Sproloqui
di una folle che ha deciso di cimentarsi in una folle impresa: vi ho fatto
aspettare
praticamente un mese per il secondo capitolo dell'Enciclopedica e caso
ha voluto che anche la Meyer, l'altro ieri, abbia pubblicato la sua
guida al mondo di Twilight -dove ha sparato tante, ma tante
boiate!
Probabilmente d'ora in avanti, essendo le sue coglionate
messe nero su bianco, tutto ciò che ho scritto
sarà un What if...? o un AU, perché si discosta
dalla trama di quella mente bacata. Ma whocares? Sinceramente non io ;)
Aveva lasciato del sano nella sua storia, farò finta che non
abbia scritto niente e passerò oltre -Dante docet.
Dopo 'sto triste trafiletto, passiamo a noi! Marcus, il nostro amato
Marcus. Credo sia il personaggio che ha più consensi dalla
sua parte. Non c'è team che regga, lui è amato.
Io non so sinceramente che sentimento provo verso di lui, diciamo...
affetto, su.
Ambientata nell'antica Roma, tra il 17 a.C. e il 37-40 d.C.
Il titolo riprende le numerose opere latine e in italiano (di
Boccaccio e di Petrarca).
Mentre leggete, ascoltate le rapsodie
ungheresi di Liszt, io non ho potuto scrivere la storia senza
:3
Le spiegazioni saranno fatte alla fine :D
De viro illustre
Marcus l'aveva conosciuto per caso, mentre sedeva in un
angolo in un
caffé letterario; quel ragazzo l'aveva attratto sin dal
primo istante, con i suoi capelli lunghi e trasandati e quegli occhi
sognanti affondati in un massiccio libro.
Ora
stavano in silenzio dentro la macchina del vampiro, ascoltando entrambi
distratti la radio che trasmetteva musica classica.
Il
giovane, dalla pelle scura e dai lineamenti un poco esotici, osservava
intorno a sé, piuttosto stupito, l'interno della macchina.
Non era nuova, lo si notava dalla targa, ma era così
perfettamente linda e pulita al suo interno da farla sembrare tale.
Solitamente ogni macchina ha un odore particolare o un piccolo segno
che la contraddistingue -lo specchietto un po' troppo voltato, un
oggetto ai piedi del sedile- invece questa era innaturalmente intonsa.
Non
parlarono a lungo, ascoltando le note di Lizt. L'espressione di Marcus
non variava neanche di un millimetro, rimanendo talmente imperturbata
che più volte il ragazzo si voltò e
trasalì per lo spavento.
Aveva
accettato l'offerta di fargli da modello perché gli era
parso un uomo affascinante e tale era, solo che in quel primo istante
non era riuscito a cogliere appieno il perché lo fosse. Ora
l'aveva capito: era inquietante a tal punto da risultare attraente.
Arrivarono
a Volterra in poco tempo, più o meno un'ora. Era
già buio e il giovane non si accorse della strada che
percorse; avevano lasciato la macchina all'inizio di una stradina buia
e stretta, si avventurarono e a lui parve piuttosto normale che
quell'uomo abitasse in un posto del genere. Sembrava come se non
potesse esistere altro posto al mondo adatto a lui. Infilando una
chiave lunga nella toppa di una pesante serratura la fece scattare ed
entrò.
Subito
venne investito da un intenso odore di fiori, tanto che per un attimo
credette di essere in una chiesa e istintivamente
indietreggiò. Marcus si voltò un attimo e sorrise
flebilmente, sussurrando: «vieni, seguimi».
Forzando
il suo stesso corpo il ragazzo lo seguì e si iniziarono ad
addentrare in corridoi oscuri, con alle pareti quadri e arazzi in un
caos di estetica e bellezza che lo intimorì; ogni pochi
passi erano presenti mobili pregiati sui quali erano posati vasi colmi
di fiori multicolore.
Non c'era
un'anima e la casa sembrava una reggia, tanto pareva infinita.
Superarono innumerevoli stanze, dalle quali non provenivano rumori di
nessun genere, e le loro porte sembravano serrate da secoli, chiuse.
Immaginò cosa tale uomo potesse chiuderci dentro e non
poté non avere un tremendo sospetto. Era forse un assassino?
Proprio
mentre formulava tali pensieri lui si voltò e nuovamente gli
sorrise in un modo calmo e posato. Tale gesto sembrò
acquietarlo, finché non giunsero davanti a una porta
isolata, che si situava in un angolo dell'abitazione.
La porta
si aprì con un semplice tocco e al suono di un click le luci
nella stanza si accesero, mostrando quattro pareti completamente
ricoperte di figure umane. I dipinti sembravano appartenere a
più epoche, uomini di ogni etnia sembravano racchiusi su
quei muri, ognuno di loro completamente intento in
un'attività. Assorbiti ognuno in se stesso, parevano non
curarsi di chi li guardava. All'eccezione di queste decorazioni, tanto
minuziose e precise, c'erano solo un baule, un tavolaccio e due sedie:
una era uno sgabello al quale era attaccato un liso pezzo di stoffa
color porpora sbiadito, l'altro era una sedia semplice, ma dai
magnifici intarsi di legno.
«Accomodati
pure» disse Marcus, indicandogliela e avvicinandosi al baule.
Lo aprì sempre mantenendo il silenzio nella stanza e ne
estrasse delle piccole polverine. Le posò sul tavolo e
tranquillamente iniziò a impastare i colori.
«Mi
chiamo Tommaso» il ragazzo se ne uscì senza
rendersene conto, spalancando subito gli occhi e guardando stralunato
Marcus. Questi sorrise e annuì, gentilmente: «io
sono Marcus, hai fatto bene a presentarti».
Quel
silenzio l'aveva sopraffatto e non era riuscito a mantenerlo, si morse
un labbro e si lasciò cadere sulla sedia, rivestita di
pelle, che gli parve estremamente morbida.
«Devo
spogliarmi, mettermi in qualche posizione strana?»
domandò curioso, mentre osservava la sua schiena china e lui
intento a pasticciare con quei pigmenti dai colori forti.
«Come
ti senti più a tuo agio» gli rispose sempre di
spalle, spalmando alcuni colori su una tavolozza e avvicinando il
vecchio sgabello a l'unico punto della parete che sembrava abbastanza
vuoto da permettere di dipingere ancora.
Le pareti
erano piene, stracolme, ma quella stanza dava solo l'impressione di
essere un luogo di volti e occhi morti, freddi, che non si curavano di
niente se non del loro piccolo spazio di muro.
Il
ragazzo seguì il suo consiglio e si mise più
comodo tra i braccioli della sedia, iniziando a far vagare lo sguardo
verso l'alto. A loro volta anche gli affreschi sembravano essere
rilassati, nelle più disparate posizioni.
«Allora,
da quanto dipingete?» chiese curioso.
Marcus
voltò un secondo la testa e gli sorrise, mesto, poi rispose:
«da un po', ora, però, ti pregherei di stare
fermo, Tommaso. Cerca qualcosa di interessante da fissare e
fermati».
Imbarazzato,
come sentendosi ripreso da una persona molto più adulta di
lui, si immobilizzò, decidendo che lui stesso sarebbe stato
ciò che avrebbe intrattenuto il suo tempo da bella statuina.
«Come
mai avete iniziato a dipingere?» le labbra si mossero appena.
Marcus
aveva iniziato a tracciare i contorni della figura con un tratto di
carboncino leggero, lo guardò un attimo e poi rispose in un
soffio: «vuoi che ti racconti una storia? Tutti loro l'hanno
ascoltata. Vuoi che la racconti anche a te?» il tono sommesso
gli donava l'impressione di essere come un padre.
Tommaso
lo fissò e poi annuì, curioso: «che
storia è?»
Marcus
tese le labbra in un sorriso sardonico, poi, ritornando con gli occhi
scuri e neri sulla tela iniziò a narrare.
«Sono
nato nel 17 a.C. Da una famiglia del rango equestre, la cui posizione
nel senato le faceva onore da più di un secolo. Ero il
secondo di cinque fratelli e quando nacqui, mi raccontò
Livio, mio fratello maggiore, il cielo notturno si illuminò
come se Apollo fosse passato con il suo carro. Augusto, il buon
principe, aveva regalato al suo popolo i ludi che esso tanto amava, e
come ripeté mia madre per tutta la sua vita: “ero nato sotto l'amorevole
sguardo di Giunone”.
Sono
stato un bambino dall'infanzia felice, sempre pronto a stringermi al
petto di mia madre o di una delle tante balie che ci accudiva. Sono
nato a Roma e là passai la maggior parte, se non tutta la
mia vita mortale».
Il
ragazzo trasalì e si strinse alla poltrona; l'aria della
stanza sembrava essersi raffreddata e nonostante le parole di Marcus
sembrassero una dolce poesia, il loro significato non poteva non
impaurirlo. Era inquietante, se ne era reso conto, e ora capiva anche
il perché.
«È
una storia, vero?» gemette spaventato.
Il
vampiro lo fissò, poi annuì, come per
rassicurarlo: «solo una storia, per favore, non
muoverti».
Spostando
lo sguardo sulla parere riprese il suo racconto.
«Come
ti dicevo, avevamo una casa che distava pochi passi dalla via Sacra e
si ergeva su una piccola collina. Anni dopo potei vedere sorgere poco
lontano da essa l'enorme e imponente figura del Colosso e
dell'anfiteatro Flavio. Ma quando ero giovane lì non c'era
che un pantano. Con i miei fratelli ci avventuravamo di tanto in tanto,
più per curiosità e per passare il tempo. Fino ai
dodici anni tentai con Livio e Flavio -il fratello appena
più piccolo- di entrare nel tempio della Dea Vesta, ma
quando nostro padre lo scoprì decidemmo di evitare altri
possibili tentativi. Sapevamo che se avessimo ripreso non ci saremmo
trovati più gambe con cui correre, tanto ci avrebbe
bastonato. Mio padre, Tito, nonostante rare occasioni in cui superavamo
il limite era un uomo mite e buono, totalmente fedele a mia madre.
Spesso quando ci trovava intenti a giocare in giardino si avvicinava e
ci stringeva la testa tra le sue grandi mani, baciandoci la fronte e
lasciandoci poi andare.
Essendo
noi cinque ed essendo i giorni in cui mio padre andava al foro proprio
cinque, ogni giorno sceglieva uno di noi e ci portava con
sé. Avvolto nella mia piccola toga rossa, trotterellavo al
suo fianco. Alcune volte potei entrare perfino dentro al senato,
osservandone una seduta.
Nonostante
mio padre odiasse l'Iliade, io di nascosto la preferivo all'Odissea,
nella quale il carattere doppiogiochista e incerto di Ulisse mi urtava
e infastidiva.
Coltivai
i miei studi seguito da un istruttore greco dalla pelle olivastra e dal
naso aquilino, del quale ora non ricordo il nome; ma i suoi modi erano
posati e la sua voce chiara, nonostante non riuscisse a pronunciare
molto bene alcune parole in latino.
Al
contrario io avevo tremendi problemi di apprendimento per la lettera
erre e come noterai, li conservo tutt'ora. Nonostante amassi l'ambiente
familiare che mi circondava invidiavo quei fanciulli che venivano
accompagnati dai loro schiavi nelle scuole pubbliche, dove all'aperto e
insieme apprendevano tutto ciò che io, invece, ero costretto
a imparare al chiuso della piccola corte interna della nostra casa.
Tolsi il
sottile cerchio di porpora che mi cingeva la vita sin dall'infanzia a
diciassette anni, mentre mio padre, orgoglioso, mi aiutava a indossare
la mia prima toga. Quando avvertii quel peso in meno intorno ai fianchi
ebbi un sussulto; capii come se all'improvviso tutta la mia vita
dipendesse da me e da me soltanto. Che né gli dèi
né i genitori a me cari avrebbero potuto aiutarmi.
Mentre
lasciavo che mi vestissero sentii la gola bruciarmi, gli occhi
inumidirsi e una tremenda voglia di piangere aggredirmi.
Comunque
capii velocemente che i vantaggi di essere un maggiorenne erano di gran
lunga maggiori degli svantaggi: frequentando la scuola oratoria al foro
iniziai anche a conoscere il mondo esterno, che fino a quel momento mi
era stato precluso.
E mi
piacque. Oh, mio caro, neanche puoi immaginare quanto mi piacque.
Lucrezio
fu la prima persona che conobbi in quell'ambiente e anche la prima che
mi introdusse nel suo mondo dorato. Era figlio di un importante
magistrato, suo padre aveva avuto per lungo tempo l'incarico di
governatore in Lucania e ora lui viveva a Roma da solo.
Frequentava
ogni notte banchetti dalle mille e mille portate, donne dall'aspetto
esotico e dalle abilità piuttosto speciali.
«Vieni,
su, seguimi stasera. Ti divertirai» me lo disse mentre
uscivamo dal foro e io mi incamminavo verso casa.
«Sai
che mio padre detesta quei banchetti. Lui e Catone potrebbero sposarsi,
per quanto sono affini» borbottai, già
immaginandomi l'ira funesta di mio padre.
«Tuo
padre non sta a Roma e poi sei un adulto. Marcus, per l'amor di Giove,
seguimi! Voglio farti conoscere certe donne... ti innamorerai delle
loro cosce!» scoppiò a ridere, mentre prendevamo
la leggera salita che mi conduceva verso casa.
«Non
fare l'idiota. Ci penserò su» tagliai corto,
bussando alla porta e guardandolo male. Lui scoppiò a ridere
e superando una fiumana di persone che si dirigeva verso il foro lo
vidi sparire.
Passai
l'intero pomeriggio cercando di togliermi dalla testa l'idea di quel
banchetto, cercando di concentrarmi sui miei studi; ma tutto fu
impossibile. La mia mente continuava a tornare a quelle immagini che mi
ero creato nella testa e che risultavano così attraenti da
trasportarmi via con loro.
Alla
fine, non appena si fece sera, mi alzai e vestendomi velocemente, uscii
di casa. Lo trovai a pochi passi dall'entrata, con un sorriso beffardo
a solcargli il viso, piuttosto soddisfatto di se stesso.
«Allora
hai ceduto» ridacchiò, avvicinandosi e prendendomi
allegro sottobraccio.
«A
casa non c'era niente da fare» borbottai stranito. Non ero
mai stato un tipo molto loquace, ma da quando conobbi Lucrezio qualcosa
in me cambiò.
Mi
portò a casa di un suo amico, un ricco panettiere, dove le
pareti della sala da pranzo erano ricoperte da scene di banchetti
erotici. L'andazzo della serata l'avrei dovuto intendere dall'enorme
pene di Priapo che ci aveva dato il benvenuto.
Comunque,
non appena varcammo la stretta soglia della casa venimmo investiti dal
fortissimo odore di carne alla brace e da un altrettanto forte profumo
di donna. Infatti il numero di signore presenti superava gran lunga
quello dei signori. Ci avvicinammo e ci accomodammo su un triclinio.
Accanto a me era sdraiata una ragazza orientale -probabilmente
proveniente dall'Egitto- dai lunghi capelli chiusi in una treccia
sfatta, che le ricadeva su un fianco. Stava bevendo vorace da un calice
laccato in oro; il tempo di notare tale particolare che anche a me ne
venne offerto uno simile, pieno fino all'orlo.
Lo bevvi
titubante, tutta quella situazione mi pareva surreale, ma al primo
assaggio.
Il primo
assaggio fu come se Dioniso stesso mi avesse stretto tra le sue braccia
e mi avesse regalato un profondo e lungo bacio. Non era annacquato e le
spezie presenti erano così buone e ben amalgamate che mi
spinsero ad affogarmi in quel calice.
Bevvi
senza freno e in breve mi scordai di Lucrezio e di tutto il resto. La
stanza si restrinse alle singole persone sulle quali cadeva il mio
occhio. E in particolar modo sulle ragazze.
Quella
notte imparai a conoscere non solo le dolci labbra del Dio del vino, ma
anche le morbide gambe della dea dell'amore».
Tommaso
sembrava talmente rapito dalle parole da essersi sporto in avanti.
Marcus lo fissò sorridendo amichevolmente e disse, calmo:
«per favore, ritorna al tuo posto, non vorrei sbagliare le
proporzioni».
Il tono
era pacato, ma così tremendamente severo e deciso che il
ragazzo fece come disse senza neanche pensarci. Fece aderire nuovamente
la schiena alla sedia e fissò il suo sguardo su di lui.
Gli occhi
di Marcus sembravano per metà persi nell'affresco che poco
alla volta stava prendendo vita e per l'altra metà in quella
storia surreale, del quale sembrava un protagonista indiscusso.
«La
mia vita cambiò radicalmente: una volta che assaggiai i
frutti dell'abbandono ai sensi non potei più farne a meno.
Divisi la mia vita in due distinte e nette parti: il giorno -in cui ero
un ottimo e brillante studente, capace di aiutare i propri maestri
nelle cause più difficili, e la notte -durante la quale al
seguito di Lucrezio e i suoi amici cominciammo a frequentare case di
sconosciuti e banchetti completamente privi di freni.
Ormai
avevo conosciuto le donne e scoprii di non poterne farne a meno, il mio
umore migliorò visibilmente e tutti a casa se ne accorsero.
Finché mio padre fu in vita presi tutti gli accorgimenti
necessari per non farmi mai riconoscere, arrivai perfino, seguendo
l'esempio di Ulisse, a darmi nomi fittizi, inventati tanto per prendere
in giro i nuovi conoscenti.
Alla
morte del mio genitore, iniziai ad abbandonarmi totalmente ai piaceri
che la notte e le serate mi procuravano.
Ormai
avevo iniziato a lavorare da solo, poco alla volta la mia fama di
avvocato si iniziò a far sentire. Nonostante ciò
continuai a vivere nella mia vecchia casa e continuai a seguire
Lucrezio -ormai un fannullone a tempo pieno- nelle notti di baldoria.
Raggiunsi
i venticinque anni senza aver avuto neanche l'intenzione di sposarmi e
questa cosa addolorava profondamente mia madre, che aveva
già visto Livio e Flavio sposarsi con due donne di ottima
famiglia e di bellissimo aspetto.
Io amavo
le donne e mi sembrava piuttosto stupido privare a tutte loro il mio
amore, per donarlo solo a una.
Così,
nonostante i suoi pianti di dolore e le sue numerose preghiere a tutte
le dee che riteneva capaci di mettermi la testa apposto, lasciai che
tutto continuasse a scorrere.
Giunto
all'età di trent'anni, ormai ero rimasto l'unico dei cinque
fratelli a non avere una moglie. Mia madre si era trasferita con
Decimo, il più giovane, in Sabina, in una cascina nella
quale lui aveva avviato, insieme al fratello di sua moglie,
un'attività che produceva olio.
Una volta
che nella mia casa fummo solo io e i miei servi, per grande gioia di
Lucrezio, iniziai io stesso a organizzar feste, entrando ancora di
più dentro quel meccanismo di perdizione e di piacere.
Amavo
tutto quel lasciarsi andare ai propri istinti, quell'abbandonarsi ai
profumi del vino per poi affondare il viso in morbidi seni e profumate
carni.
La tavola
era sempre imbandita e le danzatrici sempre in movimento davanti agli
occhi dei miei invitati.
Tutto
sembrava andare per il meglio, finché Livio non
morì.
A
differenza mia lui aveva abbandonato ben presto la carriera di
avvocato, introducendosi, con gli ultimi aiuti di mio padre, nella
politica. In breve era riuscito a diventare governatore di una piccola
regione al nord, in Etruria.
Afflitto
come mai mi era accaduto in tutta la mia vita -la morte di mio padre,
straordinariamente, mi era scivolata addosso come se niente fosse-
decisi che sarei partito subito, sperando di raggiungere in tempo casa
sua.
Non
partii con molto addosso, scelsi perfino una delle carrozze
più spoglie e semplici che trovai. Sapevo che i predoni e i
briganti erano un rischio più che sicuro, così
preferii eludere qualsiasi problema di questo tipo.
Mi misi
in viaggio di giorno e per la fine della giornata, che fortunatamente
non fu piovosa, riuscimmo a raggiungere i confini del Lazio. Decisi di
fermarmi ad alloggiare in una locanda al confine con l'Etruria.
Non mi
sono mai fidato degli Etruschi, li reputavo imbroglioni e ladri, loro e
le loro predizioni da quattro soldi. La loro magia, le loro leggende,
la loro lingua che sembravano non voler condividere con il resto
dell'impero... nonostante ciò mi vidi costretto ad
alloggiare in quell'ostello da poco.
Non avevo
portato con me servi, perché temevo che Lucrezio avrebbe
fatto qualche stupidaggine e avrebbe organizzato qualcosa senza il mio
permesso e mi dissi che più uomini c'erano a casa
più forze potevano contrastarlo.
Mai avrei
immaginato che un servo avrebbe potuto cambiare il corso della mia
storia. Non riuscivo ancora a realizzare che mio fratello fosse
effettivamente morto, forse perché ogni qualvolta ci pensavo
una morsa alla gola mi faceva smettere di respirare. Bevvi avidamente
tutto il vino annacquato che l'oste mi portò e quando una
delle cameriere mi venne vicino, con fare malizioso, non persi
l'occasione e la seguii».
Marcus si
fermò e sorrise tristemente a Tommaso, mentre affondava per
la prima volta il pennello nel colore, tracciando la prima linea di un
rosso fiammante, come la sciarpa che il ragazzo indossava.
«Siete
sposato?» domandò curioso il giovane, cercando di
muovere meno muscoli possibili.
«Oh,
questa è una lunga storia, ma ci
arriverò» sospirò, tristemente
«ora ti prego di fare attenzione a ciò che mi
accadde, non fidarti mai di una donna che decide di donarsi a un uomo
senza neanche conoscerlo» disse teatralmente, pur non
riuscendo a nascondere la tristezza intrinseca alla sua persona.
«E
degli uomini?» mormorò Tommaso.
Marcus si
zittì e rise, sommessamente: «sei molto sagace. Ma
come ti stavo dicendo, a quel tempo non ci pensai la seguii e basta. Il
tempo di affondare il viso nei suoi seni e un colpo violento si
abbatté sulla mia testa.
Mi
svegliai la mattina dopo, colpito da una puzza insopportabile e da un
ondeggiare ritmico. Aprii gli occhi e mi resi conto di trovarmi in un
carro, completamente chiuso da sbarre di ferro mal lavorato. Intorno a
me più di una decina di altre persone, tutte disperate e dai
visi emaciati. I loro lineamenti erano quelli dell'oriente: labbra
gonfie e nasi larghi, occhi di un bianco accecante, se confrontati con
la loro pelle.
Spalancai
gli occhi agitato e mi misi seduto, facendomi spazio tra tutta quella
calca di corpi maleodoranti ed emaciati. Provai a urlare ma vidi che
ero stato imbavagliato e che ai miei polsi erano state messe dei
legacci che mi avevano segato la pelle. Mugugnai qualcosa, cercai
disperatamente con gli occhi qualcuno capace di aiutarmi. Ma la via era
deserta e davanti a noi si poteva vedere solo un enorme carro, dal
quale provenivano profumi deliziosi.
Ero stato
rapito. Per l'amore del pantheon tutto, ero stato rapito. E ora mi
ritrovavo tra una quindicina di schiavi, tutti provenienti dall'Africa,
diretto chissà dove.
Nessuno
di loro parlava latino, lo vedevo dal modo con cui mi ignoravano e non
riuscivano a decifrare i miei mugolii disperati. Frustrato e disperato
iniziai a battere contro le sbarre come potevo, alla fine, la sete, la
fame e la stanchezza mi vinsero e io caddi addormentato.
Non
ricordo quanti giorni passammo in quelle situazioni pietose, ma sulla
strada non incontrammo mai nessuno; superate quelle che mi parvero le
prime Alpi iniziò a piovere e non sembrava esserci rimedio
alla pioggia, nella nostra situazione.
Tutte le
volte che mi toglievano il bavaglio tentavo di urlare e strepitare, ma
dopo le prime bastonate che ricevetti capii che era meglio lasciar
stare. La mia unica salvezza sembrava risiedere nelle dogane di confine.
Ma
così non fu: i funzionari corrotti fecero passare
tranquillamente il carro e l'avermi picchiato a sangue poche ore prima,
fece sì che mi rannicchiassi per il dolore e che la mia
pelle diversa non si notasse.
Durante
quel viaggio folle non pensai agli dèi, smisi di pregarli
dopo poco, ma pensai alla mia famiglia, a mio fratello morto, al fatto
che il suo funerale si sarebbe celebrato senza di me; pensai a Lucrezio
e ai miei servi, pensai al senato e a quegli uomini che mi avevano
affidato le loro vite.
Pensai
alla mia vita, man mano che la vedevo allontanarsi.
Superato
il confine italico i due carri si fermarono. Stavamo proprio
all'interno di un fitto bosco. Ero così stanco che non
riuscivo neanche a sollevare la testa dalla posizione fetale nella
quale mi trovavo, chiusi gli occhi, tremando: i vestiti bagnati erano
gelati e il freddo di quelle zone mi stava penetrando nelle vene.
All'improvviso,
però, iniziai a sentire delle grida. In un primo momento
pensai a dei briganti e che la mia situazione, alla fin fine, poteva
comunque migliorare. Meglio pagare un riscatto che venir venduti come
schiavi ai confini della terra!
Provai a
tirarmi su, ma la gente intorno a me era così agitata che mi
fu impossibile, mi rannicchiai tentanto di non farmi schiacciare.
C'era
frenesia, gli occhi di tutti quegli uomini erano spalancati e
spiritati. Urlavano in quella lingua gutturale che non riuscivo a
comprendere, disperati cercavano di uscire.
Non
capivo e non riuscivo a fare qualcosa per capire; ero così
stanco e sfinito che solo tenere gli occhi aperti era un'impresa.
Senza che
me ne rendessi conto le grida iniziarono ad attutirsi, fino a sparire
completamente, sul mio viso era schizzato qualcosa di caldo e viscoso,
e l'odore intenso mi suggeriva fosse sangue. Pensai che ci avessero
attaccato dei lupi, ma mi chiesi come degli animali potessero aver
distrutto delle sbarre così pesanti e spesse.
Avvertii
dei passi leggeri, quasi impercettibili, che fecero oscillare un poco
il carro.
«Nóg»
sussurrò una voce cristallina e limpida. Non capii cosa
stesse dicendo, ma a fatica mi misi supino, aprendo gli occhi.
Era un
bambino, dagli occhi rossi. Era un bambino completamente rosso. Rosso
era il suo viso, coperto di sangue e rossi erano i suoi capelli,
macchiati di quella ninfa vitale.
Gemetti e
provai a dirgli qualcosa.
«Portami
a casa» mormorai, avevo le labbra secche e screpolate per la
sete.
«Heim» lo
vidi sorridere e sulle sue labbra mi parve aprirsi un'espressione
spaventosa, completamente estranea a quel viso divino, dolce.
Batté una mano sul suo petto e si inginocchiò
accanto a me. Mi sfiorò i lineamenti, soffermandosi sul naso
e sui miei capelli, che usavo portare lunghi.
«Heim mik»
continuò, in quella lingua dura e allo stesso tempo gentile.
Rantolai,
ero esausto, stanco.
Vidi i
suoi capelli biondi coprirmi la vista e le sue labbra gelide sfiorarmi
il collo; intorno a noi era pieno di cadaveri, alcuni ancora vivi
gemevano addolorati.
«Portami
a casa» ripetei frustrato, ma all'improvviso lo sentii
mordermi delicatamente. Istintivamente provai a staccarlo, lanciando un
grido soffocato, ma la sua presa era ferrea e decisa e non ci riuscii.
Disperato cercai di toglierlo da me, ma mi parve impossibile.
In un
attimo mi sentii invadere da un bruciore insopportabile e l'unica cosa
che fui capace di fare fu di urlare e urlare.
Prima di
cadere in un oblio senza luce udii un'ultima volta la sua voce
delicata: «hró».
Angolo autrice:
mamma! Ecco la prima parte
♥ Devo
essere sincera, scrivere
questa storia mi è piaciuto terribilmente e non vedevo l'ora
di proporvela. Questa prima parte è un po' più
lenta, ma la seconda... non so, sarà da Narciso, ma me ne
sono innamorata :3
I
luoghi da me citati sono stati volutamente scelti
e niente è stato
affidato al caso (: La casa di Marcus esiste veramente, ora come ora
è una chiesa (piuttosto famosa), una delle mie preferite.
Volevo lasciarvi una foto fatta da me, ma non ho fatto in tempo a
farvela. (Chiesa
dei lampadari; 1)
È molto usata per i matrimoni, e mi sembrava adattissima per
un romanticone come Marcus -battuta triste XD
I nomi:
per quanti alcuni siano veramente sparati alla Random, altri sono stati
pensati (come per esempio quello di Florian, vedi in basso).
Ho chiamato il migliore amico di Marcus Lucrezio in onore del magnifico
e mio amato poeta latino, nonostante l'accostamento con l'epicuresimo
sia veramente forzato (non è proprio esempio di equilibrio)
il suo attaccamento alle cose terrene e la sua morte precoce mi ha
fatto pensare a lui.
Florian,
perché il nome e perché lui.
Sono sempre stata affascinata dall'idea di un creatore bambino,
è come se al suo interno conservasse il più
grande controsenso esistente. Non si tratta di un ragazzino
né di un pre-adolescente. Lui è proprio un bambino.
E perché un bambino di appena cinque anni è un
vampiro? Ho ipotizzato che prima dei Volturi molto spesso i vampiri non
si rendessero conto di trasformare attraverso il semplice morso, e che
quindi esistessero vere e proprie schiere di disperati trasformati
accidentalmente, uno di questi è Florian. Il nome mi
è stato gentilmente suggerito dalla mia cara Alex,
impietosita dal povero pimpo. Io ho pensato che fosse adattissimo per
un bambino che viveva tra i boschi e che Marcus avrebbe potuto
tranquillamente dargli un nome che ricordava il nome di Flora, la dea
romana.
Il fatto che sia germanico mi ha portato a farlo parlare in questa
lingua, le cui poche parole sono tutte un grazioso e amabile prestito
di wikipedia
e da qui.
-Nóg= abbastanza
-Heim= casa
-mik= me
-hró = sangue
Per crearlo mi sono ispirata alla critica che Kant ha fatto all'idea di
uomo in natura di Rousseau, non è né buono
né cattivo, semplicemente innocente.
Nel 17 a.C. Un certo Giulio Ossequente scrisse che in quest'anno
“una fiaccola
celeste, che discese da sud verso nord con un'immensa luce, rese la
notte simile al giorno”. Più
facilmente interpretabile come una cometa.
Nello stesso anno Augusto organizzò i ludes.
http://www.portalidiroma.net/storia/romani/fanciulli.htm
Il rapimento.
Era frequentissimo che nelle osterie si venisse rapiti, tanto che era
assai difficile che le persone viaggiassero da sole. Ho ipotizzato che,
essendo veramente molto sconvolto per la morte del fratello, Marcus non
abbia pensato a tale pericolo.
Per le case e i personaggi mi sono ispirata a quelle che ho visto a
Pompei e vari studi che ho fatto con la scuola o per conto mio (:
Vi lascio anche la solita linea temporale (: qui.
Ho fatto! Vado a cena e creo la serie ;)
Ho deciso di
farmi un account facebook per chiunque mi volesse aggiungere e fare una
chiacchierata Ulissae
EFPaggiungetemi (:
Se avete un livejournal,
questo è il mio: ulissae
Idem per anobii (ha trovato il giochino, la bimba): Ulissae
anobii
Se invece volete farmi una qualsivoglia domanda, ecco il mio formspring: Ulissae
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