AUTORE: Akane
TITOLO: sono solo un uomo
SERIE: original
GENERE: real life, riflessivo, un pochino sentimentale
RATING: PG13
TIPO: no-yaoi
PARTI: capitolo unico
PERSONAGGI: Ryan il protagonista, Shadie la seconda
protagonista
DISCLAMAIRS: i personaggi sono miei, vengono dalla mia
fantasia
NOTE: per il concorso indetto dal Comitato Consiglio
Fanfiction del forum di EFP.
Questo è uno dei tipici personaggi che a me piacciono molto,
la storia si incentra più che altro sulla sua maturazione, anche se forse un
capitolo unico, magari, può risultare breve per una cosa del genere. Ho fatto
del mio meglio. Vi sono molte riflessioni anche se ho cercato di inserire scene
di movimento vere e proprie per evitare un flusso di coscienza, come il
concorso, mi pare, richiedesse. Altro punto importante: il linguaggio. Ho
cercato di curarlo nei punti di narrazione/riflessione(comunque la storia è in
terza persona), evitare che sia troppo scurrile, ma nei dialoghi e in certe
frasi non ho potuto fare in altro modo che come ho fatto poi. Spero si capisca,
è il personaggio.
Il titolo è quello che è, nulla di speciale, ma non sapevo
quale scegliere…
RINGRAZIAMENTI: ringrazio moltissimo Byakko, un aiuto
prezioso per la realizzazione della storia.
DEDICHE: dedicato a chiunque aspiri ad essere uomo.
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SONO SOLO UN UOMO
Fare musica non rappresentava, per ogni cantante, semplice
denaro, certo per alcuni era solo quello.
Solo un lavoro, un mezzo con cui procurarsi soldi e vivere
nel modo più agiato possibile.
Da sempre esisteva una categoria di persone che decideva di
esporsi, poichè aveva qualcosa di serio da dire al mondo, capiva che l’unico
modo che aveva per farlo erano le canzoni.
Qualunque cosa volessero dire, la musica la trasmetteva,
l’ascoltatore ne percepiva il messaggio e ne rimaneva affascinato, grazie
a tutta la passione che esprimeva, alla sincerità
e talvolta all’anima nuda che mostrava, con
l’uso di queste parole.
Questi erano quelli che facevano vera musica, Anche se da sempre
esistevano coloro che la sporcavano utilizzandola per motivi ipocriti e sono la maggioranza, c’erano ancora quelli che
partivano per esprimere le proprie idee, farsi
ascoltare, esternare quanto avevano dentro.
Finendo, però, anch’essi per sporcarsi.
Logorarsi.
Cadere…senza nemmeno rendersene conto.
Le note si spensero opache e nella sala registrazione scese
il silenzio per alcuni brevi secondi. Ci fu uno scambio di sguardi e poi un segno
con le dita, l’unione del pollice e dell’indice ad indicare che il pezzo andava
bene.
La porta della stanza non molto grande si aprì facendo
entrare uno dei tecnici che seguiva il progetto.
Era un ometto basso e paffuto, ormai non più giovane,
dall’aria molto stanca ma felice, un tipo
sognatore ed ottimista di natura.
- Stai andando forte, Ryan. È il tuo momento, lo sento,
nessuno ti ferma! Vedrai che arriverai in alto!-
Il ragazzo accettò di buon grado il complimento, ben
conscio, in realtà, che anche quel successo era effimero.
- Prima finiamo l’album e vediamo come andranno le vendite
…-
Rispose senza scoprirsi troppo, nel suo intimo l’entusiasmo
era chiuso ermeticamente.
Frenò realisticamente il
volo pindarico dell’uomo, sapeva di non essere
un esordiente, questo non garantiva le vendite. Era un cantante affermato e
amato nel mondo del rap e dell’hip-hop, aveva dimostrato di avere molto talento
e di saperci fare, di avere carisma, di essere
un personaggio in continua evoluzione, provocante e folle.
Non era un personaggio inventato,
ma il suo vero ‘io’ e il suo successo derivava dalla sua rabbia.
In se aveva sempre avuto una rabbia profonda
e come la maggior parte dei cantanti di quel genere musicale, aveva avuto un passato sofferto; dopo aver provato molto
dolore, era riuscito ad esprimerlo in quel modo vincente.
Arrivare fin lì non era stato facile, il successo è
fuggevole e lui ne era pienamente consapevole,
fino a pochi anni prima era stato nel pantano e l’odore di quel periodo ancora lo ricordava, incombente…come se da un momento all’altro potesse
ricaderci.
Aveva lottato con tutto se stesso mettendoci ogni sentimento
aveva in corpo ogni fibra del suo essere, per
mostrare che poteva farcela, per non cadere
alla prima difficoltà.
Eppure si trattava di quello, dei sentimenti.
Quali ne aveva in se?
Non aveva forse odio e rabbia per un mondo che andava sempre
più a rotoli? Che mostrava la parte bella e gioiosa della vita, nascondendo
quella brutta e dolorosa?
Aveva delle cose da dire, grazie a
quello che aveva provato in passato.
Ora che era lì, però, la rabbia e l’odio per ogni cosa lo circondava, era un’abitudine
La verità era che un tempo, quel Ryan che si presentava
trasgressivo e provocante, era vero. Ora…
invece, ora non riusciva più a
capire chi era, o forse si.
Forse lui lo sapeva così bene da evitare accuratamente il
discorso, preferendo farsi assorbire da quella sua vita indaffarata.
- ok, per oggi basta così! Vai, ci vediamo domani!-
La voce dell’altro tecnico arrivò al di là del vetro. Ryan
si tolse le cuffie che aveva abbassato intorno al collo, le appese al gancio e
dando un occhiata veloce alla finestra che faceva entrare già il buio notturno,
un fugace pensiero andò a lei che l’aspettava a casa…sicuramente addormentata
anche quella sera.
Si passò una mano veloce fra i corti capelli ossigenati,
seccato di aver fatto ancora tardi.
Gli occhi azzurro ghiaccio di Ryan fissavano assorti la
figura stesa nel suo letto, rannicchiata sotto le coperte dormiva una bambina bionda, dai lineamenti incredibilmente simili ai suoi, la piccola aveva
otto anni ed era sua figlia. Accovacciato accanto a lei, la osservò con sguardo
intenso, mentre con una mano le accarezzandola i capelli con tocco leggero, per
non destarla.
La baby-sitter era andata via dopo
avergli comunicato che la bambina aveva fatto i soliti capricci, voleva
aspettarlo alzata, ma si era addormentata, di nuovo.
Sospirò impercettibilmente allontanando con aria infastidita
quell’ennesimo pensiero che cercava di far capolino in lui.
Era solo una domanda che però non gli era permessa di essere
formulata.
‘Cosa stava facendo?’
La successiva, poi, sarebbe stata:
Dove era arrivato?
In seguito, una serie di
molte altre ancora più scomode e difficili da gestire.
Non era lui quello che rifletteva sulla propria vita,
arrivato al suo culmine massimo di gioia.
‘Non è il momento’ si diceva. Non era mai il momento di
farlo.
Era questo, no?
Si trovava nella gioia e tutto si sistemava.
Su cosa avrebbe mai dovuto riflettere?
In realtà andava tutto bene, lui e Shadie erano insieme dopo
tante lotte contro quella dannata donna che l’aveva ingannato, eppure lui
l’aveva amata veramente e ora che non viveva più nella povertà, non soffriva di
soprusi e di violenze
Quel che l’aveva forgiato facendolo diventare la persona
dura e aggressiva che era, non esisteva più, lo aveva
sconfitto.
Ora c’era dell’altro che doveva sconfiggere, doveva stare attento a non
far sfuggire quanto aveva conquistato, solo questo importava: non chi fosse
diventato, dove fosse arrivato, cosa avesse perso di vista, cosa volesse e cosa
stesse facendo veramente…tutte sciocchezze
noiose di cui non importava a nessuno.
Ultimamente se lo ripeteva spesso.
Con fastidio si alzò in piedi ed uscì chiudendosi la porta
alle spalle, lo specchio di fronte alla camera rimandò la sua immagine dai
lineamenti marcati e affascinanti, gli stessi di quella bambina che dormiva di
là.
- che palle!-
Sbottò a denti stretti, un nodo sempre crescente continuava
a farsi sentire in lui…sempre più difficile da ignorare.
Per quanto poteva ignoralo?
Fino a quando poteva continuare a fingere che dentro se
stesso non c’era niente che non andava?
Con passo nervoso andò a
dormire.
La svolta accadde un giorno.
Shadie era una bambina intelligente
e sensibile, anche se dal carattere forte e duro.
Non chiedeva mai al padre,
preferiva mandargli dei segnali, per quanto il rapporto fosse stato
bello fra loro, non chiedeva nulla per non
infastidirlo…ma sopratutto non voleva metterlo
in difficoltà.
Normalmente era così, Quel giorno
la madre, all’insaputa del padre, l’aveva chiamata.
Lei la odiava, l’aveva tenuta con se con la forza,
rinchiusa, lontana dal suo adorato papà, poi l’aveva abbandonata a se stessa
stanca di sentirla piangere e gridare.
Con fatica era riuscita a congiungersi con la persona che
più amava al mondo ed era stata felicità per entrambi.
Quando risentì quella voce, si aprì squarcio in lei,come una
finestra che le illustrasse una storia…le svelasse un segreto, una verità.
Suo padre la stava lasciando, ormai non osava più parlargli
per evitare di infastidirlo, non lo aspettava più alzata per salutarlo…non si
abbracciavano spesso e non avevano tempo per stare insieme. Ai suoi occhi di
bambina lui continuava ad avere molti segreti; anche se era col suo papà, si
sentiva sola, eppure non era sempre stato così.
La voce di quella donna, causò in
lei la crescita di una disperazione senza nome, e non sapeva con chi
confidarsi, era un peso troppo grande
che finì per schiacciarla.
Calde lacrime le rigarono il
volto, era un pianto silenzioso, dove nemmeno le spalle vengono scosse,
solo il mento trema e la pelle del volto si bagna sempre più. Un pianto
solitario e senza voce.
Voleva suo padre.
Quel padre pazzo e divertente che le insegnava cose fuori
dal comune, la proteggeva e [gliele faceva passare tutte lisce le permetteva di fare tutto
perché lui, da piccolo, né aveva fatte di peggio. Quel
padre complice e grandioso, un idolo, una grande persona di cui fidarsi, che nonostante le ore di assenza, i segreti che aveva non
mancava mai.
Lo rivoleva più di chiunque altra cosa.
“Se me ne vado mi cerca?”
Un pensiero infantile, ovvio e naturale, proprio di
qualunque bambino di quella età nella sua situazione, un po’ per disperazione,
un po’ per rabbia contro il padre.
Un rifiuto nel volerlo con se.
Nella solitudine che provava crescente.
Voleva provare perché si sa, i bambini sono egoisti e fanno
cose che un adulto non farebbe.
È per questo che hanno bisogno di attenzioni maggiori e non
di silenzi e trascuratezze.
Il legame speciale fra due persone si era rotto.
Ma non scappò.
Si chiuse totalmente a lui.
Lo faceva più per abitudine che per vero gusto, anche se non
era proprio esatto, stava ormai diventando un bisogno nel senso che ne era
quasi dipendente.
Aveva iniziato dopo essere finito nel giro dei così detti ‘famosi’,
prima non aveva i soldi per farlo. In seguito né aveva avuti così tanti, tutti in una volta, che gli
avevano dato alla testa.
Storia piena di luoghi comuni su cui pochi si soffermano
veramente e con attenzione, tanto è sempre
quella.
Ryan aveva iniziato con le droghe
leggere, subito dopo aver sfondato, per il troppo successo e per il
vuoto e la solitudine che né derivavano; da giovanissimo aveva fatto il colpo
di testa, si era sposato con una donna stupenda, avevano avuto una figlia e la
moglie l’aveva tradito perché sentiva di vivere
una vita troppo perfetta.
Si era comportata
male con lui che l’aveva amata veramente.
Senza remore aveva fatto di tutto per portargli via ogni
cosa, a partire da quella a cui teneva maggiormente, loro figlia, Shadie.
Senza la donna che amava e la piccola creatura, cadde in
depressione tanto da voler abbandonare tutto,
non trovava più il riscatto nella musica, come era accaduto agli inizi.
Stava male senza comprendere
perché, non capiva perché affannarsi per un mondo che era pronto a rifiutarlo e
per cosa? Che senso aveva mettercela tutta, arrivare dove desiderava,
per poi sentirsi solo e capire che non ha senso tutto quello senza qualcuno con
cui condividerlo?
Cose che diceva, sapeva, ma ignorava finchè non arrivò a
quel dannato successo, alla realizzazione dei suoi sogni. Cominciò a sentire
che anche se avesse smesso di fare ciò per cui aveva lottato, non gli avrebbe
cambiato nulla. Era senza forze.
A quel punto della sua vita, nella sua prima crisi,
arrivarono coloro che avevano investito in lui, ad impedirgli che si togliesse
dalla scena, aveva talento e avevano speso molto in vista del suo decollo.
Non ultimatum, ma un
ordine, poteva solo andare avanti tirando fuori quella genialità carismatica
che aveva mostrato all’inizio.
Non importava come, doveva farlo.
Importante non è come arrivò a quel punto, ma che cadde nel baratro creato dalle sostanze stupefacenti;
cercava di controllarsi per tenersi lucido, si illudeva, non assumendo per
endovena, di essere più libero degli altri.
‘ Io smetto quando voglio!’
Stronzate!
E finendoci dentro senza rendersene conto, si rifugiava in
un mondo d’illusioni, pensando che tutto
andasse bene, che quel vuoto potesse colmarsi in
qualche modo.
Quando intraprese quel viaggio,
quello nella droga, la sua carriera proseguì, quell’incentivo era
l’ideale per accumulare l’energia necessaria a non atterrare.
Con essa era arrivata la voglia di lottare per riprendersi
ciò che veramente poteva aiutarlo, sua figlia.
Era stato accusato di molte cose, la sua vita la viveva ai
limiti, finendo per dimostrare che spesso aveva poco di un uomo. Andava in giro
armato perché nel suo genere di musica andava di moda, creava
problemi al suo manager che ogni volta lo
proteggeva, aggrediva per non essere aggredito. Provocava.
Provocava
dannatamente tutti.
Accusandolo di non essere un buon
padre, la ex moglie l’aveva citato ed
era iniziata una trafila difficoltosa e molto lunga,
il ricordo e la sensazione palpabile di trovarsi con le manette ai
polsi, l’essere sotto processo, era ancora con lui, quando si toccava i polsi.
Aveva lottato per non cadere, con tutte le sue forze, aveva
fatto di tutto, per mostrare che andava bene come padre e come persona.
Perché aveva voluto dimostrare quelle cose?
Per il suo onore di uomo, ma anche perché vedendo da lontano
quella piccola creatura cresciuta i primi anni separata da lui, sentiva
qualcosa in lei che arrivava dritto al suo cuore,
come se la consanguineità potesse sentirsi, essere palpabile: un innato,
improvviso, senso di benessere che lo
coglieva ogni volta che guardava negli occhi di quella bambina.
Perché, forse, più semplicemente, i bambini riescono a
sentire innato in loro l’amore puro per i genitori e solo loro riescono a
trasmetterlo incontaminato, far sentire amato colui che ti ha messo al mondo è
il senso di vita più indistruttibile esistente.
Ryan si era sentito così, guardandola.
Aveva deciso che avrebbe lottato per lei.
Fece di tutto e alla fine vinse lui, come forse era
naturale.
Passarono momenti intensi e felici, la piccola Shadie,
cresciuta da uno come Ryan, divenne sempre più interessante ed affascinante,
con un mondo fantasioso da scoprire, che rivelava solo al padre, una semplicità
disarmanti e quel modo di essere
particolare, come un diamante allo stato grezzo, lo stesso che era stato
Ryan da ragazzino.
Questo, tuttavia, non spiegava perché assumesse ancora delle sostanze stupefacenti.
Quei viaggi gli servivano ancora, per non farsi domande
serie, per rimanere quel personaggio costruito anni fa sulla sua stessa
essenza, quando ancora menefreghista faceva continui
errori, quando la gente si rifletteva in lui e si sentiva meglio,
pensando che se Ryan era così, anche loro
potevano andare avanti.
Un simbolo, qualcuno che senza quell’immagine da ‘cattivo’
non sarebbe stato nessuno. O meglio, solo uno come tanti che faceva la sua
musica.
Era indispensabile fingere che tutto fosse ancora così, che
a sua figlia le arrivasse il suo amore, lei aveva fatto molto per lui, gli
aveva dato tanto e se era cresciuto come uomo, lo doveva a lei, perché avrebbe
fatto tutto per non farla piangere, ma poteva ancora
dire che le cose erano così?
Era cresciuto come uomo? ERA un uomo?
Sentendosi sporco e a terra, fuggiva da quello stato
d’animo, fuggiva dal rapporto con la sua adorata piccola Shadie, che mutava sempre più in qualcosa che non voleva riconoscere come reale.
La sentenza della corte federale gli arrivò in uno di quei
momenti d’assenza mentale.
Cosa c’era mai scritto? Cosa significavano le parole? ‘Non è
più in grado di occuparsi di sua figlia? Intossicazione? Verrà affidata alla
madre? ‘.
Cosa significavano quelle parole che marchiavano quel
dannato foglio bianco?
Cominciò a tremare. Di rabbia? Di qualche crisi per la
droga? Per la confusione? Per l’insieme di tutto
questo?
Gli occhi gli bruciavano e si appannavano, non riusciva a
vederci più bene e le parole divennero pressoché illeggibili, il suo
temperamento normalmente iracondo, non fece fuoco e fiamme subito, in quello
stato pericoloso fece una corsa a rotta di collo con l’auto provocando un
incidente del quale nemmeno si accorse, arrivò allo studio del suo manager e
gli porse la lettera, aveva gli occhi arrossati e
una cera spaventosa, era livido di rabbia, ma
la mente appannata dal recente uso di
sostanze stupefacenti, voleva sentirsi dire cosa c’era scritto in quel foglio.
Quando l’uomo che lo conosceva bene, lesse la sentenza che
gli porgeva Ryan, gli spiegò che sua moglie tornava a portarle via Shadie
perché l’avevano scoperto ad impasticcarsi o fumarsi qualcosa di pesante, la
sua reazione fu devastante, il trattenersi andò lontano, e come se avesse il
diavolo negli occhi, irriconoscibile, peggio del solito, diede pugni alla casa
e ai mobili ferendosi un po’ lui stesso.
Urlò molto forte
- QUELLA PUTTANA! ME LA PAGA! L’HA FATTO DI NUOVO! IO LA
AMMAZZO! MI HA PORTATO VIA MIA FIGLIA!-
Sembrava impossibile fermarlo.
Gridò diverse volte quelle parole e il suo manager ascoltò
paziente come un padre.
Mentre lui spaccava oggetti, l’uomo prese a parlare calmo e freddo:
- Secondo quanto c’è scritto qui, l’hanno già portata via,
tu non ti sei nemmeno accorto che non era in casa?-
- QUELLA STRONZA NON DOVEVA FARMELO! LA UCCIDO!-
- Io credo che la colpa non sia sua,
ma che finalmente ha fatto quello che doveva. Se c’è qualcuno da uccidere,
quello sei tu: avanti, Ryan, ucciditi qui. Lo dovresti fare, sai, sarebbe
giusto, secondo quello che dici.-
Il cantante captò a pezzi il suo discorso, aveva di certo coraggio, per dirgli una cosa del genere.
Con le buone non era mai andato bene e lo dimostrava tutte le volte che in passato l’aveva trattato con riguardo.
Si bloccò come in un fermo
immagine e ad occhi sbarrati lo fissò
avvicinandosi, lo prese di scatto per il collo
della maglia, lo spinse contro il muro e con forza disse: - Che cazzo hai
detto?-
Ansante riprese a parlare:
- Ryan, apri gli occhi. Ti ho portato io fin qua, ti ho
visto diventare quello che sei, ti ho visto
rovinarti con le tue mani e allontanare quanto avevi
di più prezioso. Di chi credi sia la colpa di tutto questo? Non mi interessa cosa fai della tua vita, mi interessa solo che tu faccia
quello che ci porta al successo…-
Mentre parlava, il giovane allentava sempre più la stretta
cominciando a capire, cambiando lentamente
espressione.
- …ora però smettila di vivere in un mondo finto. Se tenevi
veramente a quanto avevi ottenuto lottando, perché poi hai continuato a
drogarti?-
Una domanda piatta, diretta, vera. Il primo dialogo dei due,
le prime parole oneste che Ryan stesso riceveva in generale, tutti sempre
preoccupati a trattarlo coi guanti di velluto.
Fu come se cadesse per non sentire più nulla, diventare
sordo, rimase con le mani serrate sulla maglia dell’altro, ma lo sguardo come
sotto shock volò in luoghi sconosciuti, memorie perdute, momenti dimenticati,
rivisse quei momenti in cui prendeva ‘quelle cose’, spesso tanto per fare,
altre per non crollare.
Cominciò nuovamente a tremare mentre pian piano tornava al
mondo.
Affannato lo lasciò andare,
lo sguardo azzurro era vuoto, non vedeva chi aveva dinnanzi, come un automa
fece qualche passo indietro.
Non era sempre stato così.
No…
Quando aveva dimenticato come si faceva la musica? Quando
aveva sporcato la SUA?
Cosa era accaduto nella sua vita per farlo perdere in quel
modo, fagli sfuggire di mano tutto quello che aveva…e lui, solo lui, come se
avesse fatto il possibile per farselo scappare, l’aveva lasciato andare, quel
‘tutto’.
L’aveva visto andarsene ed
aveva quasi esultato. Dopo al momento della mancanza concreta si era svegliato
da quel torpore, Alzò lo sguardo trovandosi davanti ad uno specchio, mosse
qualche passo verso di esso e vide. La figura di un
ragazzo vestito con abiti larghi e firmati, un
espressione aliena in volto e una fama che lo superava.
Era un estraneo. Era un idiota che si era rovinato, era solo
colpa sua.
Si fece schifo, in un
impeto di rabbia, ulteriore, si sentì schiaffeggiare assieme alla realtà che
violenta e cruda l’aveva colpito. Finalmente aveva visto, senza riuscire a
scappare fece l’unica cosa che poteva fare in quel
momento: distruggere quell’immagine che lo faceva star male.
Diede un pugno allo specchio facendolo andare in pezzi e con lui la sua immagine, si ferì la mano, non sentiva nulla, se non un grande dolore che gli cresceva
dentro al cuore.
Si sentiva freddo e vuoto, un vuoto che, lo sapeva, non
avrebbe potuto colmare con nessuna sostanza.
Si coprì il volto con le mani, accasciandosi a terra.
Voleva sparire.
Quando si arriva a questo punto,
il punto di rottura, ci si rende conto che c’è un obbligo, una scelta da fare.
Non si liquida col crescere. Non si tratta solo di quello.
C’è un onore quando si nasce, questo onore consiste nel far
sì che non abbiamo rimpianti in nessun momento della nostra vita, ma che
soprattutto meritiamo rispetto e fiducia.
Questo onore va vissuto fino in fondo con coscienza, quando
si sente il bisogno di rivitalizzarlo e portarlo a galla si possono rimediare
agli errori, crescere e diventare qualcuno, quello per cui noi nasciamo.
Essere uomini.
Fu per questo che Ryan, successivamente, si iscrisse in una
clinica di disintossicazione, si prese una pausa dalla musica per riscoprirla ma soprattutto per ritrovare se stesso e per riscoprirsi
come uomo, che con le proprie debolezze e fragilità sbaglia, ma che cade e si rialza, senza più nascondersi.
Lasciò la scena per quel periodo della sua vita, con una
canzone che fece un suo nuovo successo, maggiore al precedente, spiegava perché
doveva ritrovarsi.
Lo fece per le uniche cose veramente pure nella sua vita.
Sua figlia e la musica.
FINE