La canzone all’inizio è “Devil” degli Staind.
Dedicata al mio “fratellino”
Adriano, che l’ha letta per primo e mi ha detto tante cose belle. Grazie grazie grazie.
Poteva
essere tutto diverso
She
sits alone again
And tries her best not to pretend
That all she used to live for
Was the love that wasn't there
And
she says, 'I swear I'm not the devil,
Though you think I am.
I swear I'm not the devil
He looks with tired eyes
At all the people hypnotized
And wonders what can save him
From his self created hell.
And he says, 'I swear I'm not the devil,
Though you think I am.
I swear I'm not the devil
Mentre il
sole moriva dietro la solita distesa di acqua salata,
un uomo calpestava silenziosamente i granelli di sabbia. Dopo qualche lento
passo cadenzato, arrivò davanti a lei. Seduta, curva, le ginocchia strette al
petto, sulla spiaggia fredda dell’umidità della sera. Titubante, per una volta
nella vita, le si sedette accanto, ignorando
deliberatamente le motivazioni all’origine di un così spontaneo gesto di... solidarietà.
Persa,
lei. Immobile e persa in quel punto di vuoto che fissava, da
ore, giorni, con un biglietto di sola andata verso i ricordi. E da lì, si sa, se nessuno ti viene a prendere, è difficile
tornare.
Per un
paio di minuti, due buffe ombre oblunghe si tennero compagnia sotto la fioca
luce di quel sole che non scaldava più.
“È brutto quando ti accorgi che non puoi tornare indietro”.
Non era
una domanda retorica, solo una semplice constatazione. È
così, è brutto, punto e basta. Forse non stava neanche parlando con lei.
Una frase buttata lì, tanto perché l’hai tenuta in testa troppo tempo ed era il
momento di farci qualcosa.
Le ci
volle un po’ per realizzare che nelle sue orecchie
qualcosa aveva interrotto per una manciata di secondi il rumore delle onde. Si
voltò incerta verso quell’inaspettata compagnia, e stette a
guardarlo, non per molto, ma sentì il bisogno di verificare che i suoi
occhi gonfi e stanchi non le stessero giocando qualche bizzarro scherzo.
Preso
atto che era lì – che lui era lì – decise di non reagire, a nulla, alla
sua presenza, alle sue parole o alle sue provocazioni,
se avesse avuto il coraggio di farne anche in quel momento.
“Già.”
Si morse
la lingua quando si rese conto di aver davvero
parlato. Un altro dei suoi propositi di breve durata. Boone aveva ragione
quando...
Un
singhiozzo soffocato catturò improvvisamente l’attenzione di
lui. Quando vide la ragazza al suo fianco lottare
contro una nuova ondata di lacrime che insistentemente le premevano agli angoli
degli occhi verdi, senza volerlo si ritrovò a chiedersi se fosse riuscito a
ferire qualcuno anche l’unica volta che aveva tentato di offrire conforto.
Deformazione professionale.
Passando
nervosamente le dita fra i capelli ormai vessati da vento e mare, preferì
allora abbandonare ogni inopportuno spunto di conversazione e lasciar correre
lo sguardo sulla linea dell’orizzonte, senza parlare, facendo del suo meglio
per rendersi invisibile. Per inciso, la sua seconda grande arte,
dopo quella di essere un dannatissimo stronzo.
O di sembrarlo, dipende.
Gli
riuscivano entrambe maledettamente bene.
***
Le prime
timide stelle si stavano appena affacciando nel cielo non ancora del tutto
buio. Presto sarebbe scesa la notte e, con una punta di rammarico che fece
finta di non riconoscere, l’uomo non poté fare a meno
di indossare il solito, consumato, sorrisetto ironico di fronte al totale
fallimento di quell’imbarazzante rottura degli stereotipi che aveva
incoscientemente azzardato sedendosi accanto a lei. A cosa fosse
servito, o quali grandi risultati si aspettasse, non lo sapeva neanche lui. O
meglio, era palese a cosa fosse servito: a confermare,
ancora, il gioco delle maschere che vigeva irremovibile su quell’isola che di
nuove vite e seconde possibilità ne aveva offerte, fino a quel momento, ben
poche.
Spiacenti,
il ruolo dell’eroe è già stato assegnato.
Preso
dalla familiare morsa del rancore e da una crescente sensazione di disagio, si
affrettò ad alzarsi, spolverando distrattamente il pesante tessuto dei jeans prima di stringere gli occhi e adocchiare la sua
tenda nell’oscurità, scoprendola più lontana di quanto ricordasse, visibilmente
distante dai falò che gli altri sopravvissuti avevano acceso, come ogni sera.
“È brutto soprattutto perché ti vengono in mente tutti quei
piccoli particolari che prima erano solo le tue noie quotidiane e
all’improvviso ti sembrano qualcosa di prezioso... solo perché sai che non
torneranno più. E ci sono tante, troppe cose che avresti
dovuto o voluto fare e non hai mai fatto… per qualche motivo che non
sembra più così logico come la prima volta che l’hai pensato. E in tutto questo
non puoi far altro che stare fermo, a subire, a
scontare la pena a cui ti sei condannato, perché ormai quello che è stato è
stato... hai presente?”
Come se
non fosse passata almeno un’ora dall’inizio di quello che non era sembrato
neanche un vero e proprio dialogo, la ragazza aveva ripreso a parlare,
aggiungendo qualcosa alla sua prima e brevissima risposta. Parole serene,
dopotutto, senza l’ombra del pianto a spezzare la voce, che aveva comunque scelto la forma di un flebile sussurro. L’uomo si
concesse un solo istante di esitazione, prendendo
seriamente in considerazione l’idea di proseguire sulla sua strada e lasciarla
lì a combattere da sola con i suoi fantasmi, ma non ci mise molto a ritornare
al suo posto sulla sabbia.
Strano a
dirsi, per una volta il suo posto era accanto a qualcuno.
“Più di
quanto tu creda.”
Si
meravigliò nel notare che non era più tesa e rannicchiata su se stessa come
l’aveva trovata, il suo viso sembrava, se possibile, più rilassato, seppure
impiastricciato dalle troppe lacrime e attraversato saltuariamente da qualche
ciocca di capelli ribelle a cui lei permetteva remissiva di coprirle gli occhi.
Aveva anche disteso le gambe, e ora era lì che giocava con i granelli di sabbia
come una bambina, prendendoli a piccoli pugni e lasciandoseli scivolare sulle
ginocchia, per poi spazzarli via e ricominciare daccapo.
Faceva
tenerezza da far male. Sensazione nuova per entrambi.
Evidentemente
anche un secondo stereotipo era stato spezzato, quell’insolita sera.
Aspettò
di vederlo seduto più o meno come poco prima, poi si
voltò a piantargli addosso due occhi curiosi.
“Anche
tu hai perso qualcuno di importante?”
Stavolta
toccò a lui rifugiare lo sguardo in quel punto di vuoto.
Tutto,
pur di non guardarla negli occhi.
Non si
può rispondere a una domanda così negli occhi di
qualcuno.
Raccolse
un piccolo frammento di conchiglia seminascosto e lo gettò svogliatamente nel
riflusso dell’onda, perdendolo di vista ancora prima che venisse
travolto dalla spuma bianca. Assieme ad esso aveva, di
certo momentaneamente, gettato in mare anche ironia e sarcasmo, perché quando
parlò, fu in tono serio. E sincero. E
triste, anche, ma questo non sarebbe dovuto trasparire.
“Tre persone,
a dir la verità. Non sono poi così tante. I miei, da
piccolo, a otto anni. E
subito dopo...”
Strinse i denti e pregò perché
quella frase morisse lì.
“…subito
dopo ho perso James Ford.”
Un nome
forte pronunciato piano. Talmente piano da mischiarsi col
crepitare del fuoco, qualche metro più in là.
A lei
non importò molto di aver capito bene o meno. Anche dalla poca conoscenza che aveva di quell’uomo, non le
era stato difficile inquadrare il tipo di personaggio. Un po’ simile al suo, in
fondo. E quella vaga scia di fragilità che la sua voce
e i suoi gesti cominciavano a tradire non fece che confermare la sua
impressione. Stava parlando con qualcuno che stava
male quanto lei. Qualcuno che si odiava, quanto lei.
Non come i tanti che giorno dopo giorno le si erano
presentati davanti rifilandole quel paio di parole di supporto che bastavano
per mettersi in pace la coscienza. Lui la coscienza in pace non l’aveva mai
avuta. Lui di parole amichevoli non ne aveva neanche
per sé.
Tanto
valeva conservarlo, allora, quel momento.
“Un tuo
amico?”
La
smorfia di sorriso amaro che seguì le fece temere di aver chiesto troppo.
Fortunatamente, giacché si era ormai in atmosfera di confidenza, lui non si
tirò indietro.
“Solo un
tipo che conoscevo. Uno di quelli destinati a fare la fine
che fanno. Un mezzo suicidio, il suo. Ha... deciso di sparire. Ogni
tanto però mi chiedo come sarebbe oggi, se solo avesse
avuto il fegato di restare.”
La
ragazza si limitò ad abbozzare un piccolo cenno d’assenso, come a dire che più o meno riusciva a immaginare una situazione
come quella che le era stata appena descritta.
Poi per
un po’ non seppe cosa dire.
Ovvio
che non c’era bisogno di confessare chi avesse perso, lei. Ce ne sarebbe
stato, piuttosto, di specificare perché quella perdita pesasse più di quanto
avrebbe dovuto. E, perché no, sarebbe stata persino
sul punto di farlo, se uno strano fruscio non avesse catturato all’improvviso
la sua attenzione.
Solo
allora si accorse, infatti, di quella stropicciatissima busta da lettere che
chissà da quanto l’uomo al suo fianco torceva rabbiosamente fra le mani. Le era
già capitato, spesso per la verità, di vederlo rannicchiato da qualche parte
con quel pezzo di carta davanti, era capace di starsene lì a leggerlo e
rileggerlo per ore, senza mai distogliere lo sguardo se non per fissare la
fiamma di un accendino che a intervalli regolari
avvicinava all’angolo più rovinato del foglio, come per bruciarlo.
Balle,
si vedeva che non l’avrebbe fatto mai.
E infatti un secondo dopo, come da copione, lo ripiegava con
cura e lo faceva scivolare nella sua busta, altrettanto malridotta. Oppure ricominciava a leggerlo, o a guardarci attraverso,
non era ben chiaro se quello che vedesse tra quei quattro lati di carta fossero
solo parole.
A quel
punto lei prese coraggio. Forse troppo.
“Però ti contraddici…”
- un bel
respiro –
“Se sai che il passato non può tornare perché te lo porti
sempre dietro?”
Non
volendo aveva recuperato un po’ del suo tono standard. Quello saccente. Quello
perennemente schifato.
Quello,
insomma, da usare quando doveva nascondersi bene prima di dire qualcosa.
“Troppi
rimorsi, eh?”
Sì, decisamente era quello saccente.
“Curioso
che sia tu a chiedermi una cosa del genere, dato che
fino a due giorni fa manovravi quel disgraziato come un burattino e ora sei
capace solo di fare la vedova disperata. Vogliamo vedere chi ha più rimorsi,
fra me e te?”
Se uno si nascondeva, l’altro non poteva certo restare allo
scoperto.
Così
mentre l’uomo riprese a colpire le piccole creste delle onde con sassi e
conchiglie, lei richiamò le ginocchia al petto e le avvolse con le braccia
sporche di sabbia bagnata.
***
Tutto
quello che il silenzio ebbe come compagnia, non molto tempo dopo, fu un
“Figurati” arrivato dopo uno “Scusa” che però non era stato effettivamente
pronunciato.
Pensato
sì, ma non pronunciato.
Anzi,
per l’esattezza il momento in cui quella parola aveva deciso di saltar fuori
era stato mentre lui si voltava verso la ragazza per
decidere se ci fosse un altro modo per dire scusa.
Quindi,
a conti fatti, quel figurati non era stato poi
così fuori luogo.
Eliminato
questo problema, l’uomo iniziò a porsi quello del rispondere alla domanda che
gli era stata rivolta. La risposta offensiva non contava, chiaro.
Ne
passarono di espressioni ridicole sulla sua faccia
prima che si decidesse a trovare un minimo di senso compiuto a tutto quello che
gli era passato per la testa.
All’improvviso
arrivò uno sbuffo nervoso a collegare quelle espressioni a
una frase a metà.
“È che... non è tanto una questione di rimpianto, o pentimento... è solo che più
ci pensi e più ti rendi conto che sì, il danno è fatto, ma una voce, da qualche
parte, nella tua testa, continua a ripeterti che...”
“…che poteva essere tutto diverso.”
Non le
serviva una lettera accartocciata fra le mani per sapere dove andasse a finire quel pensiero.
Stavolta
le importò, di aver capito bene. Le importò così tanto
da non accorgersi nemmeno di sorridere all’idea di aver incontrato qualcuno a
cui saper finire le frasi.
Il fatto che quel qualcuno fosse un estraneo e un bastardo al momento
non era poi così rilevante.
Sorrise
con più convinzione quando con la coda dell’occhio lo vide annuire.
Ad occhi
chiusi, a testa bassa, lui annuì.
Era
esattamente quello che stava cercando di dire. Esattamente.
Rimuginare
sul passato non serve a niente, come si dice, inutile piangere sul latte
versato. Eppure non riesci a smettere di guardare la
tua faccia e la sua maschera, nello specchio, ogni singola mattina della tua
vita, e pensarlo.
Pensare che poteva essere tutto diverso.
Che avresti potuto essere qualcun altro. Te
stesso, magari.
Divertente che anche lei avesse un’idea di cosa significasse vivere
così.
Chissà,
però, se come lui in quel preciso istante lei si stava chiedendo se tutto sarebbe ancora potuto cambiare. Se tutto
sarebbe ancora potuto essere diverso.
In
meglio, per una volta, per quella sola volta.
Fece
appena in tempo a registrare quel ragionamento che si ritrovò in piedi e con
una gran voglia di portarla via con sé, via da quel punto di vuoto.
“Ogni
cosa accade per una ragione, no?”
La
ragazza lo fissò perplessa e un po’ spaventata da quella mossa improvvisa. Non
riusciva a capire perché avesse voluto interrompere quel momento di singolare
complicità che si era creato tra loro. Non aveva detto niente di sbagliato,
stavolta.
Quando realizzò che le stava porgendo la mano per invitarla a
seguirlo si sentì un po’ meno sola e stranamente pensò di non avere poi molta
voglia di piangere ancora.
Strinse
quella mano con forza e si alzò. Sorridendo, per l’ennesima volta in quella
buffa serata.
“Così
dicono.”
---
Un
grazie specialissimo alla mia Vale e al suo prezioso incoraggiamento! Love you, my dear.