Quando il fuoco non scotta e
il ghiaccio non gela.
Fuoco.
Non
cercherai tra le tue mani acqua
per
spegnere gli altrui fuochi,
se
neppure dei tuoi potrai contener fiamma,
ma
nemmeno ne alimenterai ardore,
perché
di quel fuoco ti sarà ben noto il dolore.
Cleonice
Parisi
-Pronti tutti e due?-.
Bryan dovette urlare
per sovrastare i forti ruggiti dei motori, ma anche sforzando al
massimo la voce, quasi nessuno lo sentì.
Poco importava,
però, dato che era ovvio che tutti e due fossero pronti, che
domande.
Quando hai un piede
piantato sull'acceleratore e l'altro lì per lasciare il
pedale del freno per buttarti a tutta velocità in un
frontale contro tuo avversario, o sali in macchina già
pronto, o puoi pure startene a casa col culo sul divano.
Le regole erano
semplici: chi se la faceva sul sedile prima dell'altro e frenava,
perdeva.
Chi invece vinceva, si
beccava donne, fama, onore e anche un bel po' di bigliettoni.
E per uno che
scialacquava tutto in componenti per auto e moto, qualche bel dollaro
frusciante non faceva mai schifo.
Ma non era questo che
lo spingeva a gareggiare, no. Era quello che sentiva dentro quando
stringeva con le mani il volante della sua Viper viola e verde lime
ottimizzata e modificata di tutto punto.
E poi... la notte.
La notte era la parte
della giornata che preferiva.
Di notte poteva essere
se stesso: nessuna regola, nessuna inibizione e soprattutto nessun
riguardo verso i suoi problemi di salute, che venivano del tutto
accantonati.
Perchè non
erano importanti quando, prendendo velocità, le luci della
notte si fondevano tra loro tramutandosi in lunghe linee saettanti,
quando il motore lo sentiva ruggire attraverso la propria pelle a tutti
i giri che gli era possibile tenere.
Il cuore, nemmeno lo
sentiva, no. Il suo cuore così fragile poteva andare a farsi
fottere mentre correva assieme alla sua "principessa", come gli piaceva
chiamarla. E dire che tra tutti i divertimenti e le passioni che poteva
andarsi a scegliere, quella delle corse clandestine era davvero la meno
indicata per chi era meglio che non si sottoponesse ad emozioni troppo
forti.
Ma l'adrenalina che
sentiva scorrergli dentro e le farfalle allo stomaco di eccitazione
valevano tutti i rischi che correva non appena il piede cominciava a
pesare sull'acceleratore. Vedere le forme scomparire in bande colorate
indistinguibili e sentire il vento forte entrare dai finestrini, gli
urti inaspettati (e a volte cercati), le scorciatoie improvvisate, i
pedoni evitati per un soffio e gli sbirri seminati tante di quelle
volte che ormai aveva perso il conto, erano per lui il suo pane
quotidiano. Amen. Era una fede la sua. C'è chi prega, e
c'è chi corre, lui li metteva sullo stesso piano, ecco.
Adorava correre sulle
strade a spirale della collina illuminate solo dai suoi fari blu,
apprezzando l'effetto sorpresa delle curve inaspettate nascoste dal buio e quello di non riuscire a scorgere chi gli stava davanti se
non al momento del sorpasso; ma adorava ancora di più
correre in città, in mezzo alle insegne psichedeliche, alle
vetrine dei negozi e ai viali alberati, alle luci abbaglianti, al
traffico, alla vita.
Perchè lui
la sfidava, consapevole, e voleva farlo mentre quella assisteva seduta
sugli spalti: rischiare la vita beffandosi di lei era un lusso che gli
piaceva permettersi, e faceva poco per risparmiarselo,
perchè avreste dovuto vederlo, come correva.
“Kamikaze" era l’ aggettivo con cui lo avevano
descritto più spesso: evidentemente non gli bastava dare
solamente forti colpi alla sua malattia, perchè la cosa che
lo esaltava di più era buttarsi a capofitto in azioni
suicide di quelle con davvero un'alta probabilità di
successo.
E per successo si
intende quello di suicido, è chiaro: sempre secondo a
frenare nei frontali, record di maggiori incidenti sia procurati sia
subiti e record di minor centimetri di sfioramento con altre vetture;
senza contare che il più alto numero di vittorie su gare a
circuito era il suo.
Pazzo, non c'erano
dubbi.
E, fondamentalmente,
era anche per questo che era il più forte.
-...Sei il
più forte, tesoro.-.
Appunto.
Ma non c'era bisogno
che glielo soffiasse all'orecchio la puttanella di turno, che si era
appoggiata a braccia incrociate sopra il finestrino abbassato e della
quale non riusciva mai a mettersi in testa il nome, per ricordarglielo.
Lui nemmeno la
degnò di uno sguardo, troppo concentrato a tenere gli occhi
fissi sull'avversario a centocinquanta di metri di distanza, famelico,
come il più spietato dei predatori: c'era Marcus dei Silver
Rocks nell'altra auto, una Nissan Skyline gt gialla canarino e famosa
in tutta la California per raggiungere i centotrenta in quattro secondi
netti. Era un altro che la testa se l'era bevuta con l'acido,
avversario perfetto: senza cognizione della realtà.
-E sono Charlene,
stronzo, giusto perchè non ti ricordi mai.-.
Appunto.
C'era quel sesto
senso, nelle donne, quella capacità di leggere nel pensiero
che lo stupiva sempre. Anche se, a pensarci bene, per rendersi conto
che l'uomo che ti cerca unicamente per scoparti quando più
gli aggrada non si ricorda il tuo nome, non è che ci voglia
poi tutto questo grande intuito.
Vedendo che lo
"stronzo" si era messo a sorridere eccitato e rendendosi subito conto
che di certo non si stava rivolgendo a lei, ma al pensiero della
partenza imminente, Charlene girò i tacchi (nel vero senso
della parola: 16 genuini centimetri) e si allontanò
ancheggiando dalla vettura, bofonchiando tra sè e
sè una cosa simile a: -Ma tu guarda 'sto pezzo di merda.-.
Lo diceva tutte le
volte, e non lo pensava mai veramente; nemmeno adesso,
perchè altrimenti non si sarebbe tirata su la gonna aderente
e già cortissima con un gesto fintamente noncurante, per
regalargli una vista che, se possibile, lasciava ancor meno spazio
all’immaginazione.
E a quello, bisogna
dire, la coda dell'occhio ce l'aveva buttata.
Ah, Charlene! La
più bella del giro, e lui doveva solo compiere la fatica di
uno squillo per averla tutta per sè.
Questi i vantaggi
dell'essere il pilota imbattuto di Los Angeles.
Ed era il momento di
dimostrarlo per l'ennesima volta.
Si beò
degli ultimi secondi prima della partenza: le urla dei ragazzi, le
vibrazioni dell'auto, i muscoli delle proprie gambe e braccia tesi allo
spasmo per reagire il più veloci possibile, Melissa che
reggeva la bandiera ancora ferma a metà del tragitto di gara.
Nonostante avesse
vissuto quei momenti mille e mille volte, l'attesa prima della partenza
ancora gli faceva quasi uscire fuori il cuore dal petto. E il che non
era proprio una buona cosa, insomma.
-Forza, piccola. Fai
la brava.- Parlava alla propria macchina, sì. E la
accarezzava anche, talvolta. Charlene si imbestialiva vedendo che
l'auto veniva coccolata molto più di lei. Povera Charlene.
Il chiasso si
intensificò, si cominciava.
Tre.
Due.
Uno.
Melissa
agitò la bandiera e si tolse subito dalla traiettoria.
Entrambi i piloti
abbandonarono il freno, e le ruote sgommarono rumorosamente a terra
prima che le macchine partissero a tutta velocità una contro
l'altra.
Lui non staccava gli
occhi da quelli ancora lontani di Marcus, sempre armato di quello
strano sorriso che un po' inquietava, e tenendo salda la presa sul
volante per non perdere il controllo dell'auto a quelle
velocità folli.
Ottanta metri
La lancetta sul
tachimetro saliva sempre di più.
Quaranta metri
Velocità
costante, il piede ancora lontano dal pedale del freno.
Trenta metri.
-Forza, Marcus. Fammi
vedere che non sei il cagasotto che penso.- Dentro di sè
sperava che l'altro ancora non si facesse venire in mente l'idea di
frenare, perchè quello era vivere, quello era vivere senza
che la vita ti avesse dato il permesso.
Venti metri.
Quindici metri.
E un rumore
fastidiosamente acuto e stridulo decretò la sua vittoria:
Marcus aveva inchiodato, aiutandosi con il freno a mano e riuscendo a
fermarsi senza compiere un testa coda completo a nove-otto metri dalla
macchina dell'altro.
Non appena ebbe
appurato della propria vittoria, lui rallentò e
sterzò per frenare fuori dalla traiettoria, superando la
macchina di Marcus.
Il boato di
acclamazioni arrivò subito dopo.
Si concesse giusto
pochi secondi, quelli necessari per abbandonarsi contro lo schienale e
fare due bei respiri per recuperare un po' d'aria, tenendo gli occhi
chiusi; si passò la mano sulla fronte imperlata di sudore,
poi uscì dalla sua Viper con le braccia alzate cosparse di
tatuaggi, sorridendo sornione, per accogliere i meritati festeggiamenti.
In men che non si dica
fu circondato da una folla di osannatori e strusciato da quattro cinque
ragazze.
-Anche stavolta
t'è andata bene, Kamikaze da due soldi!-.
Marcus, circondato
dalla sua crew, sbraitava con una gamba a terra e l'altra ancora dentro
la Nissan, il braccio appoggiato allo sportello aperto -Ma non ci
contare per la prossima volta!- concluse alzando in bella vista il dito
medio e poi sparì all'interno della vettura imitato dai
compari, per poi darsela a gambe tutti insieme in un bella sinfonia di
sgommate e accelerazioni.
Il vincitore se la
rise di gusto, avendo perso il conto di quante volte aveva sentito
quella tipica minaccia campata in aria, pronunciata dal perdente di
turno.
-Una nuova vittoria
per il "Kamikaze!"- allargò le braccia, facendo bella mostra
di sè, e poi le utilizzò per stringersi addosso
due delle ragazze che gli erano intorno.
-Bello spettacolo pure
stavolta!- esclamò qualcuno rifilandogli una pacca sulla
spalla sudata lasciata quasi del tutto nuda dalla canottiera.
-Il Dio dell'asfalto!-
fece qualcun altro.
Il Dio dell'asfalto.
Se ne era presi tanti
di stupidi nomignoli, ma era la prima volta che, nel sentirne uno
nuovo, provava una fitta allo stomaco. Si concentrò su quel
paragone, mentre il sorriso scemava dal suo volto.
Un Dio.
Il silenzio dentro di
sè si fece ancora più assordante del trambusto
esterno, ovattandolo.
Bryan lo scosse per un
braccio, chiedendosi perchè se ne stesse immobile e in
silenzio a fissare il vuoto.
Samantha si
preoccupò per il suo cuore assieme a Jessica, le quali lo
strinsero forte.
Sfidare la morte quasi
tutte le sere era davvero quello che voleva, in fondo?
Era onnipotente, un
Dio in terra sempre in bilico tra la vita e la morte, ma allo stesso
tempo immune ad essa.
Era per la sua
abilità, certo, ma era anche e soprattutto per una grande
quantità di fortuna.
Era ancora
lì, in piedi a raccontare le sue vittorie, ma quando sarebbe
durato?
Una vite stretta male,
il NOS installato nella maniera sbagliata, una macchia d'olio a terra,
senza contare la sua salute così fragile: bastava una
stronzata e puf, tanti saluti.
Forse era questo
ciò che voleva e che pareva andasse cercando in tutti i
modi; perchè probabilmente, il motivo inconscio per cui si
era tuffato con tutto se stesso in quel tipo di vita era uno solo: non
era destinato a vivere a lungo per via della sua malattia, e se proprio
doveva andarsene, voleva farlo decidendo lui in che modo e in quale
posto, correndo dentro una macchina o sopra una moto, e non a frignare
nel divano di casa o in un letto d'ospedale. Cose che però
ebbero troppo poco tempo per frullargli in testa e poter prendere
forma, perchè alle loro spalle cominciò a urlare
una sirena assordante che i piloti e il resto della crew conoscevano
bene.
Sbirri.
-Tutti via!-
gridò Charlene correndo verso la sua auto e venendo imitata
immediatamente da tutti gli altri, mentre le guardie erano ormai
arrivate.
Lasciato solo e
tornato bruscamente alla realtà, si fiondò in
macchina e lasciò immediatamente Downey street prendendo la
direzione opposta con un testa coda da fermo.
-Fottuti sbirri.-.
***
Ghiaccio.
Ha
occhi di ghiaccio
e
di ghiaccio le mani
ha
un cuore freddo
freddo
gelato
la
neve è un bambino
che
non si è mai svegliato.
Vivian
Lamarque
-Molto bene, signor
Arnaud , molto bene.-.
Vedeva gli occhi del
professor La Fleur brillare di soddisfazione.
D'altronde lo aveva
appena deliziato con un esame perfetto.
Tirò fuori
il libretto universitario e lo porse al docente, sorridendo leggero ed
educato mentre seguiva con gli occhi la punta della penna che lasciava
scritto con enfasi sullo spazio apposito un bel trenta e lode
decisamente marcato, seguito dalla firma del professore.
Lui chiuse il libretto
e lo porse al suo studente preferito, ma non appena questo
allungò la mano per afferrarlo, lo ritirò
indietro, come se avesse lasciato qualcosa in sospeso.
-Degel.- Non erano
poche, le volte in cui lo chiamava semplicemente per nome e gli dava
del tu; a dir la verità, lo faceva sempre all'infuori delle
questioni ufficiali o burocratiche. -Voglio che non tenga la tua mente
solo per me e quest'università...-.
Degel
ritirò la mano, fissandolo interrogativo, anche se in
qualche modo immaginava dove il professore volesse andare a parare.
-Ho idea di
trasferirti per un po' in un progetto importante all'estero.-
Tombola. Era
l'occasione che aspettava.
Degel
mostrò il suo entusiasmo con il solito contegno aggraziato,
tirando solo un po' le labbra verso gli zigomi. -Di che si tratta?-
chiese.
-Ancora non so. Devo
valutare un po' di cose, sentire un po' di persone, decidere quale tra
le cose che ho sottomano è la più adatta per te.-.
Il ragazzo
annuì, afferrando il libretto che finalmente l'altro aveva
deciso di rendergli.
-Ti farò
sapere il prima possibile.-.
Degel
ringraziò, si alzò dalla sedia dopo aver
recuperato la propria cartella e uscì dalla grande aula dal
profumo di legno vecchio, ritrovandosi per i corridoi della
facoltà di Medicina della Sorbonne.
Camminava col suo
cipiglio elegante, e forse un tantino più snob del solito,
ora che era appena venuto a conoscenza di una bella notizia, e non
passava di certo inosservato tra gli altri studenti.
Chi non si voltava
quando i propri occhi adocchiavano Degel Arnaud? Lo studente che
spiccava per la sua brillantezza in ogni corso che si trovasse a
frequentare; intelligente fuori la norma, di famiglia ricca,
già un anno avanti rispetto a quello accademico ordinario,
media di trenta trentesimi, e una quantità ingente di
partecipazioni e collaborazioni ai più illustri e importanti
convegni universitari.
Qualcuno lo stimava,
molti lo odiavano. E di certo non si sforzava di far cambiare le cose,
lui che era consapevole della sua superiorità intellettuale
e donava l'onore della sua parola solo ai pochi eletti che riuscivano a
stimolarla.
Ma c'era pure chi gli
puntava gli occhi addosso semplicemente perchè era bello da
impazzire, con quei capelli chiari, quello sguardo di ghiaccio, quel
viso dai lineamenti perfetti e gli abiti appena usciti da atelier
famosi di prete a porter.
Raggiunse il cortile
principale, riflettendo sulla proposta del professore: "più
adatta a te", aveva detto. Sicuramente sarebbe stato mandato, che so,
in Italia, o meglio ancora negli Stati Uniti, dove si disponeva di
attrezzature all'avanguardia e la ricerca era ben finanziata, e
là, grazie anche all'influenza di La Fleur, medico e
ricercatore conosciuto in tutto il globo, avrebbe di certo collaborato
con un'equipe medica delle più prestigiose. Sì,
senza dubbio si sarebbe trattata di una cosa sensazionale, degna
dell'ammirazione che il docente nutriva per lui e, soprattutto, degna
di una mente come la sua.
-Degel!-
Degel
arrestò i propri passi, voltandosi in direzione di quella
voce che conosceva bene.
-Michelle.-
salutò il ragazzo che gli era appena corso incontro
semplicemente pronunciando il suo nome. Poi, nell'attendere di sentire
ciò che Michelle aveva da dirgli, non nascose la sua
insofferenza con un rumoroso sospiro e un roteare d'occhi, dato che
quello al momento stava riprendendo il fiato perso nella corsa,
annaspando con la schiena piegata e le mani poggiate sulle ginocchia.
-Allora?- lo
incalzò, non senza una certa scontrosità.
Michelle
ridacchiò e rizzò il busto, e Degel gli tenne gli
occhi addosso, constatando con rammarico che indossava gli stessi
vestiti da cinque giorni: un paio di jeans di sei-sette taglie
più del necessario, una maglietta rossa con su stampato un
baloon giallo e la scritta "Mazinga!", e una camiciona a quadri blu e
bianca, sbottonata. Indumenti da trogloditi, e lui troglodita di
conseguenza: capelli rossi tutti spettinati, viso paffuto pieno di
lentiggini e le labbra perennemente tirate in un sorrisetto da ebete.
Strano quindi, che
Degel fosse interessato a sentire parole da quello lì; cosa
che invece non risultava poi così insolita se non ci si
dimenticava di considerare il tratto fondamentale del carattere dello
studente: l'essere cinico.
Lui dava ripetizioni a
Michelle in quei pochi corsi che riusciva a frequentare durante l'anno,
e Michelle in cambio gli faceva da complice: era il suo principale
attuatore di piani e fornitore di informazioni, e non che la cosa gli
dispiacesse: con Degel e le sue richieste sembrava sempre di stare
dentro un film di 007.
Finalmente il rosso si
decise a parlare, e guardò Degel con un cipiglio
soddisfatto, alzando un sopracciglio d’intesa: -Monsieur
Arnaud- cominciò, emulando tono e movimenti giocosamente
formali –sono lieto di informarla che le manovre eseguite
hanno portato i successi sperati.-.
Anche Degel
inarcò un sopracciglio, ma il suo, anzichè un
richiamo di complicità, pareva più un invito per
Michelle a farla finita coi suoi giochetti e a sbrigarsi a sputare
fuori il rospo per non fargli perdere altro prezioso tempo.
-D'accordo, d'accordo-
sghignazzò il ragazzo ponendo le mani avanti –Il
tipografo che abbiamo ormai dalla nostra è riuscito come
sempre a cambiare per lo meno la cifra che bastava, ma la cosa che ti
manderà fuori di testa è sapere che Claude
è riuscito ad entrare nel sistema delle segreterie..- fece
una piccola pausa, tanto per dare maggior enfasi alle proprie parole e
per prendersi il tempo di gonfiare di soddisfazione i propri ben miseri
pettorali -.. cambiando la data anche lì. Certo, ci abbiamo
messo un bel po’, quelli sono a prova di scasso, ma non
è stato difficile dopo aver effettuato il colpo informatico
del secolo.-.
Degel storse il naso,
scettico. –E cioè?-.
-Ah!- Michelle
cacciò un urlo e spalancò gli occhi, quasi fosse
adirato dal fatto che l’altro non capisse una cosa a parer
suo così scontata –Quel mio compare genio della
rete di cui ti ho tanto parlato, Claude… e non annuire
perché tanto so che non te lo ricordi… quello che
passa le sue giornate a fare l’haker, beh due sere fa
è riuscito a creare e ad attaccare il sistema delle
segreterie con uno spyware o un backdoor non saprei, le cui
caratteristiche non te le sto nemmeno a spiegare, ma ti basti sapere
che è riuscito a mandare tutto in tilt per ben due secondi
netti, cosa che non riuscirebbe nemmeno a Bill Gates in persona!- aveva
cominciato ad agitare le braccia, in preda all’eccitazione.
Degel sospirò, ma non lo interruppe. –...Troppo
pochi per permettere a quelli lì di accorgersene, ma
abbastanza per portare a termine il compito.
-Claude non ha dovuto
fare altro che utilizzare uno dei suoi aggeggi da Matrix ed estrapolare
la password per entrare da utenti nel sistema dati. Ti lascio
immaginare il resto.- Concluse infine con un sorriso a trentadue denti,
estraendo dalla tasca quello che aveva tutta l’impressione di
essere un libretto universitario dalla copertina in pelle blu notte e
lo porse a l’altro, il quale lo afferrò con un
impeto che gli si confaceva davvero poco. -Per cui da adesso in poi
credo che non avremo più problemi, trovato questo nuovo
metodo, Degel-.
D’accordo,
magari Michelle sarà pure stato un troglodita, ma in quanto
a imbrogli e cacce al tesoro, a lui e alla sua combriccola di svitati
non li batteva nessuno.
Sinceramente, se si
fosse impegnato a tal proposito, con buone probabilità Degel
sarebbe riuscito nell’intento anche da solo, senza
l’aiuto di esaltati informatici. Ma lui era uno da carta e
penna, si sapeva.
Il ragazzo
aprì il libretto e fece scorrere gli occhi avidi su cosa
c’era scritto: Degel Arnaud, 4 febbraio 1986, quelle erano le
sue generalità, non c’era niente di nuovo in
quelle prime pagine, così sfogliò velocemente le
altre, fino ad arrivare più o meno a metà. Quando
lesse ciò che gli interessava, non trattenne un sorriso
soddisfatto; fece schioccare tra loro le due metà del
fascicoletto con un energico chiudere di palmo e lo ripose con cura
nella tasca posteriore dei jeans.
-Ottimo lavoro-. Disse
solo questo al complice, voltandogli le spalle e tornando sui passi dai
quali Michelle lo aveva interrotto.
Il rosso
allargò le braccia e scosse la testa di esasperazione
-Magari un grazie, eh!- sbuffò una vana protesta che si
limitò a rimbalzare contro la schiena dell’altro
che continuava ad allontanarsi imperterrita. Rimase lì
immobile per qualche secondo, poi portò una mano a
spettinarsi ulteriormente i capelli e sghignazzò divertito,
lasciando scemare anche la minima traccia di turbamento nel suo volto.
–Degel Arnaud, non cambierai mai.- Così si
incamminò nella direzione dalla quale era arrivato,
fischiettando uno stonatissimo motivetto della sigla di un qualche
cartone animato giapponese dei tempi andati.
Mentre attraversava il
verdissimo prato quotidianamente curato da laboriosi giardinieri e
cosparso da studenti spensierati, non riusciva a non pensare alla firma
del professore letta nel libretto ricevuto pochi attimi prima, accanto
al voto d’esame ottenuto lo scorso lunedì, e a
quella che era la data appena fatta modificare con successo dai suoi
complici: 24 aprile 2020.
29/30. Esame di glottologia germanica. Non gli servì leggere
anche le correzioni apportate agli altri esami, si fidava.
E non si trattenne nel
nascondere un ghigno compiaciuto per la vittoria ottenuta, sornione,
ora che i suoi esami di lettere
classiche erano stati resi perfettamente legali dalla
semplicissima sostituzione di una cifra.
Quindi dicevamo di
Degel Arnaud: ragazzo intelligente fuori la norma, di famiglia ricca,
già un anno avanti rispetto all'anno accademico ordinario,
media di trenta trentesimi, una quantità ingente di
partecipazioni e collaborazioni ai più illustri e importanti
convegni universitari, e, stavamo per dimenticarcelo, unico studente a potersi vantare
di riuscire a frequentare contemporaneamente e con invidiabile successo
due differenti corsi di laurea.
Uscì dalle
mura universitarie, diretto verso la metro. Proprio quando
cominciò a far sera, varcò la soglia di casa sua,
un superattico al centro di Parigi gentilmente acquistato da genitori
ricconi, dalle quali grandi finestre poteva godere della più
bella delle viste che offrivano gli alti palazzi parigini. A ore
dodici, la Tour Eiffel già tutta illuminata in lontananza,
tanto per dirne una.
Poggiò la
cartella sul grande divano nero, e liberò dalle asole i
primi due bottoni della camicia chiara, diretto verso il suo studio;
era una grande stanza nella quale più di tutti si sentiva a
proprio agio e l'unica arredata con mobili in stile antico (il resto
dell'appartamento era sobrio e moderno): una libreria di ebano che
copriva tutta la parete di destra sia di altezza che di lunghezza, una
grossa poltrona rossa di velluto stile ottocento e una pesante
scrivania in ciliegio di faccia alla porta, su cui vi erano poggiati i
più svariati e pregiati accessori del mestiere, tipo taglia
carte in oro zecchino, fogli scritti in calligrafia invidiabile e tutti
riposti ordinatamente agende piene zeppe di impegni, penne
stilografiche di tutti i generi e qualche volume sottratto alla
libreria ancora in fase di lettura o di studio.
Si
abbandonò sulla sedia di velluto e legno dietro la
scrivania, fissando davanti a sè; gli capitava spesso di
assentarsi in quel modo, ultimamente.
Se ne stava
lì seduto con gli occhi puntati sulla porta, ma senza
guardare per davvero.
-Sei felice?- le aveva
chiesto una volta Corinne, sua sorella maggiore, e l'unica persona che
poteva chiamare amica; per lei provava il più genuino e
assoluto degli affetti, senza secondi fini, senza motivazioni.
Era venuta qualche
settimana fa a trovarlo lì, e senza informarlo del proprio
arrivo, come al solito, così da spaventarlo per gioco:
Corinne era l'opposto di Degel, affettuosa, chiacchierona, e forse un
po' troppo vivace; se Degel era motivo d'orgoglio per i genitori, lei
lo era di disperazione, in primis per il fatto che aveva deciso di
abbandonare gli studi poco prima del conseguimento della
maturità ed investire i soldi che stava mettendo da parte
già da qualche anno per intraprendere la carriera di
pasticcera. Degel ricordava bene quel periodo: frequentava ancora le
scuole medie, e un giorno, tornato a casa da scuola, trovò i
genitori a litigare violentemente con la sorella, la quale li aveva
appena informati della decisione presa. Sua madre piangeva, suo padre
sbraitava come un ossesso, talmente rosso in faccia e gonfio
più i quanto già non fosse, che Degel si tenne
pronto per chiamare il pronto soccorso.
-Perchè?!
Dimmi, Corinne, perchè?!- urlava in faccia alla figlia
agitandole le mani davanti e sputacchiandole pure qualche schizzo di
saliva, tanto aveva perso il controllo di sè. -Non ti
abbiamo fatto mancare nulla e ora ci fai questo?! Una pasticcera, ah!
Parleranno della famiglia Arnaud con il peggiore dei disgusti!-.
-Che me ne frega della
famiglia Arnaud!- rispose a tono la ragazza, all'epoca diciassettenne
ma già con le idee chiare. -Sono stufa di vivere sotto
l'ombra della famiglia! Voglio prendere e la mia strada e lo
farò!-.
Quelle parole avevano
decretato la fine della discussione, perchè lei s'era presa
un bello sganassone in faccia ed era corsa via da casa sbattendo la
porta.
Tornò
lì il giorno dopo a fare le valige, con un occhio tutto
illividito, e abbracciò forte Degel, sussurrandogli
all'orecchio che ce l'aveva solo coi genitori e che lo amava
tantissimo, poi sparì per non tornare più.
Frequentò
la sua agognata scuola di pasticceria e dopo aver lavorato qualche anno
alle dipendenze di un gelataio famoso, riuscì ad aprire un
locale proprio.
Ad oggi era una delle
più celebri e capaci cucina-inventa-dolci della
città, senza contare che il suo "Les gourmandise", era uno
dei locali più in di Parigi; nonostante i suoi successi,
però, ancora con i genitori non parlava, se non per
scambiarsi gli auguri delle festività religiose.
Degel al contrario
frequentava spesso Les gourmandise e riceveva molte volte a casa le
visite della sorella, la quale, in possesso di una copia delle chiavi
dell'appartamento, si divertiva a cogliere di sorpresa il fratellino,
stando ben attenta ad aprire la porta d'ingresso in silenzio e gettarsi
a braccia aperte verso di lui qualunque cosa stesse facendo, persino il
bagno.
Quando Corinne gli
pose quella fatidica domanda, Degel stava lavando i piatti, e al
sentirla uno gli scivolò dalle mani, impattando sugli altri
nel lavello.
-C..che hai detto?-
chiese sottovoce, voltando il capo verso di lei, seduta al tavolo alle
sue spalle.
-Ti ho chiesto se sei
felice.-.
Il ragazzo ci mise un
po' troppo a rispondere, per i gusti di Corinne. -Certo che sono
felice.-.
-Sicuro?-.
-Perchè me
lo chiedi?- Nemmeno lasciò stare la propria occupazione, per
darle l'impressione che quella domanda fosse talmente assurda e fuori
luogo da scivolargli addosso come acqua sul giaccio. Non c'è
bisogno di dire che in realtà lo aveva scosso parecchio.
-Sono già un anno avanti all'università e non mi
faccio mancare niente, cosa potrei volere di più?-.
Corinne
sbuffò gonfiando le guance e bofonchiò tra
sè e sè -E' proprio perchè ti manca
qualcosa, che te l'ho chiesto.-.
Degel fece finta di
non sentire, continuando ad armeggiare con le vettovaglie, ma quel
giorno non faceva che pensare a quella frase borbottata sommessamente e
tormentarsi riguardo al significato che poteva aver impiantato Corinne
in quelle strane parole.
Era per questo, forse,
che la notizia di una quasi certa partenza lo aveva rallegrato non
poco, confortandogli la mente con l'idea che sarebbe stato per un po'
lontano da Corinne e talmente preso dal nuovo, e quasi sicuramente
intenso, lavoro tanto da riuscire a stare lontano anche da quei
fastidiosi rimurginamenti.
Adesso,
però, seduto lì al proprio luogo di pensiero, non
faceva altro che porsi domande; a lui non mancava nulla, a cosa diavolo
si era riferita la sorella?
Per l'ennesima volta
non sopraggiunse nessuna risposta, ma stavolta perchè il
cellulare squillò attraverso la tasca dei jeans. Degel
serrò gli occhi stanchi e rispose, mentre con l'altra mano
massaggiava la radice del naso. -Pronto?-.
-Degel, sono il
professor La Fleur.-.
A Degel
mancò un battito. -Sì, mi dica.-.
-Ti
sembrerà strano, ma ho già deciso il posto in cui
andrai per il tuo stage.-.
Stavolta ne perse due,
di battiti. E schiarì la voce, per non lasciar trapelare
l'emozione. -La ringrazio per la celerità, professore.
Sarebbe?-.
-Los Angeles.-.
|