The pathetic fool_1
Titolo: The
pathetic fool
[ Through the flames ]
Autore: My Pride
Tema scelto: Proposta numero 1
Tipologia: One-shot
Genere: Generale, Malinconico, Slice of life, Vagamente
Introspettivo
Avvertimenti: Mangaverse, prima ancora
dell’inizio della
serie, Probabili
Spoiler del Character Guide Book e del Perfect Book Guide, Probabile
Missing
Moment inesistente
Personaggi Principali: Hawkeye Sensei [Berthold
Hawkeye?], Roy Mustang, Riza Hawkeye
Pairing: Accenni Royai molto velati e forse ad
interpretazione
strettamente personale
Rating: Verde / Giallo
Nota: Questa storia può vagamente
collegarsi a quelle raccolte nella serie Tra
i bagliori
del fuoco
Introduzione: Ed
era stato proprio per paura che ciò potesse
accadere che aveva fatto qualcosa di imperdonabile alla sua bambina.
L’aveva
condannata a vivere con il peso di quella terribile alchimia sulle
spalle,
marchiandone i segreti sulla sua schiena.
Dunque perché, meno di un
anno dopo, aveva deciso di prendere con sé un ragazzino come
allievo?
Prompt: 15°
Argomento: Difetti › Insensibilità
/ 17°
Argomento: Errori › Rimpianto
The angst time: 08.
Illusione
30 modi di amare,
più qualche delizia: Pacchetto embrace
› Abbraccio impacciato
Di peccati e di virtù:
Carità
› La mente non è un vaso da riempire, ma
un fuoco da accendere. (Plutarco)
FULLMETAL
ALCHEMIST ©
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THE PATHETIC
FOOL [ THROUGH THE FLAMES ]
Ciò che definisco
felicità coincide forse con quanto la gente chiama pericolo.
- Sole e Acciaio,
Yukio Mishima -
La
gioia che aveva provato nel veder realizzata la sua più
grande opera era stata
incommensurabile.
Aveva passato anni e anni su
quelle ricerche, sin dalla sua giovinezza, trascurando in seguito la
donna che
aveva sposato e che gli aveva dato una figlia, forse non piangendone
nemmeno in
seguito la scomparsa. Era stato insensibile e si era solo concentrato
su quella che ormai era
divenuta
una sua ossessione, come se nella sua vita l’alchimia venisse
al di sopra di
ogni altra cosa, e probabilmente era stato realmente così.
Sebbene avesse dato
alla giovane figlia una buona educazione, non si era mai comportato
come
un padre nei suoi confronti. Anima e corpo, giorno dopo giorno, aveva
semplicemente portato a
termine quell’opera che aveva cominciato anni addietro.
Lui
stesso aveva
definito la sua alchimia, il progetto a cui tanto devotamente aveva
lavorato,
la più geniale e intricata di tutte. Utilizzata nel modo
giusto avrebbe potuto
aiutare le persone ma, se fosse caduta nelle mani sbagliate, il potere
derivante da tale alchimia avrebbe potuto diventare una vera e propria
arma
mortale. Ed era stato proprio per paura che ciò potesse
accadere che aveva
fatto qualcosa di imperdonabile alla sua bambina: l’aveva
condannata a vivere
con il peso di quella terribile alchimia sulle spalle, marchiandone i
segreti
sulla sua schiena.
Dunque perché, meno di un anno
dopo, aveva deciso di prendere con sé un ragazzino come
allievo? Probabilmente
perché aveva realmente creduto nelle capacità in
cui eccedeva quel moccioso di
nome Roy Mustang, sebbene fino a quel momento gli fosse sembrato
soltanto un giovanotto
come tanti altri. Forse si sbagliava, non lo sapeva, ma avrebbe fatto
in modo
che, almeno fino a quando quel ragazzo non avrebbe raggiunto la
maggiore età,
restasse all’oscuro di quelle sue spaventose ricerche.
Non appena era giunto in casa, gli
aveva mostrato lo studio in cui avrebbe dovuto partire la sua
formazione come
alchimista, cominciando unicamente dalle basi nonostante la
disapprovazione di
quel marmocchio. Aveva al tempo stesso raccomandato a sua figlia, la
piccola
Riza, di non avvicinarsi a quel luogo, proibendole categoricamente di
disturbare gli studi di Roy con la sua presenza. Ma i bambini erano
bambini, e si
era ben presto accorto che, disubbidendo a quel suo non poi tanto
velato
ordine, Riza aveva cominciato a gironzolare un po’ troppo
spesso da quelle
parti. Aveva, però, deciso di chiudere
un occhio almeno per
il momento,
giacché
era soltanto una bambina curiosa a caccia di novità. E quel
ragazzetto un po’
imbranato dal finto atteggiamento adulto era una novità
bella e buona. Con la
sua presenza, era riuscito a riportare un po’ di buon umore
sul viso di sua
figlia, checché ricordava di non averla più vista
sorridere in quel modo da
quando, dopo la morte della madre, gli era stata affidata. Fosse stato
per lui,
molto probabilmente, avrebbe dato la bambina a qualcuno che sarebbe
stato
capace di accudirla e di darle tutto l’affetto che meritava;
lui, però, di parenti
non ne aveva più da un pezzo e, per quanto ne sapeva, dopo
il matrimonio sua
moglie si era discostata da ogni legame famigliare. Doveva
ammetterlo: col
passar del tempo, seppur in un modo tutto suo, aveva cominciato a voler
bene a
quella bambina. Ancor non si spiegava, però, cosa
l’avesse spinto a marchiare
su di lei il segreto che ancora le doleva sulla schiena.
Quel ragazzo di nome Roy era stato per
Riza come una medicina, un ottimo diversivo per farle
dimenticare
almeno in parte ciò che lui, suo padre, le aveva fatto. E
tuttora pensava a
quelle cose, dimentico della dimostrazione che stava avendo luogo nello
studio
in cui si trovava. Non c’era più il tavolo di
legno intarsiato, i fogli e gli
appunti macchiati di china sparsi in ogni dove e le pergamene e i tomi
che adombravano
pavimenti e librerie, nay, non c’era più neanche
la piccola statuetta di bronzo
raffigurante il drago a due code dello stato di Amestris, né
tanto meno quel
moretto che lo guardava come a chiedergli se la trasmutazione fosse
riuscita o
meno. C’erano soltanto i suoi pensieri, le sue ansie, i suoi
dubbi e le sue
paure. Cos’era ciò che temeva? Per la prima volta,
forse, era stato realmente
preoccupato per la sorte di sua figlia, costretta a vivere con il
timore che
qualcuno, un giorno, potesse decifrare i segreti impressi sulla sua
schiena ed
entrare così in possesso di quel potere tanto benefico
quanto spaventoso e
devastante?
«Maestro Hawkeye?»
La voce del suo
allievo fu capace di richiamarlo alla realtà, e fu
sbattendo le palpebre
che abbassò lo sguardo per incontrare quegl’occhi
scuri dal taglio a mandorla. Più unici che rari, in quelle
zone di Amestris, ma fin
troppo comuni nella
lontana Xing.
L’uomo scosse il capo e
stornò lo sguardo sulla statuetta, allungando una mano per
afferrarla e
poterla
così osservare da tutte le angolazioni sotto
l’occhio vigile e attento del
ragazzo. Sembrava quasi fremere dal conoscere la sua valutazione, ma le
parole
che uscirono dalle sue labbra non furono di certo quelle che il giovane
si era
aspettato, ne era più che certo. «Per oggi la
lezione termina qui», asserì, abbandonando quel
pezzo di bronzo al centro del tavolo e
lasciando il
moro interdetto.
«Perché,
Maestro?» gli
domandò Roy
in tono apprensivo, e forse, a parer suo, anche lievemente
indispettito.
Stupido ragazzino impertinente con manie di grandezza.
«Hai ancora molta strada da
fare»,
lo richiamò all’ordine, raccogliendo qualche
pergamena e scostando i vasetti di
china per far spazio, così da poggiare un libro dinanzi al
ragazzo
dopo averlo aperto. «Leggi con attenzione le nozioni in
questo paragrafo»,
soggiunse. «Carpiscine la teoria e scrivine un trattato.
Dev’essere pronto per
domattina».
Roy aggrottò la fronte e
abbassò
lo sguardo sulle pagine del tomo, cominciando a leggere ad alta voce
come se
non si capacitasse di ciò che vi era scritto.
«“I
Saggi ti diranno la verità su
due pesci nel nostro oceano, senza carne né ossa. Lasciate
che cuociano nella
loro stessa acqua, e allora anch’essi diventeranno un vasto
oceano”». Sollevò
un sopracciglio, guardando di sfuggita l’uomo prima di
continuare. «“I
due
pesci sono in realtà uno solo, non due; sono due, e tuttavia
sono uno solo:
Corpo, Spirito ed Anima. Adesso ti dirò la
verità: se li unirai, essi
diventeranno un immenso oceano [1]”».
A fine lettura, il volto di Roy
divenne una maschera indecifrabile di emozioni, su cui sembravano
lottare incredulità e curiosità.
«Cosa
significa, Maestro?»
«Se hai bisogno di chiederlo,
vuol
dire che dell’alchimia non hai capito nulla», lo
redarguì immediatamente lui,
frenando qualsiasi protesta con un gesto secco della mano. Gli diede le
spalle
e si allontanò in direzione della soglia, sentendo giusto
qualche borbottio
soffocato poco prima di richiudere la porta dietro di sé.
Nel corridoio che portava alla sua
stanza, incrociò sua figlia, diretta molto probabilmente
nello studio. «Non
stasera, Riza», la bloccò tempestivamente,
vedendola irrigidirsi. Gli
occhi marroni di lei lo guardarono smarriti, come se essere stata
beccata in
flagrante dal padre l’avesse spaventata.
La bambina adocchiò la porta,
abbassando infine il capo con
fare
mortificato. «D’accordo,
papà», pigolò, stropicciandosi
l’orlo della
veste che indossava e, dopo essersi passata una mano fra i corti
capelli
biondi, forse in un vago gesto di nervosismo, ritornò sui
suoi passi,
scalpicciando pesantemente sulle assi di legno del pavimento.
Lui la guardò andare via e
raggiunse la
camera da letto, dove si rinchiuse al suo interno insieme ai propri
pensieri.
Qualcosa gli
dava la certezza che, non appena fosse stata sicura di avere via
libera, sua
figlia avrebbe disubbidito ancora una volta. Era sempre più
convinto che i grossolani
errori di Roy fossero da imputare a lei, non c’erano dubbi.
Sebbene il ragazzo
fosse ormai pronto ad entrare a far parte del mondo degli adulti,
sembrava non
dispiacergli affatto l’interesse che Riza dimostrava nei suoi
confronti,
nonostante fosse poco più di una bambina. Tra
chiacchiere fantasiose e sorrisi, più volte li aveva
sorpresi ad
interrompere gli studi per passare del tempo assieme in quella stanza
colma di tomi polverosi. Li
aveva trovati anche addormentati l'uno abbracciato all'altro, una sera,
un abbraccio così timido e impacciato che, in uno sprazzo di
brevissimo amore paterno, non aveva avuto il cuore di svegliarla per
far sì che tornasse nel suo letto, limitandosi a coprire
entrambi con un plaid che aveva tirato fuori dall'armadio.
Non aveva ammesso più cose
del genere, in seguito. Lui gli
aveva concesso la
benevolenza di prenderlo come suo allievo, e se era realmente
intenzionato ad
imparare perfettamente l’alchimia - e a non creare dunque
imitazioni scadenti
come quella che gli aveva mostrato - avrebbe dovuto mettere da parte
certe
fantasie adolescenziali e prender più seriamente il proprio
lavoro.
Forse fu proprio quello il
motivo - oltre al trattato per lo più sbagliato che il
ragazzo gli aveva
presentato - che nei giorni seguenti lo spinse ad un addestramento
ancor più
severo, dando dunque al giovane direttive precise che non ammettevano
errori. Che
lo odiasse pure, in seguito. Se ciò sarebbe servito a farlo
diventare un
alchimista geniale, un giorno, ne sarebbe valsa davvero la pena.
Nonostante il
più delle volte quel Roy fosse un moccioso impertinente, uno
di quelli che per
la loro impudenza veniva voglia di prendere a schiaffi dalla mattina
alla sera, confidava molto
nelle
sue capacità e nel modo in cui utilizzava
l’alchimia. Un’alchimia da
principianti, ciò era indubbio, ma con la pratica e la
costanza avrebbe
sicuramente imparato a fare grandi cose e sarebbe di certo divenuto un
grande
uomo.
Peccato però che, durante i
primissimi mesi di addestramento, il ragazzo perdesse molto
più tempo ad
impressionare sua figlia che a studiare seriamente come avrebbe dovuto.
Sebbene
l’avesse rimproverato più volte per quel suo
comportamento, ad ogni piccolo
ritaglio di tempo quel moretto si ritrovava a spiegare ciò
che aveva imparato
non solo a lui, ma anche a Riza. E lei lo ascoltava estasiata, forse
volenterosa quanto il ragazzo di conoscere quella scienza chiamata
alchimia. Ma
farle imparare quell’arte era pericoloso proprio a causa del
segreto che
portava sulla sua piccola schiena.
«Maestro, quando mi
insegnerà
un’alchimia più complessa?» Una domanda
che da Roy gli veniva ripetuta spesso,
da due settimane a quella parte. La sua impazienza, il più
delle volte, era
esasperante. Sembrava voler imparare tutto e subito, dimentico che
l’alchimia,
oltre che una scienza, era un’arte. E l’arte
diventava soltanto uno
scarabocchio in mani poco esperte e frettolose.
«Per imparare un grado
avanzato
dell’alchimia
bisogna
innanzitutto conoscere le basi», rispondeva lui, aggiungendo
in seguito nozioni
sempre diverse per far sì che il ragazzo capisse e smettesse
di chiederlo, cosa
che non accadeva mai. «Supponiamo che essa sia una casa: se
le fondamenta sono
marce, il resto della struttura crollerà».
«Ma io queste cose le so
già,
Maestro», era la replica lamentosa. «Ormai conosco
a memoria ogni paragrafo di
“Introduzione all’alchimia”, roba da
bambocci».
«Dunque perché non
hai ancora
capito il versetto che ti feci leggere tempo fa?» un quesito,
quello, che
lasciava il ragazzo interdetto e senza parole, quasi mortificato.
«Riprendiamo
immediatamente, e stavolta non ammetto distrazioni».
E dopo quei discorsi la loro
lezione andava avanti, sebbene il ragazzo non sembrasse per nulla
contento di
quelle limitazioni. Fu però allo scadere di quel mese che
Roy si presentò alla
sua porta, bussando sull’uscio con incertezza.
Lui era seduto alla scrivania,
ingombra come al solito di vecchi e polverosi tomi. Boccette
d’inchiostro e
calamai occupavano la maggior parte del lato destro di quel tavolo di
mogano,
mentre il centro era colmo di fogli e pergamene come ogni scrivania
presente
nello studio. Scostando qualche libro e qualche appunto lasciato
lì da chissà
quanto tempo, l’uomo invitò il ragazzo ad entrare,
voltandosi verso di lui con
metà viso nascosto dai lunghi capelli biondi. Sembrava
spossato, simbolo che, forse,
anche quella notte aveva dormito poco e niente.
«Cosa ti porta qui a
quest’ora,
Roy?» domandò con finta non curanza, vedendo il
giovane grattarsi dietro al
collo con fare vagamente nervoso. L’ardore che vedeva nei
suoi occhi scuri,
però, era paragonabile a quello che gli aveva visto il primo
giorno in cui si
era presentato lì in casa. Erano gli occhi di chi era
disposto a tutto per
raggiungere l’obiettivo che si era prefissato.
Sotto il suo sguardo, il ragazzo
fece qualche passo risoluto verso il centro della stanza, fissandolo
con
attenzione in viso. «Le ho portato il trattato revisionato
che mi aveva
chiesto, Maestro», asserì, ricevendo una mezza
occhiata scettica.
«E per farlo non potevi
attendere
domattina?» fu la replica dell’uomo, che
allungò però una mano verso di lui per
farsi consegnare il foglio dove, con una grafia un po’
disordinata, era stato
steso il resoconto che tempo addietro aveva chiesto al ragazzo. Proprio
lui,
dopo aver fatto spallucce, borbottò a mezza voce un
«Vorrei che lo leggesse
adesso» prima di aspettare una qualche replica o pessima
valutazione, ma
nessuna delle due sembrò giungere. E di questo il giovane
Roy si meravigliò,
studiando con attenzione l’espressione che aveva assunto il
viso del maestro.
Lui stava leggendo con reale interesse la teoria ivi riportata,
sorridendo soddisfatto dentro di sé. Aveva visto giusto:
quel ragazzo era
geniale, esattamente come aveva teorizzato fin dal principio.
Ciò che gli
mancava era solo un po’ di disciplina, e a questo avrebbe
provveduto lui
stesso.
Un giorno, forse, quel giovane
avrebbe anche avuto il privilegio di imparare il suo più
prezioso progetto:
l’alchimia del fuoco. Era stata proprio quella ricerca a far
accavallare anni
ed anni di lavoro. Aveva teorizzato come l’unione di singoli
elementi, così
opposti ma complementari, avrebbe potuto dar vita a quella nuova forma
d’alchimia [2],
studiando con attenzione tomi su tomi. Era infine giunto alla
completezza di
quel progetto, a quale fosse la sua reale essenza, sigillandola sotto
forma di
un codice segreto che un normale alchimista non sarebbe mai riuscito a
decifrare. Ma forse,
con il tempo, ci sarebbe riuscito proprio
quel giovane che aveva dinanzi, e che continuava a
guardarlo con apprensione e con l’impazienza tipica dei
ragazzi della sua età.
Poiché,
esattamente come affermava Plutarco, la mente non era un vaso da
riempire, ma un fuoco da far ardere ancora e ancora, senza tregua alcuna,
alimentandolo all’infinito.
E quel ragazzo aveva la stoffa per non essere un semplice automa in
balia degli eventi.
«In sintesi?»
domandò infine,
volendo esser sicuro che Roy avesse realmente compreso ciò
che aveva scritto
nero su bianco. La teoria non gli bastava, dunque attese una risposta,
ammettendo a se stesso di aver provato un moto d’orgoglio
quando il ragazzo
rispose «Uno è tutto, tutto è
uno», spiegandogli ciò che era alla base
dell’alchimia stessa: comprendere il flusso del mondo,
scomporlo e poi
nuovamente ricomporlo [3] .
A quel punto arrotolò il foglio e
si alzò, avvicinandosi al ragazzo per poggiargli una mano su
una spalla, in un
gesto quasi affettuoso che mai ricordava d’aver fatto.
«É giunta
l’ora che tu
conosca la vera alchimia, Roy».
Conoscere
la vera alchimia. Aveva detto così, certo, ma le lezioni non
sembrarono poi
così diverse da quelle che aveva fatto seguire a Roy fino a
quel momento.
Il libro base “Introduzione
all’Alchimia” era stato sì eliminato dai
testi di studio, ma il grado avanzato
non andava oltre alle semplici teorie scritte. Per il momento la
pratica
sembrava vietata, e lui poteva benissimo capire la disapprovazione del
ragazzo.
«“Queste sono le serpi che
gli antichi han dipinto in cerchio, la
testa morde la coda per indicare che ciò procede da una sola
ed identica cosa,
e che essa, da sola, è sufficiente
[4]”»,
stava leggendo Roy ad alta
voce, con il grosso volume che il maestro gli aveva consegnato aperto
dinanzi
a sé. Lo sguardo dell’uomo era fermamente puntato
su di lui come se volesse
tenerlo d’occhio o, molto più probabilmente, come
se si stesse accertando con
il solo guardarlo che capisse ciò che leggeva.
Fece per leggere il verso
successivo quando un bussare alla porta richiamò
l’attenzione d’entrambi ed
interruppe i loro studi, ancor più quando oltre la soglia
fece la sua
apparizione la piccola Riza, con in dosso una semplice veste ricamata e
un
vassoio fra le mani.
«Ho portato del
the»,
annunciò, avanzando nella stanza con
quanta più attenzione possibile, onde evitare di calpestare
qualche foglio
sparso sul pavimento.
Nel vederla, gli occhi di Roy si
illuminarono. «Ah, Riza!» esclamò
raggiante, scattando in piedi e
poggiando entrambe le mani sul bordo del tavolo. Ma la sua euforia fu
bloccata
dal maestro stesso, che gli pose un braccio dinanzi come ad imporgli di
riaccomodarsi.
«Lascia il vassoio sul
tavolino lì
di fianco ed esci, Riza», intimò immediatamente
alla figlia, scoccandole
un’occhiata piuttosto eloquente che fu capace di bloccarla a
poca distanza da
lì, quasi non avesse più il coraggio di muovere
un passo. «La tua presenza
distrae Roy», soggiunse, stornando lo sguardo sul ragazzo in
questione, che
sotto lo sguardo di quegl’occhi si sentì quasi
piccolo piccolo.
Roy incassò la testa nelle
spalle, bofonchiando «Questo non è affatto vero,
Maestro».
«Le trasmutazioni che compi ne
sono la prova tangibile», rimbeccò lui, tornando a
guardare la ragazzina. «Ti
prego di fare quanto detto, Riza», ripeté
pazientemente, vedendola annuire in
fretta. Lei, però, non mancò di guardare di
sottecchi
il moro, riducendo le
piccole e delicate labbra in una linea sottile prima di aggrottare
finemente le
sopracciglia. Che quel distacco non le piacesse era palese, ma
l’uomo non
poteva permettersi altre interruzioni. Avevano ancora troppo lavoro da
fare, e
sentiva che il tempo a sua disposizione, ormai, scarseggiava. Aveva
perso
talmente tanto di quel tempo dietro alle sue ricerche che non ne aveva
trovato
per occuparsi di se stesso. Già logorato dalla malattia, con
il passar degli
anni era inesorabilmente peggiorato. Temeva dunque di non riuscire a
portare a
termine quel compito che si era prefissato, e ancor più di
lasciare incustoditi
e senza protezione sua figlia e i suoi segreti, far sì che
Roy divenisse un
alchimista capace e degno di rispetto, quindi, era la sua
priorità più
assoluta.
In un altro gesto secco,
indicò
l’uscita a Riza, che dovette obbedire con un piccolo
sospiro affranto.
Lasciò il vassoio con tazze e teiera sul tavolino che le era
stato accennato e,
dopo aver fatto un cenno di saluto con il capo, uscì
mestamente sotto lo sguardo
altrettanto sconsolato del giovane Roy. Di ciò
l’uomo se
ne accorse, e
riportò la sua attenzione su di lui; batté un
paio di volte la mano
destra sul bordo del tavolo, facendo sussultare il ragazzo.
«Non hai il tempo
materiale per dispiacerti per Riza, Roy», lo
ammonì, ma era
lui a non avere tempo, si ripeté
mentalmente.
Roy, però, sospirò
e scosse il capo. «Perché la trattate
così,
Maestro?» domandò, capendo di aver
osato troppo quando lo sguardo dell’uomo si fece duro e
freddo, forse più di
quanto non fosse già normalmente.
«Questa è una cosa
che non deve
riguardarti», ribatté difatti
l’uomo in tono estremamente
serio. «Sappi solo che non lo faccio perché non le
voglio bene, anzi.
Tutt’altro», alzò poi una mano dinnanzi
al viso del suo allievo, imponendogli
silenzio. Aveva notato che stava per aprir bocca, e non voleva da lui
altre
domande, repliche o lamentele. «Pensiamo piuttosto a
rimetterci a lavoro. Le
teorie di Flamel [5]
non si adattano perfettamente al tuo programma, ma è un
ottimo punto di
riferimento».
Seppur sentisse dentro di sé
la
voglia di dissentire e riprendere invece il discorso precedentemente
interrotto, Roy si limitò soltanto a gettare
un’occhiata nella direzione in cui
era sparita Riza e ad adocchiare il vassoio che aveva lasciato, quasi
domandandosi quante ore avrebbe fatto trascorrere il maestro prima di
degnarsi
di guardare il the che la figlia aveva preparato. In una piccola
ciotola
decorata - che precedentemente non aveva notato, ad esser sincero -
c’erano
persino dei biscotti fatti in casa. Tanta premura sprecata, si
ritrovò a
pensare, chinando nuovamente il capo sui libri per ricominciare i suoi
studi.
Quell’anno che il ragazzo
passò a
casa Hawkeye sembrò passare in un attimo. Sebbene
l’uomo fosse divenuto un po’
più elastico, permettendo a Roy di concedersi del tempo per
sé da sfruttare
come più lo aggradava - e il più delle volte
perdeva ore ed ore in compagnia di
sua figlia Riza, felice come una pasqua per le attenzioni da lui
ricevute -,
non mancavano i momenti in cui non gli permetteva di fare nemmeno un
passo
fuori dallo studio, costringendolo a nottate in bianco chino sui libri
o
alzatacce per un addestramento pratico. Avevano cominciato le
trasmutazioni più
complesse esattamente otto mesi prima, quando il ragazzo aveva
dimostrato di
avere un’ottima padronanza dell’alchimia. Ma,
nonostante gliene avesse parlato
precedentemente, non era ancora convinto che fosse pronto per diventare
realmente lui il possessore dell’alchimia del fuoco, il
custode di quel potere
terrificante che avrebbe potuto dare la morte in meno d’un
attimo. Però, più il
tempo passava, più vedeva quel ragazzo crescere bene e la
malattia che logorava
il suo corpo progredire. Quel moccioso che aveva preso con
sé si era dimostrato all’altezza del compito e
aveva acquisito la tecnica
giusta, certo, e sarebbe di sicuro stato fiero di lui se, di punto in
bianco,
non avesse deciso di iscriversi all’Accademia Militare non
appena compiuto i
diciott’anni.
Da quel giorno passò
parecchio tempo
prima che lo rivedesse. Vestito di tutto punto con la sua uniforme da
soldato
semplice, quel giovane si era presentato nel suo studio visibilmente
cambiato,
maturato
sia dal punto di vista fisico che mentale. Con il giaccone che
completava la
divisa abbandonato sottobraccio, come se fosse appena rientrato dalla
cerimonia
d’investitura dei nuovi soldati, Roy gli aveva comunicato
che, effettivamente,
era entrato a far parte dell’esercito. Voleva diventare un
alchimista di stato e servire il suo Paese, aveva detto. Un
alchimista... davvero
ironico. Un
cane, ecco cosa sarebbe diventato. Un cane al loro servizio. Non
riuscire ad
insegnargli i suoi segreti era stata una buona cosa, forse.
«Proprio come pensavo... non
sei
ancora pronto per l’alchimia del fuoco», gli aveva
confessato difatti,
ascoltando le repliche del ragazzo con un sorriso sardonico e
falsamente
accondiscendente dipinto sulle labbra. «É
uno
spreco insegnare a qualcuno che
si disonorerà con le sue stesse mani anche le sole regole
fondamentali di
quell’arte», aveva continuato, e sebbene Roy avesse
replicato ancora,
insistendo su come credesse che tra la gente e l’esercito ci
fosse un legame -
e dunque l’alchimia sarebbe stata utile ad entrambe le parti,
non solo ad una
di esse -, e che diventare alchimista di Stato con le sue conoscenze
sarebbe
stato facile, lui aveva rifiutato di ascoltarlo ancora.
Quelli, per lui, erano sempre e
solo stati discorsi di seconda mano. Per quanto quel ragazzo avesse
cercato di
farlo ragionare, dunque, provando persino a dirgli che il suo lavoro
sarebbe
migliorato se fosse divenuto a sua volta alchimista di Stato e avesse
accettato
i fondi per le ricerche, lui aveva posto fine anche a quelle
rimostranze.
«Le mie ricerche sono state
già
ultimate tempo fa», gli aveva rivelato, lasciandolo
probabilmente
sgomento. «Da quel giorno ho soddisfatto a pieno i miei
desideri e adesso non
voglio altro. Gli alchimisti sono esseri viventi che, durante tutta la
loro
esistenza, non possono fare a meno di andare alla ricerca della
verità», aveva
soggiunto, ed era proprio lì che si era momentaneamente
interrotto.
Aveva perso una manciata di
secondi a riflettere e adesso, con lo sguardo perso nel vuoto,
sembrava
faticare ad andare avanti. Già prima ancora che Roy tornasse
aveva cominciato a
sentirsi stanco, e ora, sotto i suoi occhi, tossiva.
«Quando essi smettono di
credere
nei loro principi, allora l’alchimista muore»,
continuò infine, scoccando finalmente una rapida occhiata al
suo allievo.
Sembrava turbato, ed il perché, almeno in parte, poteva
benissimo comprenderlo.
«Ed è proprio per questo che io mi considero
già morto da molti anni, ormai».
L’espressione di Roy divenne
ancor
più preoccupata, riuscì a leggergli perfettamente
in viso quanto quelle sue
parole lo avessero scosso. «Non dica queste cose»,
lo sentì dire, guardandolo a
malapena attraverso la foschia che era ormai diventata la sua vista.
«Se
mettesse i suoi poteri a disposizione del mondo, allora...»
«Poteri, eh?» lo
interruppe con un
piccolo colpo di tosse, sentendo la vista annebbiarsi maggiormente
mentre
continuava. «Li desideri così tanto,
Roy?»
E avrebbe continuato, se solo non
avesse tossito ancora e avvertito subito dopo nel palato il sapore del
sangue,
che gli si rovesciò in un fiotto vischioso agli angoli della
bocca. Le orecchie
gli fischiavano e, tra sbuffi di tosse e contrazioni allo stomaco,
avvertiva la
tensione del corpo di Roy nell’aria, i suoi richiami
disperati e repentini
mentre gli si avvicinava e lo scuoteva, sorreggendolo come poteva. Il
panico
nella sua voce era... palpabile.
Già, non avrebbe saputo dare
ad esso una
definizione migliore.
Sebbene la lucidità si stesse
pian
piano spegnendo, esattamente come la sua vita, tentò
comunque di parlare, di
farsi sentire, scusandosi per la negligenza che aveva avuto nei
confronti di quel ragazzo che ancora lo chiamava a gran voce, cercando
aiuto in quella casa solitaria.
L’unica cosa di cui si dispiacque,
prima di reclinare del tutto il capo sulla scrivania dietro la quale
era
seduto, sentendo nel frattempo i suoni diventare solo uno sciabordio di
sottofondo, fu il suo non essere stato un buon padre. Né
tantomeno un buon
maestro.
Avrebbe voluto insegnare tutto, a
quel ragazzo. Ma, fino alla fine, aveva tenuto stretta nelle sue mani
quell’alchimia proibita e feroce, quell’alchimia in
grado di ridurre in cenere
il mondo con uno schiocco di dita, senza aver nemmeno avuto il tempo di
insegnarla al suo pupillo. Aveva invece lasciato che fosse sua figlia
Riza a
custodirne i segreti e a decidere cosa farne di quel potere
distruttivo.
Forse era stato meglio così.
Forse
era stato soltanto un patetico sciocco.
[1] Anche
se
può sembrare, non sono affatto impazzita. Questa
è la teoria scritta nel libro
di Lambspring, un nobile e antico filosofo i cui studi ruotavano
intorno alla
pietra filosofale.
Nella figura uno del suo
libro, dove viene accennata la verità di due pesci che
nuotano nel mare, lui
spiega per l’appunto la teoria del “Uno
è tutto, tutto è uno”: il mare
è il Corpo, i due pesci che nuotano in esso
sono lo Spirito e l’Anima.
[2]
Con questa nota si vuole intendere una piccola
teoria
e dunque il richiamo esoterico alla stella a sei punte, unione stessa
tra
energia e materia, ottenuta unendo il simbolo del fuoco (Un triangolo
con una
punta in su) e il simbolo dell’acqua (Un triangolo con la
punta in giù), che
ricorda vagamente, per l’appunto, il simbolo sui guanti di
Roy e sulla schiena
di Riza.
[3]
Inserire questa nota probabilmente è
inutile, ma le
parole scritte - e dunque la teoria di base - sono un chiaro
riferimento al
ventottesimo episodio della prima serie dell’anime:
“Uno è tutto, tutto è uno”.
[4] Le
figure geroglifiche di Nicolas Flamel, capitolo terzo. Come si
può benissimo
capire, si fa un vago riferimento all’Ouroboros (Che
significa per l’appunto
“Colui che si morde la coda”), simbolo che
rappresenta la natura ciclica delle
cose e che viene spesso anche rappresentato bianco e nero per
richiamare lo Yin
e lo Yang.
Nell’alchimia è simbolo
di purificazione e rinascita, la rappresentazione della materia che si
rigenera
e si ritrasforma. Non è stato dunque un caso
l’averlo scelto come tatuaggio per
gli Homunculus.
[5]
Nato il
ventotto settembre del 1330 a Pontoise, in Francia, fu scrivano e
copista
dell’Università di Parigi e il più
celebre alchimista di quel secolo. Sebbene
della sua vita si sappia abbastanza, le sue imprese in campo alchemico
furono
quasi da leggenda: si suppone difatti che sia riuscito a creare la
pietra
filosofale e abbia dunque ottenuto per sé e sua moglie
l’immortalità.
Le teorie a cui si fa
riferimento sono state vagamente accennate precedentemente. Inoltre la
decisione di scegliere proprio lui come alchimista sta nel simbolo
sulla sua
tomba, ovvero il serpente crocifisso: è difatti
l’icona di FullMetal Alchemist
stesso.
SCRITTA PER IL CONTEST: DON'T FORGET: FULLMETAL
ALCHEMIST
INDETTO DA SETSUKA
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata originariamente scritta per il contest
indetto
da Setsuka,
“Don't
Forget: FullMetal Alchemist”.
Non ho idea di quante volte
io abbia cambiato storia.
Dapprincipio sarebbe dovuta
partire due anni dopo gli eventi del capitolo 108, ma stentava ad
ingranare la
marcia e non convinceva affatto per come l’avevo impostato.
Era come se ci
fosse qualcosa che lo bloccava e che non riusciva a farlo andare
avanti,
probabilmente sia per la mia decisione di lasciare Roy cieco sia di
partire
dove in fin dei conti non ci sarebbe stata più trama, dato
che per me FullMetal
Alchemist era finito con “Il
Conquistatore di Shambala”. Avevo poi deciso di
rischiare
e concentrarmi sul POV del Padre prima della fine del manga
(Più precisamente
durante gli avvenimenti raccontati dal capitolo 104 in poi),
ma anche
quella, ad un certo punto, non ne ha più voluto sapere di
andare avanti.
Alla fine, quindi, è uscita fuori
questa storia. Probabilmente non è il massimo e ne sono
consapevole, ma non
posso di certo lamentarmi, giacché mi sono letteralmente
ridotta all’ultimo
minuto riscrivendola da capo.
Insomma, aye, secondo me fa letteralmente schifo. Non è per
nulla
adatta a questo contest e credo che non renda l’amore che ho
provato per questo
bellissimo manga prima che si riducesse in quel modo. Forse avrei
dovuto
concentrarmi su qualcos’altro che avrebbe potuto fare in modo
che mi lasciassi
andare del tutto, esprimendo davvero ciò che questo manga mi
ha comunicato per
ben otto anni, ma ormai ho già spedito la storia quindi
è meglio finirla qui.
Comunico solo che la prima
parte del titolo prende spunto da una doujinshi Roy/Ed di Ninekoks, per
l’appunto “The
pathetic fool” e concludo qui sperando che,
sebbene io la consideri
un vero e proprio spreco di fogli Word, sia in qualche astruso modo
piaciuta
e che non la si consideri del tutto da buttare come sto facendo io.
Al prossimo contest, si
spera. ♥
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