseggiare la brodaglia nera.
"Allora come stai tesoro?" la
bionda la guardò come una madre preoccupata per la propria
figlia. Le faceva tenerezza quell'aspetto di Claudia.
Erano completamente diverse.
Claudia espansiva e solare e allo stesso tempo protettiva; Sbrina era
timida, introversa e orgogliosa, troppo orgogliosa per poter ammettere
di soffrire.
"Sto bene. Tanto è
inutile preoccuparsi, lui non sa neanche che esisto. Mi creo problemi
da sola..." rispose fissando la parete bianca della cucina.
"Beh ma è comunque
tuo padre. E anche se lui non sa chi tu sia, non puoi comportarti come
se nulla fosse!" la sua amica stava male e lei non sapeva che fare.
Cercava di capirla ma quando era
lì per lì a far crollare quel muro, Sabrina ne
costruiva uno ancora più alto, ancora più spesso,
ancora più indistruttibile.
Non le aveva mai parlato molto del suo passato a Berlino, sapeva solo
che sua madre era morta di cancro quando lei aveva solo dodici anni e
che si dovette trasferire a Milano dalla nonna materna; sapeva che suo
padre era un manager ma niente più, non le aveva raccontato
altro.
"Lo so ma non posso nemmeno
presentarmi a lui come sua figlia! Comunque andiamo a cercare
qualcosa da mettermi addosso." si diresse verso la camera da letto
seguita dalla bionda.
Sarebbe stata una lunga giornata.
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