Epilogo
20 luglio 1969, Houston
Aprii la porta che mio padre era
ancora in fondo al vialetto. Come al solito, era riuscito ad attirare
l’attenzione di tutti sulla sua entrata in scena.
- Complimenti per il ritardo! –
commentai.
- Oh, buonasera anche a te, Alex.
È bello essere accolti con affetto dal sangue del proprio sangue. – rispose
lui, impassibile, tenendosi il cappello nonostante in quella afosa giornata
texana non ci fosse un alito di vento.
- Se per colpa tua mi perdo qualcosa,
- lo minacciai, - ti tolgo il saluto fino alla pensione! –
- Mia o tua? – mi chiese lui,
pulendosi le scarpe con perizia e infilandosi in casa mia passandomi
direttamente sotto il braccio. – Se la prima, non mi preoccupo più di tanto.
Per la seconda... –
Non riuscii a fare a meno di
ridere, mentre lo accompagnavo in salotto, davanti al televisore dov’era
raccolta tutta la famiglia. I posti migliori erano già tutti occupati: undici
adulti e un nugolo di bambini sembravano capaci di far esplodere la mia
casetta, e molti avevano trovato posto solo per terra, sul tappeto.
Lo zio Al, uno dei pochi
privilegiati, si alzò dal divano per lasciare spazio a papà di fianco alla
mamma, trovandosi così vicino al tavolo del rinfresco; afferrò un bicchiere e
lo porse a suo fratello.
- Rinfrescati la gola e racconta
che è successo. – gli disse.
- Quegli idioti hanno sbagliato a
calcolare la quantità di carburante necessaria. – sbottò lui, scuotendo la
testa. – Io l’avevo detto, ma loro, no!, tirano al risparmio! Li stiamo
mandando sulla Luna, dannazione, non a New York! –
- Per fortuna è andato tutto
bene. – commentò Thomas, togliendosi gli occhiali per pulirli. Era uno di
quelli che stava per terra, ed era buffo vedere quel distinto professore in
giacca e cravatta, più inglese che tedesco nell’aspetto, a gambe incrociate tra
figli e nipoti. Una volta avevo visto una foto del mio nonno paterno, Hohenheim Elric, e Tom era senza
dubbio quello che in famiglia gli somigliava di più. Papà una volta lo aveva
fatto notare, emettendo subito dopo una specie di ringhio che aveva fatto
ridere mio cugino fino alle lacrime.
- Alla fine Armstrong ha deciso
quale sarà la frase storica? Shakespeare? – chiesi, curioso.
- A dire il vero non lo so. –
ammise mio padre. – Credo che lo sentiremo appena scenderà dall’Eagle. –
Mamma ridacchiò, e approfittò del
fatto che fossi a tiro per scompigliarmi affettuosamente i capelli. Non perdeva
mai occasione per farmi notare che erano troppo lunghi.
- Fammi indovinare: - scherzò lo
zio, rivolgendosi a papà. – Sei rimasto fino all’ultimo là per insultarli,
vero? –
- Oh, no. – rispose modestamente
lui. – C’erano persone più qualificate di me per farlo. In realtà mi stavo solo
godendo l’allunaggio dalla postazione migliore, e avresti dovuto farlo anche tu.
–
- Ma io l’ho fatto! – scherzò Al,
voltandosi e passando un braccio intorno alla vita di sua moglie. Zia Clara si
allungò per arrivare a baciarlo sulla guancia, e lui si chinò per renderle il
tragitto più breve.
- Piantatela, voi due! – sbottò
Ed. – Qui ci sono già abbastanza coppie. Abbiate un po’ di rispetto per vostra
figlia. –
La suddetta rispose con una
scrollata di spalle. Erika Elric, la più giovane tra
i miei cugini, aveva diciannove anni e una gran voglia di indipendenza: se suo
fratello somigliava al nonno, lei era straordinariamente simile a mia nonna Trisha, anche se, a detta del padre, non ne condivideva il
carattere dolce e amabile. Anzi, somigliava parecchio allo scontroso zio. Era
nata esattamente un anno dopo che lo zio Al era arrivato in casa nostra, si era
seduto e aveva annunciato, pacato, ma con gli occhi spalancati come se anche
lui stentasse a crederci, che avrebbe sposato Clara Leitner,
la cameriera di Ilse Schneider, più giovane di lui di
tredici anni ma caparbiamente innamorata dalla prima volta in cui l’aveva visto.
I pettegolezzi non avevano intaccato la loro felicità coniugale, perciò alla fine
si erano spenti come la fiamma di una candela. Senza contare che, pochi anni
dopo, l’attenzione si sarebbe spostata sulla secondogenita dello zio, Charlotte.
- Vuoi dei sandwich, zio? –
chiese mia cugina, avvicinandosi con il vassoio. Era davvero bella, con i
riccioli trattenuti da una fascia scura; da ragazzino avevo una terribile cotta
per lei, e ci ero rimasto malissimo quando si era sposata, giovanissima, con un
affascinante giovanotto che le aveva presentato la signora Schneider. Il fatto
che lui fosse un barone sassone la cui famiglia possedeva una fabbrica, un paio
di tenute, un castello e parecchi ettari di parco non aveva fatto altro che
aumentare il mio senso di inadeguatezza.
- Che c’è da ridere, Alex? – mi
chiese, accorgendosi che la guardavo.
- Niente. – risposi. – Stavo solo
pensando che domani potrò vantarmi di aver organizzato una festa in cui una
baronessa passava con le tartine e suo marito serviva il vino. –
- Il suo vino. – sottolineò Fritz. – Che schifezze bevete qui nel Nuovo
Mondo? –
- Quelle di mio padre. – lo zittì
bonariamente Maude, sua cognata, e l’unica nata e
vissuta in America. La moglie di Thomas e il marito di Lotte condividevano –
unici in famiglia – un’ampia conoscenza sulla viticoltura, dovuta ai
possedimenti dei rispettivi padri. E non perdevano occasione per punzecchiarsi
sull’argomento. La piccola Maude non era seconda a
nessuna, in quel campo: merito dei geni, dato che era figlia dell’ex datore di
lavoro di mio padre e zio Al, quel Robert Mustang che li aveva fatti venire
negli Stati Uniti e a me ricordava tanto lo zio Roy che mi regalava le
caramelle e mi lasciava sedere sulle ginocchia, nel mondo in cui ero nato. Il raffronto
tra i due mi fece correre un brivido lungo la schiena: chissà se il generale di
Amestris era ancora vivo. E Alex Armstrong. E gli zii
William e Amelia, e mio cugino Edwin. E Artie, che
quando era di buonumore mi aveva fatto da padre. Ricordando tutte quelle
persone, mi avvicinai alla finestra, e alzai lo sguardo verso la Luna, come se
potessi vedere la navicella che quella sera vi era atterrata.
- Stai pensando ad Amestris? –
Sorrisi alla giovane donna che mi
si affiancò: capelli rossi fiammanti, una profusione di lentiggini, un sorriso
dalle irresistibili fossette. E grandi occhi nocciola, fissi su di me con un
pizzico di apprensione.
- Già. – ammisi. – Stasera mi
sembra di essere più vicino. Però so benissimo che non rivedrò mai più quel
mondo. Anche se non mi ricordo molto, è comunque triste. –
- Lo immagino. –
Diedi le spalle alla finestra per
guardarla. Le presi tra le dita una ciocca di capelli, spostandogliela dietro
l’orecchio.
- Suppongo che la tua situazione
abbia delle somiglianze con la mia. – dissi, sorridendo. – Sei partita dalla
Germania, lasciando la tua famiglia, per seguire negli Stati Uniti un triste
individuo che pensa solo al lavoro. Povera Heidi, che destino crudele! -
- Beh, a dire vero il triste
individuo non pensa solo al lavoro. –
sottolineò maliziosamente, abbassando lo sguardo sul voluminoso ostacolo che ci
teneva a leggera distanza l’uno dall’altra.
Ridacchiai maliziosamente. – Ah,
che giorno felice sarà quello in cui potrò di nuovo dividere il letto solo con
mia moglie! -
- Un giorno distante, se il tuo
erede somiglia al piccolo Eduard e inizia a piangere appena tramonta il sole! –
- Eduard è figlio di Thomas e Maude. Al suo interno ci sono i geni degli Elric e quelli di Roy Mustang in perenne conflitto, mi
stupisco che il povero bambino non sia ancora uscito di senno! –
- Alex! – mi chiamò mio padre. –
Fai sedere quella povera ragazza, non vorrei che rendesse la serata più
emozionante scodellando qui il vostro primogenito! -
Sospirai teatralmente, e offrii
il braccio a mia moglie: - La mia famiglia ci ostacola, amore mio. Ci vediamo
al balcone. –
- Sarei una Giulietta piuttosto
ingombrante! – scherzò lei, tornando alla poltrona che le era stata lasciata
proprio per evitare che dovesse sedersi per terra.
- Scende, scende! – strillò
Caroline, una dei figli del barone. Corsi anch’io sul bracciolo della succitata
poltrona, in tempo per vedere Neil Armstrong, sul piccolo schermo del nostro
televisore, appoggiare cautamente un piede a terra. Ondeggiò, come se ci avesse
ripensato, poi avanzò, senza staccare le mani dal corrimano della scaletta. Mi
resi conto di aver trattenuto il fiato solo quando sentii gli altri espirare di
colpo.
- È fatta! – sussurrò mia madre,
eccitata. Potevo scommettere che aveva avuto quell’espressione anche quando ero
stato io a muovere i primi passi.
- Un piccolo passo per un uomo... ma un grande balzo per l’umanità. –
gracchiò la voce dell’omino sullo schermo.
Applaudimmo tutti quanti, in
maniera abbastanza insensata, ma avevamo bisogno di scaricare la tensione
accumulata: mi sentivo come se fossi io a muovermi sul suolo lunare, con gli
occhi di tutto il mondo puntati addosso.
- Qui ci vuole un brindisi! –
esclamò Thomas, appoggiando una mano a terra per alzarsi. Lo precedetti, facendogli
cenno di non scomodarsi.
- Vado io. – mi offrii. – Un bel
brindisi agli astronauti e, già che ci siamo, agli scienziati che hanno reso
possibile il grande balzo. – lanciai
un’occhiata allusiva a mio padre e mio zio, che ricambiarono ridacchiando come
due bambini colti in fallo.
- Davvero non ti serve aiuto,
Alex? –
- No, Tom, resta pure seduto
comodo sul tappeto! –
- Veramente, cercavo proprio una
scusa per sollevare il mio didietro da questo letto da fachiro! - ribatté
caustico mio cugino, seguendomi nella piccola cucina lì a fianco.
Sollevai le mani, a dire che non
sapevo cosa farci: - L’ha comprato Heidi. Al sesto mese. Non ho potuto oppormi,
dovresti capirmi. -
Annuì con un sorriso complice: me
lo aspettavo, dal marito della figlia minore di Roy Mustang. Gli passai la
bottiglia di champagne che tenevo in serbo per l’occasione, a mo’ di
consolazione.
- Almeno Maude
non gira per casa in kilt, sporran e pugnale infilato nel calzino, come fa suo padre. –
mi fece notare, comprendendo il mio gesto. – Al massimo impreca in gaelico, il
che non è male, visto che ancora non lo parlo abbastanza bene da capirlo. –
- Direi di prendere anche del
succo di frutta per i bambini... Aspetta: pugnale nel calzino? – mi ricordai
all’improvviso.
- Mio suocero me l’ha mostrato il
giorno che gli ho chiesto il permesso di sposare Maude.
- spiegò lui, con un brivido teatrale.
Scacciai dalla mente l’immagine
del colonnello in congedo che sollevava un polpaccio nudo, abbassava la calza e
mostrava la lama lì nascosta. Io sarei fuggito.
- Va tutto bene? – mio padre si
affacciava dalla porta, con aria neutra.
- Sì, ci stavamo solo scambiando
ricordi sui rispettivi suoceri. – replicai, recuperando per sicurezza anche un
paio di bicchieri dalla credenza, visto che i bambini avevano già minacciato di
spaccarne un paio.
Papà commentò la mia affermazione
con un verso nasale, a metà tra un grugnito e uno sbuffo. Probabilmente voleva
solo sottolineare il suo fermo dissenso al proposito del padre di Heidi di spaccarmi
la testa se avessi fatto soffrire la sua principessa.
- Ti sei mai pentito? – mi chiese
all’improvviso.
- Di aver sposato Heidi? –
sbottai, allarmato. Avevo dato quell’impressione?
- Credo che Ed abbia cambiato
bruscamente argomento. – mi fece notare mio cugino, con un sorriso allusivo.
Impiegai un attimo a capire di
cosa stessimo parlando – tempo che Tom sfruttò per squagliarsela nell’altra
stanza e lasciarci soli. Quando ci arrivai, sollevai le sopracciglia di scatto,
stupito di come i pensieri miei e di mio padre si fossero mossi nella stessa
direzione in momenti molto vicini.
- Parli di Amestris.
Se mi è mai venuta voglia di tornarci. – dissi.
Annuì, lanciando un’occhiata alla
testa di mamma che spuntava da sopra il divano.
- Eri un bambino, ma ti
ricorderai qualcosa. Ti mancano le persone che conoscevi? –
Mi appoggiai al ripiano di marmo
vicino al lavello. – Un po’. Mi mancano i miei zii, soprattutto, e il generale
Mustang e il signor Armstrong. A volte mi capita di sognarli, ci crederesti? –
domandai, sorridendo.
- Sì. – ammise lui. – Tuo zio mi
ha raccontato che, nei due anni in cui eravamo separati, anche lui mi sognava
qualche volta. Sogni incredibilmente simili a quel che mi capitava davvero in
quel momento. –
- Aspetta un attimo: Edward Elric, lo scienziato, sta ammettendo la possibilità di
qualcosa di così antiscientifico come i sogni premonitori? – alzai le mani a
proteggermi la testa. – Il mondo sta per implodere! Si salvi chi può! –
Incrociò le braccia al petto e
attese pazientemente che la smettessi. – Posso parlare? – chiese poi. Glielo
concessi con un cenno. – Bene. Voglio solo aggiungere che, visto che nessuno sa
come funzioni il Portale, non mi sento di avanzare ipotesi in nessun senso. –
- Un ottima risposta da chimico.
– abbassai lo sguardo sul bicchiere che tenevo ancora in mano, notando una
lieve imperfezione nel vetro, che aveva formato una bollicina. - Vedendo quasi
tutti i giorni il Roy Mustang di questo mondo, non posso fare a meno di
chiedermi come stia quello che ho conosciuto ad Amestris.
E a volte mi manca persino Artie... l’Artie Buono, intendo. – aggiunsi in fretta, sarcastico.
- L’Artie
Buono? – papà fece una smorfia che valeva più di mille parole. – Non credevo
esistesse un individuo simile: o almeno, io non l’ho incontrato. -
- Nella mia mente c’erano due
Arthur Stonebridge: - gli spiegai. - lo Zio Artie che mi faceva regali e mi guardava disegnare, e il
Cattivo Artie che diceva cattiverie su di me come se
non fossi presente o non potessi capire, e mi faceva piangere perché non ero un
Bravo Bambino. –
- Non eri un Bravo Bambino? –
fece mio padre, calcando sulle parole per imitare il modo in cui le avevo
pronunciate io. – Tu? –
- Beh, non nel senso che avrebbe
dato Arthur al termine, non ti pare? – ribattei.
- In quel caso, nessuno di noi lo
era. –
- No. – distolsi lo sguardo. – Ma
quando avevo cinque anni avrei voluto esserlo. Sarebbe stato tutto molto più
facile; anche dopo che siamo arrivati qui. – aggiunsi lentamente.
- Forse. – dovette ammettere
papà. – In fondo, sei stato tu a far dubitare Winry
della sua scelta, quando gli altri bambini ti prendevano in giro. Stava davvero
per prenderti e riportarti ad Amestris. –
- Ah, quella volta? – dissi, con
finta noncuranza. – Credevo ti riferissi a quando il mio aeromodello ha rotto
il vetro ed è planato sul tavolo apparecchiato. –
- In entrambi i casi ho sudato
freddo. – replicò lui, serissimo. Sapevo che mentalmente aveva aggiunto la
volta in cui il mio aeromodello mi era praticamente esploso in mano e avevo
rischiato di perdere un occhio. Avevo dodici anni, e mio padre mi disse che ero
stupido quanto il defunto signor Steinglocke, che
morì colpito dalla latta a cui aveva messo un motore. Doveva essere davvero
fuori di sé dal terrore per insultarmi.
- Però in tutti i casi la mamma
ci ha ripensato. E a me fa piacere così. – ridacchiai. – E poi, ogni tanto mi
capita di incontrare qualche faccia conosciuta: se gli alter ego continuano a
capitarmi davanti, immagino che anche le persone che ho conosciuto ad Amestris stiano bene e siano felici. Io lo sono. –
aggiunsi, a suo beneficio.
- Per Heidi? –
- Per Heidi, ma non solo. – piegai
la testa, per guardare mia madre nel salotto, impegnata a dispensare chissà
quali consigli a mia moglie. - Mi piace il mio lavoro al laboratorio del signor
Mustang; mi piace costruire aeromodelli; mi piacciono le serate con Lotte e Tom
e le loro famiglie; adoro persino il Natale, nonostante tutti i tuoi pregiudizi
sulle feste religiose e sulle religioni in generale! -
- Piccole cose. Una vita che
avresti potuto avere anche ad Amestris, Natale a
parte. –
- Non tutte. – replicai,
passandogli la bottiglia di succo di frutta perché si rendesse utile. – Forse
non avrei mai conosciuto mia moglie; di certo, non avrei avuto te. – guardai di
nuovo nell’altra stanza. – La mamma
non avrebbe avuto te. – aggiunsi.
Arrossì, come capitava tutte le
volte che io o mia madre gli facevamo un complimento particolarmente
lusinghiero.
- Se ne sarebbe fatta una
ragione. – borbottò.
- Forse sì, ma non sarebbe stata
felice come in questi anni. –
- Neppure io, senza di voi. –
Voltai la testa verso di lui, e
lui sostenne il mio sguardo. Mio padre è la persona più orgogliosa che io
conosca, ma ogni tanto riesce ad esprimere ciò che prova con una facilità
disarmante. Sentii a mia volta le guance riscaldarsi, e sorrisi timidamente. Lui
mi passò accanto, per fingere di cercare in un cassetto l’apribottiglie.
- È molto egoista, da parte mia,
- continuò dopo una breve pausa in cui aveva fatto più rumore di quanto fosse
necessario, – ma sono dannatamente contento che Winry
mi abbia messo all’angolo, ventiquattro anni fa. –
- A dire il vero anch’io. –
concordai.
- Nonostante tutti gli stenti del
dopoguerra? E le discriminazioni perché siamo tedeschi? – stirò le labbra,
mentre pronunciava la parola tedeschi.
Ovviamente, non lo eravamo affatto, ma arrivavamo dalla Germania, perciò in
America ci avevano sempre chiamati i
tedeschi, spesso pronunciando l’aggettivo come se fosse un insulto – e per
molti, quando arrivammo, a pochi anni dalla fine della guerra, lo era davvero.
All’inizio mi faceva imbestialire il non poter dire che non lo ero affatto, e
dover sopportare offese che neppure meritavo. Crescendo, ci ho fatto il callo:
come mio padre e mio zio, ho iniziato a rispondere con la semplice frase Sì, sono tedesco. Non nazista.,
accompagnata da un sorriso cordiale. In fondo, la Germania è la mia patria
d’adozione, in questo mondo, e le devo almeno un po’ di lealtà per questo.
- Ad Amestris
stava iniziando una nuova guerra, ricordi? E chissà quante altre ce ne sono
state nel frattempo: la mia vita non sarebbe stata facile neppure lì. Senza
contare che, con un esempio come te in famiglia, non mi sarei mai arruolato,
perciò avrei gli stessi problemi che ho qui. –
- Già, ma... ehi, che problemi? – scattò subito.
- Tranquillo, - sospirai, avviandomi
verso il mio salotto invaso, - non ho detto ad alta voce quel che penso della faccenda del Vietnam. Resta il fatto
che, dato che non ho la cittadinanza americana e dunque non partirò mai,
qualcuno fa commenti sgradevoli sul mio didietro al caldo mentre i bravi
ragazzi americani vanno a morire per portare la democrazia dall’altra parte del
mondo. –
- Non sono mai stato tanto felice
che tu non sia americano. – commentò mio padre.
Lo zio Al, scattato sulle lunghe
gambe per recuperare il vassoio che tenevo in mano, arrivò in tempo per udire
l’ultima frase di suo fratello, e scoppiò in una risata sonora, che sembrò
riempire la stanza almeno quanto l’alta figura che l’aveva generata: - Discorsi
patriottici in casa Elric? Oggi è davvero una data
storica! – esclamò.
- No, - lo contraddisse pacato
papà, - stavo facendo ad Alex un discorsetto tra padre e figlio, quando ti ho
visto e mi sono venuti dei dubbi sulla sua paternità. –
Mio zio mi passò allegramente un
braccio intorno alle spalle, e finse di guardarmi per bene; in realtà, quella
della dubbia paternità era una vecchia battuta a casa nostra, nata quando
cominciai a crescere... o meglio, ad allungarmi
in maniera incontrollabile: nel giro di un anno superai entrambi i miei
genitori, e in due e mezzo mi attestai sulla statura di mio zio. A quindici
anni, oltre alla voce che cambiava e a peli che crescevano dovunque, il fatto
di sfiorare con la testa i lampadari contribuì a farmi sentire un estraneo nel
corpo di qualcun altro. E mio padre non mi aiutò, con quella stupida storiella del
padre biologico.
- Pa’ vorrei farti notare che tu
stesso, fisicamente, somigli più a mio cugino che a me, quindi sei davvero un basso pulpito... ops! – aggiunsi. L’intero
uditorio cominciò a ridacchiare, peggiorando l’umore di papà; alzò le mani,
stizzito.
– Questa te l’ha insegnata tua madre, vero? – domandò.
– Veramente corrisponde di più al
tuo senso dell’umorismo. – ribatté piccata la mamma. – La frecciata velenosa è
decisamente nel tuo stile, e Alex ha imparato alla perfezione l’arte. –
- Ovviamente, l’ho istruito a
dovere in proposito, con pugno di ferro! –
- Okay, genitore moderno. – tagliai
corto, sedendomi sul bracciolo della poltrona di Heidi. – Ora però stai giù,
che non ho intenzione di perdermi tutta la diretta. –
Condii il mio ordine con uno
sguardo ammonitore che stavo perfezionando per utilizzarla poi sul mio erede, ma
che non avrebbe mai funzionato se mamma non fosse intervenuta, appoggiando una
mano sulla spalla di suo marito per farlo sedere di fianco a sé e aggiungendo
un’occhiata solidale rivolta a me. Alzai gli occhi al cielo e lei rise, cosa
che incuriosì papà, il quale comunque immaginò cosa stesse succedendo e non
fece domande per evitare altre stoccate. Quei due, lasciati da soli, riuscivano
a battibeccare all’infinito: in effetti, lo facevano dacché li vedevo insieme,
e continuavano a divertirsi un mondo.
Ecco fatto. Sono tornata a casa., aveva detto la mamma il giorno in
cui eravamo arrivati da questa parte del Portale. Tutto sembrava volerla
contraddire, iniziando da quella stanzetta di un appartamento in affitto a
Monaco di Baviera, povero, malconcio e sottosopra per via di una precedente perquisizione.
E il mondo all’esterno non era affatto messo meglio.
Eppure aveva tenuto duro, e
l’aveva spuntata. Aveva sistemato quella stanza, e sconvolto la vita dell’uomo
che vi abitava. Aveva dato una mano nella ricostruzione, offrendo la sua
esperienza di medico nonostante la diffidenza delle persone che ci vivevano. Mi
aveva cresciuto senza farmi sentire l’alieno di un’altro mondo che
effettivamente ero. Edward Elric, d’altro canto, si
era calato nel suo ruolo inaspettato di marito e padre con determinazione ed
entusiasmo, e come tutte le cose in cui metteva determinazione ed entusiasmo
era riuscito a spuntarla. Mio padre è un uomo dannatamente testardo.
- Stai sorridendo. A che pensi? –
mi domandò Heidi.
Sospirai, osservando il salotto
devastato dalla mia enorme, rumorosa e assurda famiglia.
- Che siamo felici. – risposi.
(Ultimo) pensierino della buonanotte: eccoci arrivati.
Finito! Cioè, nella mia testa c’è materiale per una fanfic
più o meno eterna – praticamente un ricongiungimento con l’OAV Kids, per
intenderci, tra i primi a darmi l’idea della ff – ma ho
il sospetto che non freghi niente a nessuno.
Un ultimo ringraziamento a tutti
coloro che hanno letto, più uno a chi ha recensito. *si
inchina* Se siete riusciti a sopportare gli aggiornamenti
trimestrali fino ad arrivare a leggere queste ultime righe vi meritate tutta la
mia gratitudine e un saluto da Alex...saluta, Alex!
*Alex
agita la manina*
Bravo bambino!
Leuconoee: no, povera, non direi che è colpa di Winry... a
meno che la scoperta della paternità di Alex non fosse così orribile e scontata
da spingere i lettori a smettere di recensire per correre a farsi curare le
carie, ma anche in quel caso la colpa non sarebbe stata di Winry.
Bensì di Alex. Ho sempre avuto l’idea che l’ultimo capitolo sarebbe stato
allegro: insomma, alla fine segna l’inizio di una vita condivisa tra Ed e Winry, praticamente il coronamento di quarant’anni di
inseguimenti, tira e molla, addii e ricomparse... c’è davvero di che essere
felici! E poi c’è Mustang in kilt. E io adoro
Mustang in kilt, se non fosse un semplice alter ego e un personaggio più che
secondario ci scriverei uno spin-off sopra!
Grazie per i complimenti e la fedeltà, cercherò di farmi regalare da Roy
uno sporran
a forma di tasso per te.
Liris:
ho capito, Winry viene accusata di ogni cosa. Ci
tengo a far sapere che il buco nell’ozono non è opera sua, non è stato creato
dalla lacca che ha usato per tenere su il cappellino. E abbiamo la seconda fan
del Mustang’s kilt, prima o poi ne farò un banner e
lo metterò su Facebook... anzi, meglio, sulla mia
pagina personale di EFP, se no a che serve...
Siyah:
non so se c’entrano gli aggiornamenti distanziati (del resto, è sempre stato così,
anche quando avevo undici recensioni), secondo me è semplicemente perché Fullmetal Alchemist non
viene più trasmesso da Mtv... e visto che sei l’unica
che mi ha trattato bene Winry, come premio hai vinto
un salutino da parte di Mustang in kilt: saluti, Mr. Mustang!
*Robert Mustang agita la manina. Il tasso concorda*