Secondo livello della Scalata verso il Wolfstar di wolfstar_ita: il prompt è bere e io sono tutta ringalluzzita perché ho rispettato i tempi. Mi piacciono, questi due.
Di ciò che è importante
Novembre 1995
For we don’t realize our faith in the prize unless it’s been somehow elusive-
how switfly we choose it, the sacred simplicity of you at my side.*
<< Mi perdoni?>>
Quando Sirius Black fece irruzione nella sua stanza di Grimmauld Place
doveva essere certo, in qualche modo incomprensibile, che vi avrebbe
trovato Remus; aveva sempre avuto una certa predilezione per le entrate
ad effetto, e questa onorava una lunga tradizione di sorprese male
accette.
Si richiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò sopra. Lo
inchiodò col gelo di quella sua serietà stranissima, come
se lo sforzo rifondesse quel naso e quella bocca e quegli occhi
familiari in una forma nuova e spaventosa. C’era stato un tempo
in cui Sirius Black non sarebbe riuscito ad essere serio nemmeno se ne
fosse andato della sua vita.
Remus, seduto sul letto, si mise in piedi facendo cadere il libro che
stava leggendo. Aveva i capelli scompigliati, e con risultati
disastrosi se li premette sulla testa come per darsi un contegno che
date le circostanze era del tutto superfluo.
Le scuse di Sirius puzzavano di firewhiskey e l’aria della stanza
era densa di alcool e malumore. Da quando si era rimesso a bere aveva
sempre quell’aspetto come di cane bastonato e un umore nero, e la
cosa peggiore era che puzzava tutto il tempo, una puzza di cose vecchie
e sporche e neglette, e dei rancori che gli marcivano dentro.
Volendo fare uno sforzo di onestà, Sirius aveva sempre subito il
fascino discreto del bere e del puzzare. Ma c’era stato un tempo-
un tempo lontanissimo, una vita prima-, in cui queste cose avevano
fatto parte del suo fascino, dell’anarchia chiassosa di un
Felpato che aveva occhi più luminosi e rideva tutto il tempo.
Remus lo sapeva meglio di chiunque altro. Lui c’era, la prima
volta che Sirius si era ubriacato. Dopo la festa per la fine dei GUFO
stava così male che aveva dovuto tenergli la testa tutto il
tempo, in ginocchio sulle piastrelle del bagno del settimo piano,
perché era l’unico a cui la vista del vomito non desse la
nausea. Aveva quindici anni, e per la prima volta in vita sua gli era
capitato di doversi prendere cura di qualcuno, ma di curarsene davvero,
perché non c’era nessun altro che poteva fare quella cosa,
e ricordava che non gli era dispiaciuto troppo condividere
quell’umiliazione, perché pensava- era importante, era importante
che lui fosse lì e tenesse la testa a Sirius e gli impedisse di
fare qualcosa di stupido come soffocarsi nel proprio vomito.
In fondo, forse, anche quella notte di Novembre era una notte
così; si sarebbe dovuto prendere cura di Sirius e avrebbe dovuto
impedirgli di soffocarsi nella solitudine, e magari, come
quell’altra notte, Sirius lo avrebbe ricompensato con un sorriso
tremulo e bellissimo e lui avrebbe sentito che non era poi così
male stare al mondo se si aveva qualcuno di cui prendersi cura.
Gli sfiorò un gomito con una delicatezza a cui non era abituato:
fu quasi sorpreso di ritrovarvi uno spigolo familiare, un pezzo di quel
corpo che una volta era stato un prolungamento del suo.
<< Certo che ti perdono.>>
Da quando aveva cominciato a bere Sirius aveva preso
quest’abitudine autoindulgente di porgere le sue scuse a tutti i
malcapitati a cui riteneva di aver fatto un torto. Si era cosparso il
capo di cenere in ordine davanti a Tonks e a Molly Weasley e a Kingsley
e a Silente, volenti o nolenti o semplicemente perplessi che fossero, e
tutte quelle scuse solenni per torti banali avevano il sentore
dell’umiliazione e dell’alcool, che erano tutto quello di
cui Sirius sembrava fatto da quando aveva cominciato a bere.
Remus aveva capito da un po’ che quelle scuse non erano che prove
di una scena madre, e che di quella scena madre sarebbe dovuto essere
il coprotagonista. L’aveva saputo e aveva evitato Sirius
sistematicamente; non voleva vederlo così spezzato e patetico e
non voleva delle scuse farfugliate dalla bocca impastata di un ubriaco,
ma soprattutto non voleva dover spiegare perché non sentiva di
meritarle.
Il fatto era che nessuno poteva sentirsi in diritto di ricevere
delle scuse da Sirius, non dopo aver visto come viveva, chiuso in
quella casa con tutti i suoi fantasmi e tutti i suoi rimorsi** a
raccogliere i cocci di una vita. Non aveva nulla da perdonargli e
tutte le colpe del mondo le teneva per sé, per la paura che
aveva assecondato finchè non se ne era lasciato avvelenare, per
tredici lunghi anni di odio. E allora era Sirius quello che doveva
perdonarlo, e glielo disse quasi senza pensarci, con una leggerezza
anodina nella testa e un peso sullo stomaco.
<< E tu pensi di potermi perdonare?>>
<< Sei fuori di testa.>> Gracchiò l’altro, e
gli spalancò in faccia degli occhi smisurati, feriti;
sembrò quasi offeso che gli avesse rubato la parte, e del resto
sarebbe stato tipico di Sirius, di qualunque versione di Sirius. La
versione di quella sera si premette di più contro la porta per
bilanciare l’equilibrio che stava perdendo e sembrò
rimettere in ordine i pensieri.
<< Perché non ho creduto- non ho voluto
credere nella tua innocenza.>> Continuò allora Remus,
cercando di mantenere la voce sul tracciato instabile della posatezza.
<< …Sono stato il primo a dubitare di te, tu non mi
avresti mai- se non fosse stato per me, tu non mi avresti
mai…>>
<< Ti ho odiato davvero, per tredici anni.>>
Sirius gli afferrò il bavero della camicia e avvicinò il
volto al suo, con rabbia e senza troppa convinzione. Remus poteva
sentire il suo fiato appiccicaticcio sulle guance, e si sentì
così triste, come se la tristezza che gli era stata
raggomitolata nello stomaco per tutti quegli anni si stesse
stiracchiando. Aveva voglia di vomitare. Sentì la morsa
dell’altro che si faceva molle, e poi le sue mani stanche sulle
clavicole.
<< Avrei voluto non farmi odiare.>>
<< Non avrebbe cambiato le cose.>>
<< Avrebbe cambiato tutto, invece. >>
La voce roca e vibrante di Sirius lo rese vecchissimo e molto stanco
tutto di un colpo; era una sensazione strana e sfocata, quella quiete
che si sentiva dentro come dopo aver pianto. << Senti, ti va se
ci sediamo?>> Indicò il letto dietrò di sé e
si massaggiò gli occhi con una mano sporca. Con l’altra
tirò Sirius per il gomito senza troppe cerimonie, e fu sollevato
quando sentì che lo stava seguendo. Lo mise a sedere sul
materasso; l’altro non replicò, e allora si
inginocchiò sul tappeto ai suoi piedi. Per un attimo la
pressione della mano di Sirius sui capelli lo fece sussultare di
nostalgia, ma fu un contatto così breve che non ci fu il tempo
di ricordare com’era stato un tempo.
Tornò a concentrarsi lui lacci delle sue scarpe, e quando se le
fu tolte mise mano agli stivali di Sirius e lottò con le cinghie
di metallo che li chiudevano. Aveva gli occhi bassi sulla pelle nera:
prese fiato e cominciò a parlare, e si sorprese a scoprire un
tono più leggero nella sua voce.
<< Se a quindici anni qualcuno mi avesse detto che un giorno mi
sarei abbassato a toglierti le scarpe, Sirius, mi sarei dato una mazza
da battitore in testa.>>
<< Se a quindici anni qualcuno mi avesse detto che un giorno ti
saresti abbassato a togliermi le scarpe, Lunastorta, ti avrei dato una
mazza da battitore in testa.>> Replicò l’ultimo
erede dei Black puntellandosi sul materasso coi gomiti. Allo stato
attuale delle cose, malgrado le sue dichiarazioni belligeranti,
sembrava più che contento di farsi servire.
<< Un pensiero delicato.>> Grugnì Remus sistemandosi
sul tappeto. Quando riuscì a strappargli via dal piede il primo
stivale emise un sospiro soddisfatto e si dedicò con lena al
secondo.
<< …Quand’è che siamo diventati così vecchi?>>
Remus alzò lo sguardo e ne incrociò uno grigio e antico.
Quando il secondo stivale si decise a dargliela vinta sobbalzò
sorpreso, e fece un sorriso a metà prima di parlare con la voce
che gli tremava di un riso trattenuto.
<< Vuoi davvero che ti risponda?>>
Quello scosse la testa tirando fuori un vecchio sorriso sgualcito, e
Remus gli posò una mano sulla caviglia quasi senza pensarci, con
l’aria pratica di uno che tastasse il polso a un malato. In un
certo senso era il suo modo di assicurarsi che Felpato fosse ancora
vivo da qualche parte, negli angoli di quello scheletro amico che si
muoveva, beveva, e ogni tanto parlava.
<< Ti ho amato davvero, Lunastorta.>>
Aveva ancora questa capacità piuttosto inservibile di uscirsene
con le cose più impreviste, quando beveva. Anche questo non era
mai cambiato, ma prima aveva avuto un tempismo migliore.
Remus si tirò in piedi mettendosi a sedere accanto a lui sul letto, con la schiena curva come Atlante.
Col gomito sul ginocchio e la guancia sul palmo della mano, decise che
prima del contrattacco doveva guardarlo per un po’ con un
sopracciglio sollevato. Aveva sempre un sopracciglio alzato a portata
di mano quando il gioco si faceva troppo duro ed esprimere dei
sentimenti sarebbe stato troppo inarticolato da parte sua.
<< Commovente, Sirius. Vuoi che ti salti al collo?>>
<< …Nel senso erotico del termine?>>
<< Solo se sei un masochista.>> Fu l’imbeccata del
licantropo. Tirò su le gambe si spostò indietro
come un gambero, gualcendo le coperte. << Fammi posto.>>
Aggiunse poi con un sospiro, per abitudine, e sentì una fitta
malcontenta nello stomaco quando si rese conto che Sirius era dimagrito
tanto che che anche così, a gambe e braccia aperte sul
materasso, ne occupava una porzione minuscola. Gli diede un colpetto
sulla spalla comunque, e quello si voltò docilmente su un
fianco. Sembrava molto contento della sua compagnia, talmente contento
che la felicità gli traboccava dagli angoli degli occhi,
disegnandogli rughe nuove che a Remus non andava di odiare.
Sprimacciò il cuscino e si stese; guardò il soffitto con
le mani sullo stomaco per un pezzo, in silenzio eccetto che per il
rantolo ubriaco dell’uomo accanto a lui.
<< …Anche ad Azkaban, ti amavo.>>
Remus fece un sospiro lunghissimo e non rispose. Si mosse un po’
sulle coperte e si tolse la bacchetta da una tasca del cardigan, per
posarla sul comodino. Spense la candela con le dita, si girò
verso Sirius; l’altro uomo borbottava nel sonno.
Si svegliò nel cuore della notte con un sussulto e un brivido,
come un animale braccato. Il fuoco nel camino era quasi spento. La
camera era sprofondata in un’oscurità fredda, striata
dalla luce della luna contro il mogano del legno.
Decidendo a malincuore che qualcosa andava fatto, Remus si alzò
senza curarsi troppo di fare piano; se lo conosceva, Sirius avrebbe
dormito sodo fino al pomeriggio del giorno dopo. Si gettò sulle
spalle la vecchia coperta all’uncinetto che giaceva abbandonata
ai piedi del letto e andò a incantare le braci del camino
perché bruciassero in un fuoco scoppiettante e bruciassero a
lungo, asserragliando la stanza di luce e calore. Forse avrebbero fatto
bene anche al suo umore.
C’era troppo freddo in quella casa, pensò, e per un
po’, mentre rabboccava le fiamme, si perse nell’idea un
po’ folle di partire, una volta finita la guerra, e portare
Sirius al sole e al caldo di qualche spiaggia lontana. A Felpato era
sempre piaciuta la spiaggia, anche se aveva dimenticato l’ultima
volta che c’erano andati insieme. Si sedette sul materasso;
quello cigolò e lui gemette sollevato, sentendo le punte delle
dita che gli formicolavano nel ritrovare il calore. Accanto a lui
Sirius dormiva sodo, dandogli le spalle, e nel sistemargli addosso una
coperta patchwork Remus si trovò a guardarlo un po’
più del necessario e si accorse di una cosa strana, e ci mise
moltissimo tempo a capire cosa ci fosse di strano, perché era
troppo stonata, quella nota stonata.
Sul letto grande che era stato dei suoi avi, nel freddo di una notte gelata d’autunno, Sirius sorrideva.
Era già abbastanza strano che dopo tredici anni ad Azkaban
riuscisse a dormire tranquillamente; non aveva più dormito per
bene, in effetti. Non era raro che fosse insonne per tutta la notte, e
quando dormiva i suoi erano sonni agitati; anche per questo aveva
cominciato a bere, Remus ne era sicuro, per dormire e per dimenticare
la notte nel caso non ci fosse riuscito.
Che poi gli dormisse accanto, e sorridesse, era un miracolo privato che si concesse di osservare
minuziosamente, catalogando ogni fremito delle palpebre e ogni
mugugnare sommesso con una precisione botanica e le sopracciglia
aggrottate, come se stesse assistendo a un evento rarissimo e di
proporzioni cosmiche che aveva deciso di svelarsi a lui, proprio a lui.
Paracelso il fetente doveva essersi sentito così quando aveva
scoperto il quarantesimo uso dell’agarica.
Fu come la nascita di una stella nuova, solo che succedeva dentro di
lui, a Grimmauld Place, in una notte scura di Novembre, e
l’agarica era molto importante, ma questo sembrava così
più importante da spazzare via tutto il resto.
Accadde per caso, come tutte le grandi cose; accadde che la presenza di
Sirius, vivo e accanto a lui, lo travolgesse con una forza inaudita,
stordente. Accadde che si sentì più leggero e più
saggio insieme, e gli venne voglia di perdonare il passato e se stesso
e Sirius e tutto l’universo, perchè tutto il dolore, tutto
l’orrore avevano portato a quel momento semplice e benedetto***,
alla presenza concreta e miracolosa dell’uomo che amava –che amava!, al suo fianco.
La stanza non gli sembrava più così fredda.
Remus pensò- pensò che Sirius dormiva sodo, e che non
l’avrebbe disturbato, e che comunque non avrebbe potuto fare
altrimenti, ed era stupido anche solo pensare di poter trovare una
giustificazione, perché quella era una cosa importante,
e allora prese la mano di Sirius e si aggrappò a lui come se la
sua sopravvivenza a quella notte dipendesse dall’avere un braccio
attorno al suo fianco, dal gesto ovvio di nascondergli il naso fra i
capelli. Si disse, per consolarsi, che da vecchi era normale rinunciare
alla propria compostezza inglese, e sospirò forte ridendo piano
fra sé.
Sirius si mosse fra le sue braccia, e anche se trattenne il fiato un
po’ per abitudine, Remus non fu in grado di sentirsi troppo
mortificato per averlo disturbato, e lo stomaco che gli si stringeva di
una commozione infantile sembrava confermarlo. Lo sentì muoversi
e muovere le gambe e poi i piedi nudi sui suoi, e sentì quel
corpo leggero in un modo ridicolo voltarsi verso di lui, la testa di
Sirius contro il petto e lo sguardo liquido e assonnato e grato
agganciato al suo e poi il respiro regolare di quando si fu
addormentato.
Con il peso di un corpo intero sul braccio e la coperta di lana sui
piedi, Remus scivolò senza accorgersene in un sonno senza sogni
e senza incubi. La mattina dopo si sarebbe svegliato senza sentirsi il
braccio e sudato dalla testa ai piedi, e immensamente grato e in
imbarazzo avrebbe sorriso a Sirius di un sorriso tremulo e bellissimo.
*; **; ***: mentre scrivevo ho ascoltato in loop una canzone di Vienna
Teng, Eric’s song. Per quanto mi riguarda questa fanfiction
è praticamente una songfiction, ma probabilmente sto esagerando
e tutte le influenze le sento solo io nella mia testa. Le parti
asteriscate sono quelle che coscientemente ho ripreso dalla canzone, la
prima in forma di citazione, le altre parafrasando un po’ il
testo. Che tra l’altro mi ha fatto pensare a Sirius e Remus in
una maniera impressionante dalla prima volta che l’ho letto.
Insomma, ascoltate questa canzone mentre leggete, se vi va!
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