Annego e il mare è
lei
Attenzione
(così poi non dite
che non vi avevo avvertito):
è bene che voi diate almeno
un'occhiata a queste poche righe, se intendete proseguire con la
lettura di quanto ho scritto, al fine di evitare eventuali spiacevoli
malintesi. Sconsiglio infatti vivamente la lettura a:
- Non amanti del genere
shoujo-ai/yuri. La coppia qui
trattata è infatti quella formata da Haruka/Heles e
Michiru/Milena, presente in entrambi anime e manga e chiaramente
omosessuale - nonchè canon. Pertanto, chiunque si sentisse
offeso o turbato in qualche modo dal mio lavoro è pregato di
cambiare fanfiction.
- Omofobi. Per ovvi
motivi sopra elencati.
- Le mie amiche, che
casomai dovessero leggere lo stesso da
domani girerebbero con le spalle attaccate al muro, almeno in mia
presenza. E ne approfitto per rassicurarle, dicendo loro che no, non ho
cambiato "gusti" e che non hanno niente da temere.
Detto
ciò, tutti i non appartenenti alle categorie sopra
indicate, o semplicemente gente coraggiosa [leggete: masochista],
possono proseguire in pace.
Soundtrack: Senshi no
Omoi
(Feelings of a
Soldier)
Le mie mani affondano nei suoi
capelli, perdendosi in
quell’oceano
dai colori innaturali, proprio come un branco di
pesci si
abbandonerebbe ad un’intensa corrente. Dopotutto, nemmeno io
sono così forte.
Le mie dita si tuffano in quelle onde, si lasciano condurre da
movimenti ormai
indipendenti dalla mia volontà, mentre le morbide ciocche
acquamarina si
inanellano sinuose attorno ad esse.
La luce flebile che penetra
dalla tapparella appena
abbassata si frammenta sui suoi capelli; si riflette, si infrange, si
ricompone
e vi si inabissa – chissà se poi farà
ritorno in superficie. Io no, non lo
farei. Affondo il viso della massa setosa della sua chioma: mi lascerei
annegare in questo oceano, permetterei all’acqua di
insinuarsi ovunque; nella
gola, nei polmoni, nella mente,
fino ad accogliermi nel sereno silenzio
dell’oblio. Ma il mio corpo è infimo, e richiede
aria, pur sapendo che essa
stessa è il mio elemento, e che in momenti come questi ne
farei volentieri a
meno – è un tale spreco di tempo, a che serve
l’ossigeno quando ho lei? Inspiro
profondamente, chiudendo gli occhi, inalando il suo profumo e cercando
di
assorbire quanto più possibile della sua essenza, di lei.
E’ lei il mio
respiro, l’unico mare in cui non ho bisogno di restare in
apnea.
Mi sollevo piano dai suoi
capelli con ancora il suo odore
nelle narici. Una delle mie mani si districa senza intoppi dai suoi
ricci
arruffati, come se anch’essi avessero intuito la mia prossima
mossa e volessero
assecondarla. Le mie dita percorrono leggere e veloci il contorno del
suo viso,
soffermandosi qualche attimo di più sulle sue
guance
arrossate, e
risalendo poi verso la fronte, sulla linea diritta del naso, sul
profilo del
mento, senza mai interrompere la carezza. E continuano a sfiorarla
anche quando
lei apre gli occhi, rivelando quelle due pozze color blu oltremare
– color mare,
in effetti – a cui la parola “iridi” non
rende senz’altro giustizia. Ed è di
nuovo un tuffo, una caduta libera verso un nuovo mare, che inizia dal
momento
in cui i nostri sguardi si incontrano e che affronto senza la minima
paura – io
non ho paura dell’acqua, se quell’acqua
è lei.
Il tempo si dilata nel piccolo
spazio che separa i nostri
occhi; secondi, minuti, che gocciolano lenti verso il fondo di
un’invisibile
clessidra. Ne passano tanti, ed ognuno di essi vorrebbe una parola,
meriterebbe
di essere accompagnato da un qualche suono, ma dalle nostre labbra non
ne
giunge alcuno. Non ne abbiamo bisogno. Il silenzio ci circonda, ci
avvolge e ci
riscalda, proprio come negli abissi più profondi.
L’aria è statica, carica di
attesa e di tensione, ma priva del benché minimo alito.
Immobile, come me che,
sorreggendomi sui gomiti, la guardo dritta negli occhi. Quanto blu che
c’è, in
quelle iridi. Rimaniamo così per un po’, o forse
per un’eternità,
cristallizzate nell’istante in cui i nostri sguardi limpidi
si sono incrociati.
Lentamente, senza interrompere il contatto visivo, abbasso il mio viso
verso il
suo. Chiudo gli occhi nell’istante esatto in cui le mie
labbra sfiorano le sue,
e so, dal modo in cui lei ricambia il mio bacio, che d’ora in
poi non ci sarà
più spazio, né tempo, per il silenzio.
L’aria si scioglie, si liquefa,
surriscaldata dal calore dei nostri corpi; e uno dopo l’altro
ansiti e sospiri
riempiono quel vuoto statico di poco prima, fino a saturare
completamente ogni
singolo angolo della stanza. Il fruscio delle lenzuola è il
rumore delle onde,
le sue mani tra i miei capelli la mia corrente calda, e i suoi respiri
spezzati, i gemiti trattenuti, il mio canto di sirena.
Ipnotico,
travolgente,
inarrestabile: sono queste le note che compongono la nostra perfetta
armonia. Tutto
ciò che riversiamo sui nostri strumenti musicali, e che
permettiamo ad altri di
ascoltare, è solo una minima parte di questa meravigliosa
sinfonia. Le nostre
dita cominciano a rincorrersi, muovendosi pressoché in
sincrono e perfettamente
a tempo con questa musica, di cui il battito furioso dei nostri cuori
scandisce
il ritmo. E quando si incrociano, nel percorrere quelle strade
infuocate già
tracciate innumerevoli volte sui reciproci corpi, si sfiorano. Ma
è un attimo,
prima di riprendere la corsa. Le mie mani sono veloci, sono ovunque, e
si
muovono con la stessa curiosità della prima volta su quel
corpo già più volte
esplorato. La sua pelle è calda e liscia:
è sabbia,
sfuggente e setosa come
quella dei fondali oceanici.
Sono io la sola che riesce a
smuovere la gelida
imperturbabilità del suo mare di emozioni: io sono il vento.
Il suo vento, la
sua brezza marina che soffia leggera e inarrestabile a pelo
d’acqua e ne
increspa la piatta superficie. E adesso ho scatenato una tempesta. Mani
e
occhi, capelli, respiri: tutto diventa confuso, quando cielo e mare si
incontrano; e ogni nostra più insignificante parte del corpo
è un pezzo
fondamentale e necessario in questa completa fusione di elementi. Le
mie
dita
sono lì dove finisce la sua pelle, i miei capelli si
confondono coi suoi e ne
prolungano la già notevole lunghezza, e i nostri occhi che
non si perdono di
vista un attimo sono l’anello più forte di questa
catena, il punto in cui cielo
e mare si incontrano: l’orizzonte.
Quella linea immaginaria
che tanto spesso io
e lei ci perdiamo ad osservare al tramonto, e che rappresenta in modo
eloquente
il nostro legame, con noi diventa concreta, reale. Per i navigatori
rimarrà
sempre un utopia, per gli umani un ambiguo punto di riferimento. Per
noi è
semplicemente una metafora.
La soglia della mia percezione
è acuita di cento e più
volte, ora. I miei sensi stanno all’erta tutti e cinque, tesi
fino al limite
per cogliere ogni cosa possibile, e catturare con occhi, naso,
orecchie, labbra
e mani i più piccoli granelli di emozioni –
granelli di sabbia.
Le sensazioni
si abbattono con la violenza di un maremoto
su di me, un relitto
sperduto nel
mezzo dell’oceano in procinto di essere inghiottito
dall’alta marea. Ma io non
sono un relitto; non più, da quando c’è
lei. Adesso sono solo un pesce, una
creatura che vive di acqua, e che attende con impazienza la prossima
onda; e
quando finalmente la vede arrivare vi si butta a capofitto.
E
come
farebbe un pesce, inspiro profondamente, lasciando che il
suo profumo - l'onda
- mi invada i polmoni e le vene, per diffondersi
in me assieme al sangue. Se fosse davvero acqua, a quest'ora
sarei
già annegata: ma dopotutto, "il
naufragar m’è dolce in questo mare".
E'
proprio vero che c'è sempre una prima volta. Questa per me
è una di quelle: è la mia prima storia sulla
coppia Haruka/Michiru, la mia prima in questo fandom, e la prima
shoujo-ai che scrivo (molti sperano sia l'ultima). Se questo vi suona
come una giustificazione, sappiate che la vera apologia non
è nemmeno iniziata xD Senza partire da "correva l'anno
1500..." vi informo che Sailor Moon, e più precisamente la
pluricitata coppia H/M, è la mia fissazione del mese (peggio
del ciclo xD), e che quindi mi sentivo particolarmente in dovere di
dover estendere il mio raggio d'assillo a tutti voi con una fanfiction.
Ho avuto molti dubbi sul fatto di pubblicarla o meno, tanto per la mia
effettiva abilità nello scrivere, quanto per il tema
delicato che la scelta di questa coppia tra le tante mette in evidenza.
Alla fine mi sono messa in gioco, e solo voi lettori potrete dirmi se
ho fatto bene o no, e magari perchè.
Sento
inoltre di dover fare delle precisazioni, perchè alcuni
più attenti saranno sorte delle domande. E qui ve le
voglio spiegare, se avrete la pazienza di leggere. La scelta di non
fare esplicitamente il nome di Michiru è del tutto
intenzionale. Prima di tutto perchè dal POV di Haruka, in un
momento simile, è piuttosto ovvio a chi si stia riferendo; e
poi perchè volevo che la sua presenza risultasse enfatizzata
e costante pur senza nominarla, attraverso tutti quei continui richiami
al mare. Mi auguro di esserci un minimo riuscita. Anche i termini
marini molte volte ripetuti sono una "scelta stilistica" (come le
chiama la mia prof. di latino e greco xD): l'analogia con l'acqua
è una costante della vita di Michiru proprio per il suo
essere Sailor Neptune, e di conseguenza ciò è
diventato parte, magari in modo minore, anche della vita di Haruka.
Anche i voli pindarici da un concetto all'altro, mediante associazioni
di idee note probabilmente solo a me, sono voluti, o quasi: da una
parte c'è la totale e comprensibile confusione della mente
di Haruka in quello stato, e in secondo luogo ci sono io che scrivo di
getto e poi non trovo correlazioni e mi arrampico sugli specchi xD
Infine,
specifico un'ultima cosa: per quella che è la mia visione di
Haruka, sono quasi del tutto certa che lei non direbbe mai in faccia
a
Michiru queste cose, ma sono altrettanto sicura che le pensi, dalla
prima all'ultima - e che in un certo qual modo Michiru lo sappia.
Nell'anime dopotutto se lo sono ampiamente dimostrato a vicenda, e
persino la mia parte fangirl è stata appagata da certe
frasette che si sono scambiate ;) Altra
cosa: il rating è arancione
perchè... bè, perchè non è
rosso (Capitan Ovvio). Dopotutto non era mia intenzione scrivere una
lemon, e alla fin fine non ho descritto praticamente nulla, se non
l'essenziale ai fini della trama. Non credo onestamente di costituire
un potenziale pericolo per le fragili menti dei minorenni. Concludo
scusandomi con il signor Giacomo Leopardi per l'uso improprio
dell'ultimo verso della sua poesia (L'infinito), e per il capogiro che
gli sarà certamente venuto in seguito al continuo girarsi e
rigirarsi nella tomba. Ringrazio
inoltre il binomio Cocciante-Plamondon per avermi prestato il titolo della storia, tratto dalla canzone "Mi distruggerai" del musical "Notre Dame de Paris", che comunque con la shot non c'entra una mazza. Vi lascio con il mio francesismo. A presto!
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