Dedicata
a marpy, per l'ultima splendida recensione che mi ha lasciato,
e che mi ha dato l'ispirazione per farmi scrivere questa shot tutta
d'un fiato. Grazie, perchè mi sento un po' più
libera.
Rubai
E'
l'alba.
S'illumina il mondo
come
l'acqua che lascia cadere sul fondo
le
sue
impurità. E sei tu, all'improvviso
tu,
mio
amore, nel chiarore infinito
di
fronte
a me.
Giorno
d'inverno, senza macchia, trasparente
come
vetro. Addentare la polpa candida e sana
d'un
frutto. Amarti, mia rosa, somiglia
all'aspirare
l'aria in un bosco di pini.
Chi
sa,
forse non ci ameremmo tanto
se
le
nostre anime non si vedessero da lontano
non
saremmo così vicini, chi sa,
se
la
sorte non ci avesse divisi.
E'
così,
mio usignolo, tra te e me
c'è
solo
una differenza di grado:
tu
hai le
ali e non puoi volare
io
ho le
mani e non posso pensare.
Finito,
dirà un giorno madre Natura
finito
di
ridere e di piangere
e
sarà
ancora la vita immensa
che
non
vede non parla non pensa.
(
Nazim Hikmet, Rubai )
È
perché ti guardo e credi che io
ti veda solo da lontano.
È
perché quando ti sfioro credi
che lo faccia soltanto per errore, e quando chiami il mio nome non sai
che per
me in esso si protegge un segreto.
Quando
parlo di te, mi sembra
sempre che le mie parole anneghino in un mare le cui onde trascinino
lontano,
pericolosamente lontano da una riva di terraferma, dalla sabbia che si
può
toccare e percorrere e calpestare, e piuttosto viaggino invece oltre un
oceano
che scivola tra le dita, che sfugge e che ghermisce e che talvolta,
quando la
sua bellezza si sottrae all’attenzione razionale dello
sguardo che la
contempla, è capace di sommergere e sopraffare sino a
togliere il respiro, e far
annegare.
Mi
guardo bene dal lasciarmi
prendere troppo la mano. Mi costringo a tacere e a parlare per metafore
che
sono la sola a comprendere – a trattenere un respiro spezzato
al suono del tuo
nome, ad impedirmi di raccontare il vero motivo per cui luoghi come la
foresta,
il lago nero, la sezione proibita della biblioteca, sono diventati per
me una
sorta di santuario.
Dalla
finestra del mio dormitorio
riesco a scorgere ancora la grande quercia le cui fronde nascondono ai
miei
occhi ciò che la mia mente può ancora vedere. Ci
sono due persone che si
respirano l’un l’altra, le lacrime di una che
l’altro non vede, uno sguardo
cupo che uno vela sotto palpebre stanche che l’altra bacia
tremando di un
timore ineffabile. Ma i boschi giacciono bui oltre le mie memorie.
Tutto torna
distorto, chiaramente illuminato, fastidiosamente iridescente sotto le
luci del
mattino che penetrano dalle ampie vetrate dell’aula. Ho il
terrore che ogni mia
movenza sotto la luce del sole, tu la possa ben vedere e percepire come
un’eco
spaventosamente reale di un sogno distante – di una memoria
perduta nella lontananza
del tempo, fra le pieghe oscure degli anni che ti hanno rubato le
parole e reso
solo sospiri stanchi e sguardi opachi, quasi non potessero vedere nulla
al di
fuori di ciò che stanno realmente cercando. Tu non cerchi me
– eppure mi trovi
e quando lo fai è il mare all’orizzonte che guarda
la spiaggia da lontano, e a
poco a poco con un’onda si avvicina.
Credo
che mi manchi così
fortemente la presenza del mare qui a Hogwarts, che non posso fare a
meno di
trovare un mio oceano dentro di te. Ho creduto inizialmente che si
trattasse di
questo. Ho aspettato, per anni sull’irta scogliera del mio
sentimento, che la
grande onda mi si scagliasse contro e mi inglobasse
nell’abisso. Ma anche
questa era, in qualche modo, paura. Non ho fatto altro che attendere e
contemplare
– attendere e contemplare e cercare di contenere nel mio
sguardo la visione di
qualcosa in cui non avevo il coraggio di tuffarmi. Credendo di
contemplare
l’impetuosità del mare non facevo altro che
guardare lo specchio di una mia
emozione.
Poi
un giorno ho capito.
Ero
lì in piedi, ad aspettare
come sempre che un’onda mi travolgesse. Ho immaginato di
essere nel mio oceano.
C’è un posto, al limitare della foresta, appena
prima che il buio inghiottisca
le fronde. Il vento che danza fra le piante al crepuscolo, in quel
punto si
insinua fra le foglie quasi arpeggiasse una melodia silvana –
ed estraniandosi
dall’espressione visiva percepita dagli occhi, si ha come
l’impressione di
trovarsi in mare aperto. Giuro che quel fruscio emula il suono esatto
delle
onde del mare. È stato allora, che ho capito. Ho capito di essere il mare. Sei tu la spiaggia che
l’onda raggiunge, ghermisce,
fonde con sé; sei il perpetuo paradosso che tace.
Così io ti scrivo il silenzio
– ti guardo ascoltare – e uno sguardo di uno
sguardo si nutre – e il silenzio
il silenzio divora. C’è musica, nella voce che non
vibra, e c’è un fervore nel
respiro che muore. La mia bocca si schiude e lo fa per tacere. Per te
vorrei
essere qualcosa di più di un’onda che giunge per
recarti la frescura di un
abbraccio, evocando il ricordo di un affetto lontano. Non so come
impedirmi di
evocare in te il pensiero di un contatto che hai perduto e i cui
connotati
ritrovi in questo mio continuo andare e venire – nel mio
tentativo di starti
lontana che tu sai essere vano, e nel mio immancabile venir meno per
scivolare
ancora una volta verso di te, riversandoti addosso tutto il mio
sentimento che
tace. Taccio perché non so trovare le parole perfette per
dirti ciò che
disperatamente tento di esprimere. Taccio perché non ci sono
parole che io
possa inventare per farti capire quanto ogni mia sicurezza vacilli
dinanzi al
tuo viso, e ogni mia più profonda parola svapori nella
più impalpabile
evanescenza se solo si sfiora
con le
labbra il tuo nome. Non voglio essere l’onda le cui impronte
sul lungomare
durino solo sino alla prossima carezza del vento. Vorrei essere
l’orma che
l’acqua non può cancellare, né la
sabbia coprire – vorrei essere l’albatro che si
libra sul mare sino a inspirarne lo spirito e fonderlo col proprio.
Vorrei
rubare tutto di te. I tuoi
occhi per restituirteli diversi, con una nuova luce. Le tue labbra per
recare
loro un sorriso. Le tue mani per ridartele solo dopo averle baciate.
Rubai
forse in una notte lontana qualche tuo respiro. Sono respiri che
custodisco
ancora gelosamente dentro di me. Chi sa, forse non ti amerei tanto se
le nostre
anime non si vedessero da lontano; non saremmo così vicini,
chi sa, se la sorte
non ci avesse divisi.
È
così, Severus, tra te e me c’è
solo una differenza di grado: io ho le ali e non posso volare, tu hai
le mani e
non puoi pensare. L’insegnamento che ho tratto da te va oltre
qualunque banco
di scuola, e ti giuro che un giorno troverò le parole
perfette per dirti quanto
sia stato importante, quanto mi abbia cambiato scoprirti un giorno
più debole,
umano e meraviglioso di tutti gli altri.
Allora
sarà ancora la vita
immensa, che non vede, non parla, non pensa.
Hermione
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