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Mornië en Amarth (L’Ombra del Futuro)
Dean conficcò la punta della spada nel terreno e si deterse il sudore dalla
fronte con un braccio, mentre l’altro si puntellava sull’elsa semplice ma
elegante della sua nuova arma. Sollevò lo sguardo e sorrise a Sam, che lo aveva
appena disarmato, ponendo fine all’allenamento. Erano entrambi a petto nudo ed
entrambi respiravano affannosamente, eppure Sam sembrava quasi non aver versato
una sola stilla di sudore, mentre lui sentiva gocce calde scorrergli dalla nuca
attraverso la schiena, solo per essere asciugate in rigagnoli gelidi dall’aria
frizzante della primavera appena iniziata.
Si raddrizzò e staccò la lama dal terreno per riporla nel suo fodero, prima di
andare a tendere la mano a Sam. L’Elfo gli afferrò brevemente il braccio, dopo
avere riposto anche la propria lunga e leggera daga elfica, quindi si voltò alla
propria sinistra, dove candidi gradini scolpiti nella pietra viva conducevano
alla porta che dava sulle armerie di Imladris. Attorno a loro, anche se un poco
discosti, giovani Elfi si allenavano, come loro, muovendosi sull’erba o tra gli
alberi con una leggerezza che li faceva quasi apparire come danzatori. I loro
corpi erano sottili, flessuosi e scattanti, velocissimi nei movimenti seppure
non forti come poteva esserlo un uomo. Dean sapeva di poter sconfiggere la gran
parte di quei giovani guerrieri in un corpo a corpo, avendo imparato negli anni
come battere la loro velocità con la propria forza, ma sapeva anche che uno
qualsiasi di loro avrebbe potuto ucciderlo con una freccia a cento piedi di
distanza, in una notte senza luna.
Sam allontanò la mano dal braccio di Dean e la guardò con un’espressione strana,
quasi perplessa, mentre sfregava tra loro tre dita.
“Sei appiccicoso” commentò, in un tono vagamente schifato e indubbiamente
ironico.
“Sono sudato” sbuffò Dean, fingendo indignazione “Non tutti possono uscire da un
combattimento come appena lavati e stirati” aggiunse, squadrando l’Elfo da capo
a piedi, con ironia.
“Il problema è che sei lento e goffo con quella spada, Dean” lo canzonò
allegramente Sam, mentre si avviava lentamente verso i gradini “E’ troppo
pesante per te?” continuò con un sorriso giocoso, soppesando distrattamente la
propria lama tra le dita.
“Ti ho solo lasciato vincere, lo sai Sammy” all’Elfo non piaceva quando lo
chiamava Sammy, lo aveva sempre irritato, per questo Dean non aveva mai smesso
di usare quel nomignolo “Avrei potuto disarmarti subito, ma dove sarebbe stato
il divertimento?” fare lo spaccone era divertente, ma Dean doveva ammettere che
non era abituato ad usare spade forgiate per gli uomini: erano più pesanti,
larghe e molto diverse da maneggiare.
“Smettila di fare lo spaccone, o farai una pessima figura con chi è venuto ad
ammirarti” lo ammonì Sam, facendo un cenno del capo in direzione dei gradini,
che ora si ergevano proprio di fronte a loro.
L’Elfo si scostò dal fratello adottivo con la scusa di recuperare la maglia che
aveva ordinatamente ripiegato a poggiato sull’erba, proprio accanto a dove stava
ammonticchiata, in una specie di grumo scomposto quella di Dean, ma non smise un
secondo di osservare i movimenti del ragazzo.
Dean sentì il consueto nodo alla gola e fastidiosa stretta di colpa al petto,
quando vide dama Lisa, avvolta in un lungo e vaporoso vestito color madre perla,
scendere con grazia la scala per fermarsi proprio davanti a lui. In quella
posizione, ferma sul primo gradino, Lisa poteva puntare il proprio sguardo scuro
negli occhi verdi del ragazzo dalla sua stessa altezza. Sorrise dolcemente,
alzando una mano per accarezzare il volto sudato del giovane uomo, prima di
parlare.
“Sei diventato un grande guerriero Dean. E del resto sei sempre stato un tenace
combattente…”
“Mia signora” replicò Dean, chinando il capo in un gesto di educato saluto “Non
dovresti avvicinarti, non sono presentabile” aggiunse, con voce vagamente
malferma, abbassando per un secondo lo sguardo sul proprio petto nudo ed
accaldato.
Era passato del tempo, avrebbe dovuto essere un esperto, ormai, a giocare a quel
gioco di sguardi e complimenti, ma continuava a sentirsi terribilmente in colpa
e tuttavia non riusciva in alcun modo a risolversi a mettere in chiaro le cose,
né con Lisa, né con nessuno che abitasse nella casa della sua infanzia. Portare
quel segreto lo stava uccidendo lentamente, e allo stesso tempo era l’unica cosa
che lo teneva in vita. La sua vita era davvero un bel casino.
“Non essere sciocco” ribatté immediatamente Lisa, seguendo senza ritegno, con
gli occhi, lo stesso percorso che aveva fatto lo sguardo di Dean sul suo corpo
“Tu sei sempre molto più che presentabile”
“E tu sei sempre troppo gentile, e troppo splendente perché i miei occhi possano
reggere la tua vista” così andava meglio, i complimenti gli erano sempre fluiti
naturali dalle labbra, come fosse nato appositamente per lusingare le signore.
Era per questo, probabilmente, che aveva subito avuto un discreto successo nelle
escursioni che aveva iniziato ad intraprendere, quando era solo un ragazzo,
insieme a Sam, oltre i confini di Imladris. Quando lasciare i domini e la
protezione del potere di sire John era ancora abbastanza sicuro per un ragazzo
di sedici anni.
Dean si riscosse da quei ricordi, che avevano fatto comparire sul suo volto un
sorriso non proprio adatto al corteggiamento di una dama di lignaggio come Lisa,
ma quando si trovò ad incrociare il marrone scuro dei suoi occhi sentì di nuovo
quel senso di colpa privarlo della voce. Per quanto tempo sarebbe potuto andare
avanti così?
Lisa gli scostò, con la punta delle dita, alcuni capelli umidi dalla tempia, e
quindi si avvicinò ulteriormente a lui come se volesse sussurrargli all’orecchio
un segreto fondamentale. Dean seguì il suo viso che si avvicinava e percepì il
suo profumo di fiori e pesche mature. Aveva lo stesso odore dolce di un frutteto
in estate, ma per quanto piacevole ed inebriante potesse essere la sua pelle,
non era quella che amava e che desiderava, non era il profumo che lo faceva
sentire sicuro, completo, a casa. Il ragazzo allontanò gli occhi dal viso della
splendida Elfa e, malgrado non avesse la vista acuta di un Eldar, scorse
l’inconfondibile figura di sire John osservarli da un terrazzo al piano
superiore, solo alcuni metri sopra di loro.
“C’è tuo padre” bisbigliò, in un soffio, mentre ancora sentiva Lisa avvicinarsi
lentamente a lui, percependo un certo sollievo quando pensò che quella frase
l’avrebbe probabilmente indotta ad allontanarsi.
Ma contro ogni suo pronostico, Lisa si limitò ad allargare il proprio sorriso.
Spostò la mano che gli aveva accarezzato la guancia sul suo petto, appena sotto
il collo, e posò una bacio rapido ma inequivocabile sulle sua labbra socchiuse
di stupore. Solo un secondo, poi si allontanò, superandolo per continuare a
camminare distrattamente fra gli Elfi che si allenavano, portando con sé il suo
profumo di estate.
Dean era ancora immobile, troppo sorpreso per capire davvero cosa fosse
successo, quando riuscì a riscuotersi fece scattare gli occhi verso l’alto, per
controllare la reazione che aveva avuto l’Elfo che aveva sempre chiamato padre,
ma sire John era già scomparso. Il ragazzo si morse un labbro, su cui sembrava
essere rimasto impigliato un leggero sapore di pesche, e strinse una mano
sull’elsa della propria spada bastarda, come se potesse trarne un qualche tipo
di forza.
“Presto nostro padre vorrà parlarti” la voce di Sam, e la sua mano poggiata
sulla spalla, lo riscossero dalle sue preoccupazioni, e Dean si voltò
velocemente verso di lui per guardarlo in faccia, ancora più sorpreso di prima.
“Per… questo?” domandò, fra il perplesso e il preoccupato.
Sam si era sempre comportato come fossero veramente fratelli: diceva ‘nostro’
padre, giocava, rideva e scherzava con lui mandando al diavolo il rigido
contegno e l’etichetta che manteneva diligentemente con tutti gli altri, perfino
Elfi che conosceva da sempre. Eppure, in quel momento Dean non poteva fallire
nel ricordare che sire John di Imladris non era veramente suo padre, solo un
gentile signore degli Elfi che aveva deciso di raccoglierlo e crescerlo sotto il
suo tetto. Lui non era suo figlio, non era un principe, e non era neppure un
Elfo.
“La festa di Yestarë non ha celebrato solo l’inizio del nuovo anno, questa
volta. Questo è stato un compleanno importante: sei un adulto ora, Dean, anche
agli occhi degli Elfi. È tempo che tu assuma le tue responsabilità” spiegò Sam
con una certa soddisfazione, spostando gli occhi tanto velocemente verso la
figura ormai distante di Lisa, che quasi il su interlocutore non riuscì a
coglierne il movimento.
Dean sentì la bocca improvvisamente arida, e il peso che gli aveva gravato il
petto davanti all’Elfa, divenne tanto opprimente da impedirgli di respirare. Un
anno, era passato quasi un anno ormai, e non l’avevano detto a nessuno… ma ora
sarebbe stato costretto. Avrebbe dovuto parlare con John, spiegare a Lisa, e
perfino a Sam. Il ragazzo fissò con inquietudine il viso chiaro e sorridente
dell’Elfo, mentre si trovava a chiedersi se almeno lui, quello che considerava
esattamente come un fratello, avrebbe capito. E se anche tutti avessero capito,
poi cosa sarebbe successo? Cosa avrebbe fatto?
Non aveva pensato a quello che poteva o non poteva accadere, quando aveva
iniziato tutto ciò? Non gli era sembrato importante, comparato a quello che
provava quando era con lui, ma ora? Ora il futuro era qui. Responsabilità voleva
dire iniziare ad avere a che fare con il mondo e con le sue leggi. Il tempo dei
giochi era finito, e nel mondo reale lui era solo un orfano, un uomo mortale,
uno fra i tanti. Le fiabe non facevano parte della realtà, il sangue reale,
sangue immortale per giunta, non si mischiava al suo comune sangue mortale:
queste erano le regole del gioco. Ma lui non era mai stato bravo a giocare
secondo le regole, vero?
“Su, non fare quella faccia! Andrà tutto bene. Nostro padre ti vuole bene e ha
molta stima di te, Dean” cercò di rassicurarlo Sam, dandogli due veloci pacche
sulla schiena prima di staccare la mano e tornare a guardarla con la medesima
occhiata perplessa di poco prima “Ora vai a lavarti però, sei ancora
appiccicoso”
“Sono ancora sudato!” lo rimbeccò immediatamente Dean, sospirando nel notare
quanto potesse essere schizzinoso quel suo fratello adottivo e quindi avviandosi
velocemente su per le scale, dopo aver agguantato quello straccio appallottolato
che era la sua maglia.
Sì, quell’Elfo schizzinoso e gioviale avrebbe capito, e in ogni caso sarebbe
sempre stato dalla sua parte. Non solo lo credeva, ne era certo. Non solo Sam lo
considerava come un fratello, per lui era a tutti gli effetti suo fratello,
niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Era sicuro di questo perché era sicuro
che niente avrebbe potuto fare cambiare idea a lui stesso.
Questa idea gli scaldò il cuore abbastanza per trovare il coraggio di mandare
mentalmente al diavolo le leggi del mondo degli adulti. Non si sarebbe arreso,
avrebbe lottato per la propria felicità. Le regole potevano essere cambiate, se
erano ingiuste.
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Dean tuffò le mani nella piccola bacinella ricolma di acqua fredda e se la gettò
sul viso, lasciando che gli scorresse fra i capelli e sul collo, scacciando un
po’ del calore dovuto all’allenamento. Aveva gettato la maglia appallottolata in
un angolo e, dopo essersi rinfrescato quanto bastava, soppesò gli indumenti
presenti nel suo baule per alcuni secondi, prima di prendere tra le dita una
leggera tunica di seta blu scuro. Sentiva ancora le pelle vagamente appiccicosa
per l’allenamento, ma Castiel gli aveva detto che lo avrebbe aspettato al
laghetto poco prima del tramonto, e l’acqua fresca del piccolo specchio d’acqua
sarebbe stata perfetta per fare un bagno. Senza considerare che aveva ottime
probabilità di convincere l’Elfo ad immergersi con lui.
Si infilò la tunica sulle spalle, ripose accuratamente la lama bastarda nel
baule, e stava per prendere velocemente la porta, quando tre colpi al battente
lo fecero sobbalzare. Dean osservò la porta chiusa con un sopracciglio inarcato
ed un’espressione perplessa per alcuni secondi, prima di andare ad aprire. In 25
anni non era capitato spesso che qualcuno bussasse alla sua camera: normalmente
la gente entrava e basta.
Quando si ritrovò davanti all’autoritaria figura di sire John in persona, Dean
sentì una specie di blocco di granito piantarsi nella sua gola, rischiando di
strozzarlo e senza la minima intenzione di spostarsi. Aveva preso seriamente le
parole di Sam, ma non avrebbe mai pensato che il momento della fatidica
chiacchierata sarebbe giunto così presto. Paralizzato da mille pensieri diversi,
il ragazzo rimase sulla porta, senza parlare, e senza invitare il padrone di
casa ad entrare, il che era probabilmente la cosa peggiore che potesse fare.
“Padr…” Dean si morse la lingua prima di finire di pronunciare la parola: ora
era adulto, non poteva continuare a chiamare ‘padre’ quello che in effetti era
il suo signore protettore “Mio signore” si corresse, scostandosi dallo specchio
della porta per lasciargli l’accesso.
John rimase evidentemente sorpreso dal suo comportamento, e sorrise sollevando
le sopracciglia, mentre entrava finalmente nella stanza. “Non è necessario che
usi le parole del cerimoniale, quando siamo soli, figliolo” replicò
bonariamente, poggiandogli una mano sulla spalla mentre lo superava, dirigendosi
verso il grande letto al centro della camera “Mi sembri nervoso, Dean. Perché?”
Il ragazzo seguì attentamente i movimenti dell’Elfo, e alla sua domanda soppesò
almeno dieci risposte diverse, prima di decidere che probabilmente la verità
sarebbe stata la strada migliore. Non era certo nuovo a piccole bugie e
sotterfugi: non era mai stato un bambino tranquillo, e rifilare qualche menzogna
per salvarsi dalle punizioni non gli era mai sembrato grave. Ma qui c’era già in
ballo un bugia, o meglio una verità non-detta, enorme, non gli sembrava proprio
il caso di peggiorare la situazione.
“Perché penso di sapere perché sei venuto”
John gli sorrise di nuovo, un sorriso che gli apparve triste e pieno di orgoglio
al tempo stesso, la qual cosa apparve perlomeno strana al giovane uomo. L’Elfo
poggiò una mano sul letto, accanto a sé, invitandolo a sedere insieme a lui, e
non parlò finché non furono entrambi comodi, uno di fianco all’altro.
“Certo che lo sai, sei un ragazzo intelligente” esordì l’Elfo, sospirando
“Eppure sei solo un ragazzo…”
Dean corrugò la fronte mentre osservava gli occhi verdi dell’Elfo abbassarsi sul
pavimento, come se quel discorso fosse molto più difficile per lui di quanto
potesse esserlo per il suo stesso figlioccio. Il giovane avrebbe voluto dire
qualcosa, forse esortare l’Elfo a parlare, forse rassicurarlo, ma rimase in
silenzio, in prudente attesa.
“Vedo cosa ti lega a mia figlia, Dean” ricominciò John, ma di nuovo si
interruppe subito, come non fosse soddisfatto di ciò che aveva appena detto “Ciò
che lega lei a te” si corresse, tornando finalmente a puntare i propri antichi e
profondi occhi del colore dei prati in primavera sul volto del ragazzo che aveva
cresciuto come un figlio “Ma ci sono molte cose che non capisci. Che sei troppo
giovane per poter considerare”
“No… padre” iniziò a replicare Dean, perché malgrado tutta la paura che potesse
avere di perdere ogni cosa, non voleva più nascondersi. Ma John gli impedì di
proseguire, poggiandogli una mano sulla guancia in una carezza pesante e forte
come le sue grandi mani.
“Tu sei… meglio di qualsiasi cosa potessi sperare nella mia vita. Hai superato
ogni aspettativa che io o i tuoi genitori potessimo avere, e ancora hai tanta
strada davanti a te, che ti porterà fare cose grandiose, cose che nemmeno puoi
immaginare” la voce di John di Imladris non era più profonda e pacata come
soleva essere, ma spezzata e carica di emozione e d’orgoglio e Dean si sentì
invadere il petto di un affetto di cui non aveva mai realizzato la vera forza
“Ma non puoi chiedermi di darti mia figlia, perché non puoi chiedermi di
condannarla a morte” concluse, mentre il suo tono sembrava farsi pesante come il
martello che forgia le spade migliori, per la tristezza.
Dean spalancò gli occhi, senza capire, semplicemente fissando a bocca socchiusa
il volto ancora sorridente eppure addolorato dell’Elfo che lo aveva appena fatto
sentire più forte ed importante di quanto avesse mai sperimentato, semplicemente
pronunciando poche parole.
“Io… non capisco, padre” replicò infine, perché c’era una paura, il sussurro di
una comprensione che non voleva accettare, che aveva iniziato ad insinuarsi in
lui. Voleva ancora spiegare a John come stavano realmente le cose, chi e quale
strada avesse scelto ormai un anno prima, ma prima voleva sapere. Voleva
conoscere quello che il signore di Imladris aveva da dirgli, perché comprendeva
che non riguardava solo Lisa.
“Lisa è mia figlia. Non è completamente un Eldar e c’è una scelta che può fare,
riguardo alla sua vita. Io so che lei sceglierebbe di buon gado la breve vita
degli uomini, per te…” iniziò a spiegare l’Elfo, fermandosi finché non vide la
comprensione scendere sul viso di Dean “Ma se pure potessi convincerla a non
rinunciare alla vita degli Eldar, non potrei sopportare di vederla vagare senza
forza e senza più sorriso per l’eternità, consumando la propria anima nel
dolore, per la tua morte”
Dean sentì come se qualcuno avesse preso tutte le promesse di felicità che di
cui si era riempito il cuore, e vi avesse messo invece solo la certezza di un
cupo destino di dolore e morte. Non si era mai sentito inferiore agli Elfi che
lo avevano allevato, non li aveva mai invidiati e non aveva mai desiderato avere
la loro vita eterna, perché gli piaceva essere come era e godere a pieno di ogni
giorno, ma ora… ora gli sembrava che ogni giorno di sole, di cui gli era
sembrato di godere di più proprio perché il numero dei suoi giorni era contato,
non valesse più niente. Ora il suo sangue, il suo corpo tanto caduco, la sua
nascita gli sembrava solo disgraziata. E la morte un maledizione, e non un dono
dei Valar.
Perché i Valar avevano messo nel suo cuore felicità e amore, se le loro uniche
conseguenze avrebbero potuto essere morte e dolore? Sentì i propri occhi
inumidirsi all’improvviso, e contrasse le labbra per non mostrare le proprie
debolezze a colui che chiamava padre, a colui che voleva rendere orgoglioso.
“Io so che ami Lisa, Dean. Per questo ti chiedo di non legarla a te, di non
condannarla alla morte o al dolore eterno” Dean non riuscì a fare altro che
annuire, quando sentì le ultime parole del suo signore, quindi distolse lo
sguardo da lui, per riuscire ad asciugare il dolore che voleva colargli sulle
guance, e strinse le mani in pugni di rabbia impotente quando sentì le braccia
di John di Imladris circondargli le spalle e accarezzargli amorevolmente la
testa.
“Mi dispiace, Dean. Mi dispiace così tanto, figliolo”
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Ora capiva. Ora finalmente comprendeva tutta l’inimicizia che Gabriel e
Balthazar avevano continuato a riversare su di lui per anni, ora capiva anche le
parole velenose e brutali che Gabriel gli aveva rivolto prima che lui e suo
fratello partissero, l’ultima volta, per fare ritorno alla corte del loro padre,
il signore di Bosco Atro.
Allora, era stato infastidito dalla sua violenza, quando lo aveva sbattuto
malamente contro una colonna, per nasconderlo alla vista di tutti e sibilargli
la sua minaccia, ed era stato forse spaventato dal fatto che i due Elfi
sembravano avere capito perfettamente quale fosse la situazione, ma soprattutto
lo aveva considerato pazzo e malvagio, quando gli aveva detto chiaro e tondo che
lo avrebbero ucciso, piuttosto che permettergli di portare via Castiel dalla sua
famiglia.
Ora capiva: la rabbia, le minacce, perfino la violenza. Gabriel aveva ragione,
naturalmente, aveva sempre avuto ragione, era semplicemente stato troppo
arrabbiato per spiegargli le sue motivazioni.
Dean deviò dal sentiero che conduceva direttamente al laghetto, dove lui e
Castiel erano soliti incontrarsi, al riparo da sguardi indiscreti, e si diresse
invece più a monte, verso la zona dove stava il declivio erboso ed il torrente
dove l’aveva baciato per la prima volta. Il sole stava tramontando, ma il
ragazzo sentiva il bisogno di pensare, di mettere ordine nella propria testa e
nel proprio cuore, ma soprattutto di raccogliere la forza per fare ciò che
andava fatto.
Quando era riuscito ad asciugare le lacrime e a rendere salda la propria voce,
aveva comunicato la propria ferma decisione a sire John, e per quanto il suo
protettore fosse stato tanto stupito quanto addolorato da una decisione così
drastica, aveva acconsentito alla sua richiesta di libertà e lo aveva
abbracciato forte prima di lasciare la sua camera. Se ripensava alla sfumatura
chiara dei suoi occhi quando lo aveva guardato, pieno di orgoglio, per l’ultima
volta, Dean capiva che avrebbe sentito la mancanza di quello sguardo per il
resto della sua vita. Tanto quanto avrebbe sentito la mancanza del blu profondo
di quelli di Castiel, gli stessi occhi di cui ora stava rifuggendo lo sguardo.
Il ragazzo costeggiò con passo lento il ruscello finché non trovò le rocce
bianche che generavano la piccola cascata che andava a gettarsi nel laghetto
dove lui e l’Elfo avevano trascorso così tanti pomeriggi e serate. Si fermò,
sopra di esse, ad osservare la piccola radura sottostante, la superficie
dell’acqua resa rossa come rame dalla luce morente del sole e le ombre che si
allungavano, nere e sfumate, tra gli alberi, e non gli riuscì di scorgere in
alcun modo la figura dell’Elfo che avrebbe dovuto aspettarlo. Forse, alla fine
aveva fatto troppo tardi, e Castiel era tornato solo al palazzo.
Appoggiò una mano dove la sottile cascatella si divideva in mille rivoli, a
formare un cristallino velo d’acqua in movimento, sopra il sottile strato di
morbido muschio che nascondeva l’accecante candore delle rocce del piccolo
declivio. Solo qualche metro più in là, l’erba vinceva di nuovo sulle rocce, e
scompariva tra i fusti sottili delle betulle e dei salici, declinando dolcemente
verso la conca che ospitava il laghetto. Le foglie e le fronde rigogliose degli
alberi nascondevano, splendide sentinelle dai corpi flessuosi come ragazze
appena sbocciate, la piccola radura da ogni lato, tranne dal punto sopraelevato
dove il ruscello si gettava per quelle rocce, giù per poco più di un metro e
mezzo. Il punto dove lui si trovava, e l’unico dal quale un osservatore avrebbe
potuto spiare lì dentro, ed era praticamente impossibile spiare senza essere
visti. Per questo, oltre che per la bellezza discreta e spontanea di quel luogo,
lo avevano eletto a loro rifugio.
Dean soppesò la strada più semplice, tra gli alberi, poi scese cautamente tra le
rocce, lasciando che l’acqua fresca gli schizzasse sul viso e inumidisse la
stoffa leggera della sua tunica scura. Si ancorava, con le mani, alle rocce rese
sdrucciolevoli dal torrente, e sceglieva accuratamente dove mettere i piedi, per
non rischiare di scivolare sul muschio bagnato. Infine, raggiunse la grossa
roccia piatta dove solevano sdraiarsi durante i pomeriggi più caldi, per godere
della vicinanza fresca dell’acqua, e sedette, togliendo rapidamente i bassi
stivali e lasciando penzolare le gambe fino a sfiorare la superficie del lago
con le dita dei piedi.
Spostò indietro le mani e vi si puntellò, alzando gli occhi al cielo che si
colorava di blu cobalto, scivolando in un viola pallido e infine nel rosso più
intenso, verso ovest. Un tordo lanciò il suo grido, da qualche parte lassù tra
gli alberi, e mille voci di fringuelli e rondini risposero, attraversando il
cielo in voli incrociati. Sembravano cantare alla primavera, sembravano prendere
in giro al sua malinconia con i loro gridi felici, schernire la libertà appena
conquistata con quei voli spensierati.
Non lo sentì avvicinarsi, non lo sentì nemmeno emergere gocciolante dall’acqua,
assorto com’era ad ascoltare i richiami degli animaletti della foresta,
mischiarsi con il ritmico sciabordio del torrente che si fondeva con le acque
placide del laghetto. Non ebbe il benché minimo sentore che lui fosse lì, finché
non gli poggiò le mani bagnate sulle cosce, un bacio umido alla base del collo.
Sobbalzò e quasi scivolò in acqua, quando sentì le sue labbra succhiargli appena
la pelle sopra la clavicola.
“Cas!” esclamò, indeciso se ridere o suonare arrabbiato, ma non ebbe il tempo di
decidere, perché le mani dell’Elfo strinsero le sue gambe all’altezza delle
ginocchia, e Dean perse la presa sulla roccia, cadendo in acqua, infine, con un
tonfo sonoro.
Emerse immediatamente, passandosi una mano sulla faccia e tra i capelli, mentre
prendeva una grossa boccata d’aria e soffiava via acqua da labbra e naso,
cercando di non annegare.
“Ma cosa…?” iniziò a domandare, non appena inquadrò il viso sorridente e
completamente innocente di Castiel.
“Puzzavi” rispose con semplicità, all’improvviso decisamente serio e forse anche
vagamente schifato “Avevi bisogno di un bagno”
Dean aprì la bocca per replicare ma si bloccò. Non poteva resistere, non poteva
tenere la sua espressione seria e corrucciata, nemmeno la tristezza invincibile
che ancora sentiva dentro di sé poteva impedirgli di ridere, di fronte a quel
sorriso candido. Era stupefacente come Castiel potesse fare qualcosa di
terribilmente buffo o dire qualcosa di assolutamente ironico, senza neppure
rendersene conto.
“Potevi almeno farmi togliere i vestiti”
“Posso farlo ora” o incredibilmente sensuale… Castiel si avvicinò velocemente a
lui, muovendosi nell’acqua come non avesse fatto altro nella vita, senza
apparire goffo o impacciato, ma sempre elegante e sicuro di sé come un ballerino
alla prima dello spettacolo.
Come aveva potuto lui attirare l’attenzione di una creatura del genere? Come
aveva fatto ad essere così terribilmente fortunato e sfortunato al tempo stesso?
L’Elfo afferrò il bordo della sua tunica e gliela sfilò con un unico gesto dalla
testa, quindi gli poggiò una mano sul collo, proprio dove poco prima aveva
posato il bacio che lo aveva fatto sobbalzare, e avvicinò le labbra alle sue:
calde, gocciolanti d’acqua e leggermente dischiuse.
Dean si rendeva conto che avrebbe dovuto allontanarlo, essere inflessibile, ma
la parola ‘no’ sfiorò solo vagamente la superficie della sua mente, mentre si
sporgeva verso di lui, catturando il suo labbro inferiore fra le proprie per
suggerne tutte le piccole stille che vi si erano fermate, incastrate come
diamanti liquidi fra le pieghe della sua bocca. Quando sentì la lingua di
Castiel sporgere per potergli accarezzare la pelle, infilò le dita fra i suoi
capelli fradici e si spinse contro il corpo nudo del compagno.
“Aniron le (Ti voglio)” gli sussurrò l’Elfo sulle labbra, mentre le sue
mani gli scorrevano sul ventre, fino ad arrivare al bordo dei suoi pantaloni
gonfi d’acqua.
Il giovane uomo sospirò e strinse il pugno tra la capigliatura castana
dell’Elfo: ora capiva cosa aveva voluto dire, quando quella mattina gli aveva
bisbigliato che lo avrebbe aspettato al laghetto, per dargli il suo regalo di
compleanno. In quel lungo anno, si erano baciati ed accarezzati in molti modi,
ma non avevano fatto nulla di più, perché questa era la maniera degli Elfi, e
non poteva credere che ora, propria ora…
Premere le mani sul petto del compagno, per costringerlo ad allontanarsi da lui,
fu la cosa più difficile che avesse mai fatto. E non faceva male solo nel petto,
ma anche in tutto il resto del suo corpo, che già non desiderava altro che
stringersi a quello di Castiel, e ricevere le attenzioni delle sue mani e delle
sue labbra. Ma non poteva permettergli di farlo, non poteva permettergli di
darsi completamente, o non ci sarebbe stato più ritorno da quell’oscuro futuro
di dolore che continuava a vedere di fronte a loro.
“No, Castiel… no” sospirò, senza sapere bene cosa aggiungere, camminando piano e
goffamente nell’acqua bassa, per riavvicinarsi alla grossa roccia piatta dove
era stato seduto fino a poco prima. Vi appoggiò le mani e attese che il freddo
del lago quietasse del tutto il suo corpo, prima di tornare, con un balzo, a
sedere sul bordo.
Castiel era rimasto dov’era, e lo guardava la fronte corrugata ed un’espressione
preoccupata negli occhi blu. Emergeva con tutto il busto dall’acqua, ed era
terribilmente difficile, per Dean, guardarlo e resistere alla tentazione di
rituffarsi e tornare da lui, per prenderlo e stringerlo in ogni modo che poteva.
E ancora più difficile era incrociare il suo sguardo: non c’era mai stato
nessuno che sapesse leggere sul suo volto quello che gli passava per la testa
come Castiel, e lui non voleva che l’Elfo capisse tutto prima che fosse lui a
dirglielo.
“Man dâr, Dean? (Cosa c’è, Dean?)” domandò l’Elfo piano, avvicinandosi
con lentezza a lui e tornando a poggiare le sue mani bagnate sulle gambe ancor
più fradice del ragazzo.
“Non va bene, Cas. Questo… non va bene” replicò il ragazzo, tenendo lo sguardo
basso per non dover incrociare quello del compagno.
“Perché? Cosa succede?” chiese con più frenesia, e il suo tornare ad usare la
lingua comune fece sembrare la sua voce meno dolce, più aspra e concitata.
“Non è mai stato giusto ma… non potevo vederlo. Sono stato uno sciocco, Castiel”
voleva andarsene, allontanarsi. Non poteva sopportare di restare lì, davanti a
lui, quasi tra le sue braccia, a spiegargli perché doveva lasciarlo.
Una lettera, una lettera sarebbe andata bene. Poteva metterla nella sua stanza,
e poi scivolare via nella notte, senza salutare nessuno, scomparendo come non
fosse mai stato lì, come non avrebbe mai dovuto essere. Forse lo avrebbe odiato,
ma in fondo sarebbe stato meglio così, no?
Dean sentì la mano di Castiel posarsi sulla sua guancia, costringendolo ad
alzare il mento, a guardarlo finalmente negli occhi, e ancora una volta il
ragazzo sentì l’impulso di rifuggire il suo tocco, il suo sguardo, la sua
vicinanza che amava tanto da spezzargli l’anima.
“Che cosa stai dicendo? Chi ti ha messo in testa queste cose?” continuò a
domandare Castiel, e le sue parole non uscirono più con la velocità dell’ansia:
la sua voce si fece grave, roca, profonda e lenta, mentre pronunciava quelle
domande che sembravano sospese fra la paura e la minaccia.
“Castiel tu… non posso restare. Non posso legarti a me!” sbottò Dean, come fosse
arrabbiato con lui, afferrando il suo braccio forse per allontanarlo, forse per
aggrapparsi a lui.
Castiel lo afferrò per fianchi e lo attirò verso il bordo della roccia, più
vicino a lui, senza mai lasciare che la sua mano si allontanasse dal suo viso,
senza mai distogliere gli occhi da quelli chiari e cupi al tempo stesso di Dean.
“Non sei tu che mi leghi a te. Sono io che scelgo, io ho scelto. Im
thellin melethron nin an… (Ho scelto il mio compagno per…)” sussurrò
Castiel, avvicinando lentamente il volto a quello del ragazzo, ma lui lo
interruppe prima che potesse concludere la frase.
“Non te lo lascerò fare, Cas!” esclamò, scattando all’indietro con la schiena ed
alzando gli occhi al cielo ormai sempre più nero, come per spezzare
l’incantesimo che gli occhi dell’Elfo sembravano esercitare su di lui. Respirò
profondamente, e solo dopo alcuni secondi tornò a cercare, tra le ombre sempre
più fitte, il volto del compagno “Guardati Castiel. Sei splendido, forte e tanto
antico quanto appari giovane. Hai tutto il mondo ai tuoi piedi. Sei un principe
degli Eldar e la tua vita può essere lunga come quella delle montagne. Io non
posso lasciare che tu faccia questo errore, e la getti via…” Dean allungò le
mani per incorniciarvi il volto dell’Elfo, fingendo di ignorare la lacrima che
pendeva dalle sue ciglia scure, fingendo di averla scambiata solo per un’altra
goccia d’acqua.
Perché quegli occhi lo guardavano come se lo avesse sempre saputo? Come se in
quell’anno di sorrisi spensierati, per lui ci fosse sempre stato il cupo
sottofondo della paura che questo giorno sarebbe presto arrivato? Perché ora,
mentre trovava il coraggio di fare a pezzi il proprio stesso cuore per salvare
la sua vita, gli sembrava di fare a brani anche lui, pezzo per pezzo,
uccidendolo fin d’ora di dolore?
“Con me, il tuo futuro sarebbe una sofferenza senza fine. Come posso condannarti
a questo?” disse, serrando la mascella come se qualcosa lo avesse colpito,
parlando più a se stesso che all’Elfo di fronte a lui, per convincere ancora una
volta quel suo cuore testardo che questa era la cosa giusta da fare.
Castiel allungò una mano e lo afferrò per la nuca, velocemente, violentemente,
impedendogli di allontanarsi ancora e posando le labbra sulle sue con tanta
forza da fargli male.
“E’ una mia scelta! Non ti azzardare a fare le mie scelte per me!” gli sibilò
sulle labbra, baciandolo di nuovo ed afferrandogli un braccio, stringendo fino a
lasciare i segni della sua mano sulla carne.
Dean affondò in quel bacio senza poterselo impedire, senza neppure rendersi
conto delle dita del compagno che affondavano nella sua carne nel tentativo
disperato di trattenerlo. Non seppe quale dei Signori dell’Ovest gliene avesse
dato la forza, ma infine, ansimante, al limite della sopportazione fisica e
psicologica, guardò dritto in quello sguardo che ora, velato dalle ombre della
notte, appariva nero come la pece. Lo guardò a lungo e intensamente, come
volesse scolpire ogni segno ed ogni sfumatura dei suoi occhi nell’anima, poi si
alzò di scatto.
“Non posso… avo iston avo nesto le, Castiel (non posso non salvarti,
Castiel)” disse, una volta in piedi, guardando il suo corpo chiaro che emergeva
dalle acque scure per un’ultima volta, prima di allontanarsi con passo veloce
tra gli alberi, senza nemmeno rendersi conto di avere lasciato un pezzo d’anima,
insieme alla sua tunica scura, tra le acque di quel laghetto.
~~~
Era notte, notte fonda, ma quello era un palazzo popolato di Elfi, e questo
significava che non era mai completamente addormentato. Aveva salutato tutti,
brevemente, con poche parole vaghe ed un abbraccio, tutti tranne Castiel, perché
sapeva che non sarebbe stato in grado di dirgli addio di nuovo.
Si mosse il più silenziosamente che poteva, come gli avevano insegnato gli Elfi
nel corso degli anni, e raggiunse le stalle senza problemi. Lì lo aspettava
Impala, la sua giumenta nera. Non era molto che era con lui, John gliel’aveva
portata personalmente il giorno del suo compleanno, ma non appena era montato in
sella, gli era sembrato che quell’animale fosse stato, in realtà, sempre parte
di lui. Impala capiva al volo quello che voleva, non aveva nemmeno bisogno di
condurla con le briglie, e si muoveva come un tutt’uno con il suo corpo: non
avrebbe potuto desiderare compagna migliore, per i suoi peregrinaggi. Le
accarezzò il collo amorevolmente, le mise la sella e le infilò i finimenti,
senza che lei protestasse o facesse un solo rumore. I suoi grandi occhi scuri lo
guardavano, e sembravano capire il suo stesso dolore, quanto difficile fosse per
lui partire e quanto fosse importante farlo in silenzio, senza clamore, senza
che nessuno se ne accorgesse.
Non sarebbe uscito dalla strada principale: vicino alle stalle c’era un sentiero
che spesso i cavalieri usavano per andare a caccia o per lunghe passeggiate. Si
inoltrava subito in una fitta macchia di alberi, e lo avrebbe condotto,
nascosto, fino alla strada che portava all’apice del passo oltre il quale
avrebbe lasciato la valle di Imladris, giù verso il guado del Bruinen e poi a
nord, nelle terre selvagge.
Impala cavalcava più veloce che poteva sul sentiero non troppo ampio, leggera
come se nemmeno toccasse il terreno e silenziosa come il volo di una libellula.
La luna non era ancora sorta, quando lanciò la giumenta al galoppo sulla strada
principale, inspirando a fondo l’aria fresca della notte, mentre il suo lungo e
grigio mantello elfico svolazzava, rendendolo solo un’altra macchia scura fra le
ombre. Raggiunsero la sommità del passo, inseguiti da pochi raggi di luce
lattiginosa, e Dean tirò le redini per fermare Impala proprio lì sopra, lì dove
finivano i domini del signore di Imladris, quindi smontò di sella e guardò, nel
cielo, la splendida dama d’argento - Ithil come la chiamavano gli Eldar -
far risplendere il palazzo di Gran Burrone come una gemma intrecciata alla
terra. Non era solo il suo cuore che lasciava lì, era un intero brano della
propria esistenza. Se mai sarebbe tornato a vedere quel paesaggio, sarebbe stato
una persona diversa, più vecchia, più dura, forse più saggia, sicuramente più
sola.
Dean sospirò e si voltò per rimontare in sella e porre un muro di roccia fra lui
e la tentazione di tornare alla propria casa, nascondendosi nelle sue stanze
invece di affrontare ciò che andava fatto, ma una mano sulla spalla lo prese
alla sprovvista. Il ragazzo estrasse velocemente il proprio corto pugnale
elfico, la cui lama perfetta ed intonsa scintillò nella notte, saettando verso
chiunque avesse osato assalirlo alle spalle nelle terre di sire John, ma il suo
polso venne intercettato da una mano altrettanto salda, che lo bloccò ad un
centimetro dal proprio cuore.
Il suo assalitore aveva il volto celato dall’ombra del suo cappuccio, ma nemmeno
in un milione di anni Dean avrebbe potuto confondere le labbra che, illuminate
dalle stelle nel cielo, sussurrarono vicino a lui.
“Pensavi di scivolare via senza salutare?” c’era ironia nella sua voce, ma il
ragazzo pensava di sapere perché il suo cappuccio continuava a celargli gli
occhi.
“Perché mi hai seguito? Perché sei venuto?” gli chiese lui con voce dura,
rivestendosi di un freddezza che non credeva di avere, che gli faceva paura.
L’Elfo lo spinse contro il fianco della giumenta, che nitrì debolmente ma non si
spostò, strinse in un pugno una manciata della stoffa che gli copriva il petto,
e lo baciò con la forza della disperazione e la dolcezza dell’abbandono,
assaporando più che poteva, finché poteva, il suo gusto caldo e pieno, che già
iniziava a sapere di estraneo, prima di bisbigliare “Istag dregi, dan avo
istag nuithag nin an meli le (Puoi fuggire, ma non puoi impedirmi di
amarti)”
Castiel lasciò che le lacrime scorressero liberamente sul suo bel viso bagnato
dalla luce candida della luna appena sorta, mentre lo guardava svanire al
galoppo verso un futuro in cui non poteva seguirlo.
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