It ain't bad, after all

di Leireel
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Documento senza titolo

∙Autore: Leireel.
∙Titolo: It ain’t bad, after all.
∙Fandom: Twilight.
∙Personaggi: Jacob Black, Leah Clearwater, Seth Clearwater.
∙Pairing: Blackwater (Leah/Jacob).
∙Genere: Introspettivo, Romantico.
∙Rating: Verde.
∙Avvertimenti: What if…?
∙NdA: La canzone iniziale è Dog days are over dei Florence and the machine; per il resto nulla, solo che amo quei due insieme alla follia e che Reneesme non è mai esistita. Il Super Bowl cui si fa riferimento nella storia è il XLI del 2007; le due squadre finaliste furono gli Indianapolis Colts e i Chicago Bears, che persero per 29 a 17 dopo un vantaggio iniziale. La fonte, anche di field goal e kickoff, è l'instancabile Wikipedia; gli errori temo siano tutti miei, perché di football non capisco una mazza. Post Eclipse, non tiene conto degli eventi narrati in Breaking Dawn.
La storia si è classificata prima, con mia enorme sorpresa, nel contest multifandom Carta bianca? indetto da Only_ nel forum di Efp, con un punteggio di 59.6/60. Spero che il mio tentativo nel campo delle Jacob/Leah non vi dispiaccia.

 

It ain’t bad, after all

«Happiness hit her like a train on a track
Coming towards her, stuck, still no turning back»

L’estate, giù a La Push, era insopportabilmente umida e afosa. Il vento del Sud portava tracce impalpabili di denti di leone, e nell’aria sembrava gravare un sospiro pesante, come di emozioni represse lasciate lì a galleggiare. Il mare, assordante e insistente, sciabordava irrequieto al di là degli scogli.

Ma Leah aveva quattordici anni ed era felice. Sporgendosi dalla scogliera sentiva la risata delle onde: il riverbero del sole le accecava occhi e cuore, e annegare nel cielo sembrava quasi volare. Stringeva tra le mani una catenella d’argento, nascosta e protetta come una reliquia preziosa; l’amore riempiva tutto il suo mondo.

***

Pioveva, quel pomeriggio. Jacob se lo ricordava bene, perché era estate, e c’era stato un sole accecante per un’intera settimana prima di quel giorno: aveva salutato quelle gocce d’acqua quasi con sollievo. Billy era andato a pesca con Harry e Charlie – decisamente non avevano scelto un buon momento, aveva pensato con un ghigno – e a lui era toccato rimanere a casa con Seth e Leah a morire di noia.

Ricordava di aver giocato per un po’ con Seth a Super Mario, mentre Leah era dispersa chissà dove, incollata a quel telefono come se ne dipendesse la sua esistenza; non se n’era preoccupato più di tanto, perché era Leah, e non è che andassero esattamente d’accordo, quindi non averla in giro poteva essere solo un miglioramento.

«Jake, sei una schiappa,» aveva riso Seth alla sua ennesima sconfitta.

«Era tutta una tattica per farti vincere,» aveva borbottato Jacob con un’espressione condiscendente che non avrebbe convinto un bambino di tre anni. «Sai com’è, non volevo che ci rimanessi troppo male».

«Sì, certo, raccontalo a chi ci crede,» gli aveva risposto l’altro con un ghigno, riappropriandosi del joystick.

Per tutta risposta Jacob aveva sbuffato – quel ragazzino stava diventando davvero impertinente – e si era alzato, stiracchiandosi un po’, per andare a prendere qualcosa da bere.

Era stato in quel momento che l’aveva vista. Era uscita di casa senza neanche mettersi le scarpe: l’acqua colava dai suoi vestiti e le rigava il viso, senza che lei se ne curasse minimamente. Le gocce di pioggia sulla finestra rendevano la sua figura sfocata e confusa, un miraggio al limitare della foresta; Jacob avrebbe creduto di aver immaginato ogni cosa, se non fosse riuscito a sentire le sue urla anche da lì, fermo in cucina davanti al frigo aperto, a guardarla con gli occhi spalancati mentre lei si graffiava il volto con le dita quasi a volersi scorticare. Aveva esitato solo un attimo, poi era corso fuori, sotto la pioggia, e l’aveva acchiappata per un braccio.

«Sei per caso impazzita? Ti prenderai una polmonite!» le aveva praticamente gridato in faccia, preoccupato, per poi trascinarla dentro. Leah si dimenava e scalciava e urlava di non voler rientrare, e Jacob non l’aveva mai vista così sconvolta, mai, neanche quando lui e Seth le avevano rotto il rossetto o quando avevano provato a rubare il suo diario segreto. Sue l’aveva guardata con apprensione prima di avvolgerla in un grande asciugamano: solo tra le braccia della madre lei sembrava di essersi calmata un po’, limitandosi a singhiozzare forte contro le coperte. Jacob aveva distolto lo sguardo, imbarazzato da qualcosa che non riusciva bene a definire: quel dolore era così intenso, così privato, da farlo sentire un intruso, come se la stesse spiando dal buco della serratura. Il respiro di Leah era così pesante e affannato da farla sembrare una naufraga tra le onde che annaspa alla ricerca d’ossigeno; piangeva come sua sorella Rebecca al funerale di sua madre, senza freni, senza misura, come se ogni singolo refolo d’aria che inghiottiva fosse una stilettata al cuore.

Tutta quella disperazione aveva un che di malsano ai suoi occhi, come una pianta che avvizziva lontana dal sole. Guardarla piangere gli trasmetteva uno strano senso di impotenza e rassegnazione, e Jacob sentì il bisogno di allontanarsi da quella stanza, come se il dolore che conteneva fosse troppo perché lui potesse sopportarlo per un secondo in più.

Prima di voltare le spalle e tornare in soggiorno, ricordava di aver pensato che un amore che faceva stare così male – perché era sicuro che fosse quel Sam il motivo per cui si disperava così, non c’era alcun dubbio – un amore che faceva sentire così miseri e svuotati non fosse sano, o normale. E che chiunque, persino Leah, aveva diritto a volere qualcosa di più.

***

Erano passati esattamente due anni, sei mesi e cinque giorni da quando Sam l’aveva lasciata. Leah aveva promesso a se stessa che non avrebbe mai dimenticato neanche uno di quei giorni, neanche il più piccolo istante; di quel pomeriggio di due anni, sei mesi e cinque giorni prima ricordava nitidamente il dolore soffocante, e che fosse dannata se avesse permesso a qualcun altro di farla sentire di nuovo in quel modo – impotente, distrutta, vuota.

La sua vita prima di quel pomeriggio era solo un turbinio confuso. Aveva confinato le memorie piacevoli in un angolo inaccessibile persino ai suoi sogni, e se qualcosa osava fuggire da quella prigionia forzata – Sam che la chiamava Lee-Lee e le baciava le labbra di fronte al mare in tempesta, la dolcezza di una risata nascosta, una catenella d’argento con mille promesse legate ai suoi fili – Leah era veloce a portarla di nuovo indietro, con un tremito delle mani che scambiava per rabbia, e chiudeva il suo cuore più forte di prima.

Quel rancore in cui sprofondava giorno per giorno aveva per lei l’amarezza segreta di vedersi sempre immutata a se stessa, identica a quella ragazza ferita e confusa di due anni sei mesi cinque giorni prima. Persino la natura si era divertita con lei, spogliandola di ogni bellezza come una vecchia bambola rotta. Era destinata a rimanere sempre quella Leah scontrosa e acida che tutti odiavano, e che neanche lei riusciva veramente ad amare.

 

«Fatti un giro, Jake. Non ho voglia di sentire le tue lagne oggi,» aveva accolto Jacob con un grugnito, continuando a sgranocchiare patatine davanti alla tv. Per tutta risposta lui si era fatto spazio sul divano, scuotendole il braccio e seminando briciole dappertutto; poi si era appropriato del telecomando, ignorando le sue proteste.

«E dai, Leah! C’è il Super Bowl oggi,» aveva replicato mettendosi più comodo; lei, per tutta risposta, gli aveva ficcato un gomito nello stomaco. Il suo “Ouch!” era stato soffocato dagli urli dagli spalti per la cerimonia d’inizio.

«Anche tu hai una casa, sai? Attrezzata con televisione e tutto, tra l’altro. Perché non vai là a vederti questa stupida partita e lasci me in pace?» l’aveva attaccato Leah, acida. Jacob non le aveva neanche dato ascolto, mormorandole uno ‘shhh!’ con gli occhi incollati allo schermo.

«Parlo con te, scimmione. E la partita non è neanche iniziata!» aveva sbuffato esasperata.

«Lo show pre-partita è importante quasi quanto la gara,»  le aveva risposto Jacob annuendo seriamente. «E poi, per quanto ti piaccia fare la musona intrattabile e irascibile che ce l’ha col mondo intero, un po’ il Super Bowl piace anche a te.»

«Vedere tanti gorilla azzuffarsi e scannarsi per un pallone non è il mio passatempo preferito, grazie tante,» aveva replicato irritata, ma Jacob non le dava più ascolto, perso a seguire lo spettacolo di Billy Joel. Leah aveva sbuffato di nuovo ed era sprofondata ancora di più nel divano, annoiata. Effettivamente qualcosa in quei due anni era cambiato, si era detta: Jacob era sempre in giro a romperle le scatole, ma dubitava fortemente che quello potesse essere annoverato tra i cambiamenti positivi.

«Mi sto decomponendo dalla noia,» aveva annunciato Leah qualche minuto – secolo – dopo. Jacob si era limitato a darle uno spintone giocoso, che l‘aveva fatta sorridere per un attimo – un attimo solo, ed era tornata a sbuffare e a sgranocchiare quanto più rumorosamente le sue patatine.

«Mangi come una capra,» aveva riso Jacob voltandosi verso di lei.

«Sai, anche a questo problema c’è una soluzione: guardare la partita a casa tua, sul tuo divano, e ingozzarti con le tue patatine,» aveva replicato Leah con sguardo truce.

«C’è Paul a casa mia,» aveva risposto distogliendo lo sguardo, «e non posso guardare il Super Bowl con un tifoso dei Colts. Sarebbe tipo tradire la mia squadra, o qualcosa del genere».

Leah l’aveva osservato di sottecchi. Non serviva di certo un genio per capire i sottintesi di quella frase: i piccioncini erano a casa, e dopo tutto quello che era successo con Bella non rientravano esattamente tra i suoi spettacoli preferiti – diamine, Paul e Rachel assieme non sarebbero stati lo spettacolo preferito di nessuno in possesso delle proprie facoltà mentali, a prescindere da quanto la vita sentimentale del suddetto potesse essere disastrata. In tutta onestà, non poteva dargli torto: già stare nella stessa stanza con Paul era un mezzo suicidio, se ci si aggiungeva Rachel la cosa diventava un abominio.

Non che Leah avesse intenzione di risparmiare Jacob solo perché simpatizzava con le sue ragioni, chiaro.

«L’unica cosa che stai tradendo è il tuo cervello, a tifare i Bears… sono delle schiappe,» aveva affermato placida; quasi a voler sottolineare il fatto che avesse ragione, i Colts avevano scelto quel preciso momento per segnare altri punti, scatenando le lamentele di Jacob.

«Ma certo che porti veramente sfiga, eh,» le aveva borbottato lanciandole un’occhiataccia. «Almeno siamo ancora in vantaggio noi».

«Per ora,» aveva puntualizzato lei con un ghigno, facendolo sbuffare.

«Aspetta e spera,» aveva replicato Jacob facendole la linguaccia. «Tanto lo sai che vinceremo noi».

«Fossi in te non ci conterei più di tanto,» aveva riso Leah lanciandogli delle patatine.

Diversi field goal e kick-off dopo, i lamenti di Jacob si erano fatti progressivamente più disperati; dopo il primo quarto i Bears non erano riusciti a segnare un solo punto, cosa che aveva reso Leah sempre più allegramente fastidiosa man mano che i Colts mandavano a segno i tiri.

E dire che di football non poteva importargliene di meno.

«Sai, potresti anche evitare di infierire,» aveva mugugnato Jacob alla sua ennesima frecciatina sui Bears e la loro presunta incapacità di giocare come si deve. «Ci stiamo rendendo abbastanza ridicoli già da soli».

«Come se davvero pensassi che questo mi fermerebbe dal demolirli,» aveva ghignato Leah in risposta.

«Tentare non costa nulla,» aveva sospirato Jacob sprofondando ancora di più nel divano; nonostante il tono sconfortato, c’era un luccichio divertito nei suoi occhi, e Leah si era ritrovata a sorridere suo malgrado. Non riusciva a spiegarsi bene il perché, ma c’era qualcosa nello sguardo di Jake che la faceva sentire leggera, e ridere era molto più facile con lui attorno; poteva non essere la felicità che aveva evitato tanto a lungo, ma era una bella sensazione, in fondo.

Stare con Jacob a guardare stupide partite, alla fine, non era così male.

«No! No! Nononononononononono- oh, dannazione!» aveva esclamato Jacob all’ennesimo punto segnato dai Colts. La disperazione dipinta sul suo volto l’aveva fatta scoppiare a ridere, e nello sguardo esasperato e frustrato che lui le aveva rivolto aveva scorto una scintilla di divertimento. Gli aveva tirato di nuovo delle patatine, e Jacob l’aveva spintonata, allegro.

In due anni, sei mesi e cinque giorni qualcosa, dopotutto, era cambiato. E non le dispiaceva, non le dispiaceva affatto.





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