Si Deus me relinquit _1
[
Sesta classificata
al contest «Femslash: Titoli per l’amore»
indetto da Signorino_ ]
Autore: My Pride
Titolo: Si Deus me relinquit
Fandom: Originali › Sovrannaturale
› Vampiri
Tipologia: One-shot [ 7200 parole ]
Genere: Generale, Vagamente Introspettivo, Drammatico,
Accenni Lemon, Vagamente
Thriller, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Personaggi principali: Lewis Ride, Giselle Storr, Nathan
Doe, Lieve
partecipazione di Miguel Rodriguez
Nota: Questa storia è uno spin off
di Under
a bloody sky e fa parte della serie St.
Louis ~ Bloody Nights
Avvertimenti: Femslash, Linguaggio a tratti un
po’ colorito
Note dell’autore: Note presenti alla fine della
fanfiction
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
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work
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Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
Si deus me
relinquit, ego deum relinquo. Solus oppressus nigram clavem habere
potest.
Omnias ianuas
praecludo, sic omnias precationes obsigno.
Sed, qui me
defendet ab me terribilissimo ipse? [2]
La
vita dopo la morte esisteva, dai miei genitori mi era stato ripetuto
questo in
continuazione. Però ero sicura che ciò che loro
avevano sempre voluto intendere
era ben diverso da ciò che era capitato a me più
di settecento anni addietro.
A quel tempo non avrei mai creduto
possibile che le loro parole potessero rivelarsi così
veritiere. Per vita dopo
la morte avevano di certo inteso un’eternità nella
beatitudine eterna, fra le
braccia di Dio... non una falsa immortalità imprigionata in
un inferno in
terra.
Credenti fino all’osso, i miei
genitori non si erano mai lamentati della vita che avevano sempre
condotto:
facenti parte di una piccola comunità nomade legata
fortemente alle vecchie
tradizioni, avevano viaggiato in lungo e in largo sostenuti dalla fede
che
riponevano nell’Onnipotente.
Quand’ero nata io mi avevano
considerata un miracolo. Mia madre, sebbene lo desiderasse, non avrebbe
mai
potuto avere figli; sentendo crescere dentro di sé quella
piccola vita che
altro non era che io, aveva ringraziato il Signore per averle concesso
quella
grazia. Mi avevano poi cresciuta all’insegna di quella loro
ardente fede, e
probabilmente avrei continuato a crederci davvero se una notte non mi
fosse
crollato il mondo addosso.
Non avevo creduto a
nient’altro di
mistico, sovrannaturale o onnipotente all’infuori di Dio,
almeno fino alla mia
ventiquattresima estate. Avevamo trovato rifugio presso un piccolo
villaggio in
mezzo al nulla, dove la popolazione ci aveva accolti in modo piuttosto
ospitale. L’unica cosa che ci aveva insospettiti era stato il
loro continuo
raccomandarci di non uscire la notte, però credemmo
semplicemente che
l’avessero fatto a causa delle bestie che girovagavano nei
boschi presenti nei
dintorni. Beh, non era mai stato per quello. Se adesso continuassi a
raccontare, molto probabilmente verrei considerata pazza, ma il mio
trovarmi
seduta su una vecchia sedia in un bel soggiorno ombreggiato smentirebbe
questa
credenza.
Insomma, ciò che sto cercando
di
dire è che quella stessa notte venni aggredita da un
vampiro. Aye, avete capito
bene. Un vampiro.
Tutta la mia fede
non era servita ad un bel niente contro quella creatura, che aveva
ammazzato i
miei genitori e mi aveva rapita, portandomi con sé senza che
io potessi oppormi
in nessun modo. Non seppi mai il perché, ma mi rese una di
loro. Fu straziante
sentire tutto il mio essere morire mentre dinanzi agli occhi
dardeggiava
l’immagine di quel mostro sanguinario, che aveva osservato
tutta la mia
trasformazione con le labbra ritratte e i canini scoperti, gli occhi
scuri che
promettevano dolore e sofferenza eterna. In preda agli spasmi non avevo
fatto
altro che invocare Dio, implorandolo di venire a salvarmi e di porre
fine a
quel mio immane dolore chiamandomi a sé, fra le schiere dei
beati.
Quella mia supplica non venne mai
accolta. Passai giorni e giorni distesa sulla schiena a fissare il
soffitto,
avvertendo intorno a me e dentro me stessa cambiamenti sempre
più palpabili.
Il vampiro che mi aveva catturata
mi nutriva con il suo stesso sangue, mormorandomi dolci parole di
conforto e
rassicurandomi che presto sarei stata bene. E in effetti aveva ragione.
Quando
una settimana dopo, esattamente al calar della notte, riaprii gli
occhi, mi
sentii rinata. Avevo acquisito una forza e una resistenza che mai avrei
creduto
esistessero, e indovinate la prima cosa che feci? Se avete pensato a
quello che
sto per dirvi, allora avete indovinato. Altrimenti lasciate che vi
illumini io:
lo ammazzai. Io, che non ero mai stata in grado di nuocere a niente e a
nessuno, avevo ucciso quel mostro a sangue freddo. Ciò che
mi spaventò non fu
l’atto in sé, però, bensì il
fatto che non avessi provato orrore, rimorso,
disgusto... ma solo un’inarrestabile frenesia, come se farlo
mi fosse piaciuto
immensamente.
Solo in seguito, con l’avvicinarsi
ormai prossimo dell’alba, mi ero resa davvero conto di
ciò che avevo fatto e
perché, rannicchiandomi in me stessa e cominciando a
piangere lacrime che
scoprii essere di sangue. Quella fu l’ultima volta che lo
feci.
«Quindi sei decisa ad
indagare?»
la voce di Giselle, la cugina del mio vecchio amico Nathan, fu capace
di
ridestarmi dai miei pensieri. Mi guardai intorno frastornata, forse
domandandomi quando avessi esattamente cominciato ad immergermi nel mio
passato. Quanto tempo ero rimasta con lo sguardo perso nel vuoto, a
ricordare
avvenimenti accaduti secoli addietro? Non lo sapevo, e con molta
probabilità
non avrei nemmeno voluto saperlo. Ciò su cui avrei dovuto
concentrarmi era il
presente e la situazione in cui mi ero invischiata.
Scossi il capo per
schiarirmi la mente, alzando lo sguardo sul bel volto di Giselle. I
suoi occhi,
dorati a causa del sempre più presente influsso della luna
piena, mi
squadravano severi e austeri, quasi stessero cercando di scrutare nella
mia
anima. Beh, perdeva tempo. Probabilmente non l’avevo
più un’anima, dunque tanti
cari saluti alla sua ascesa in cielo quando sarei stata ridotta in
cenere. «Ci
sono dentro fino al collo, ormai», risposi sarcastica,
nonostante non fosse poi
una così gran bella cosa. «Se mi tirassi indietro
adesso, chissà cosa potrebbe
succedere».
E in effetti avevo ragione.
Sebbene non mi importasse poi più di tanto se qualche umano
veniva ammazzato - ero
una vampira e anche piuttosto stronza, dunque per me erano per lo
più simili ad
una succulenta bistecca al sangue -, non potevo permettere che
l’assassino
girovagasse indisturbato per le vie di St. Louis. Già
faticavamo a restare
nell’ombra, quella cattiva pubblicità era proprio
l’ultima cosa di cui avevamo
bisogno. E forse era stato proprio per quel motivo che, quando si era
presentato al Bloody Nights
- la tavola calda gestita da Harry, un altro vampiro e mio vecchissimo
conoscente -, avevo accettato il caso propostomi da quel ragazzo,
Jackson
Winchester. Un tempo avrei detto «Che Dio me la mandi
buona», ma proprio non ci
tenevo a fare affidamento al suo scarso potere divino. Se Dio mi aveva
abbandonata, secoli addietro, perché io avrei dovuto
essergli fedele? Bella domanda,
specialmente sapendo cos’ero diventata. Dovevo essere
un’umile vampira che
pregava l’Onnipotente e andava in Chiesa? Ma fatemi il
piacere! I tempi erano
cambiati e anche io, la discussione si poteva quindi ritenere chiusa.
Come
cambiavano i punti di vista in seguito ad un avvenimento a dir poco
traumatico,
eh?
Giselle trasse un lungo sospiro e,
scostando la sedia dal tavolo, si alzò, andando a riempirsi
un’altra tazza di
caffè prima di gettare uno sguardo all’orologio
appeso al muro. Erano le sei e
mezza del pomeriggio e Nathan era ancora fuori alla ricerca di
informazioni. Ci
sarei andata da sola, se avessi potuto. Ma, sebbene il mio riposo
diurno si
fosse ormai concluso più di venti minuti prima,
c’era ancora abbastanza luce da
impedirmi di uscire di casa. E se potevo evitare di incenerirmi lo
facevo.
«Non hai pensato che
così potresti
mettere in pericolo la tua incolumità, vero?»
Giselle mi guardò intensamente,
affrontando i miei occhi senza nessun timore. Essendo un licantropo,
era immune
ai poteri ipnotici di noi vampiri. O almeno parzialmente.
«Non ti è minimamente
passato per la testa».
La sua collera era palpabile e si
poteva fiutare nell’aria, ma cosa avrei mai potuto dirle?
Forse era vero che
non ci avevo pensato per niente, e la cosa mi metteva un pochino a
disagio.
Sbuffai, cercando di scacciare quella sensazione. «Non farmi
la ramanzina,
Giselle. Ci basta già quel sacco di pulci di tuo
cugino».
«Non vuoi starci a sentire
perché
sai che io e Nathan abbiamo ragione, non è
così?» ribatté però lei,
senza darsi
per vinta e sfidandomi a controbattere ancora.
Le gettai appena una rapida
occhiata prima di poggiare una mano sul bordo del tavolo dietro il
quale ero
seduta, e le fui dinanzi così rapidamente che lei, presa
alla sprovvista,
sussultò e quasi fece un piccolo salto indietro, come se
fosse stata appena
morsa da un serpente. Ma si trattenne, dimostrando di essere coraggiosa
quanto
stupida. Licantropo o no, se un vampiro ti si avvicina così
silenziosamente, la
prima cosa da fare è scappare o almeno provarci.
«La mia vita
non è affar vostro».
Sostenne il mio sguardo con
fermezza, almeno finché non le sembrò
più saggio abbassare gli occhi per
guardare la mia spalla destra. Ma non l’aveva di certo fatto
per codardia. La
conoscevo da troppo tempo per credere che fosse così.
«Che ti piaccia o no, sei
nostra amica», ribatté poi, concentrata sulle
rifiniture della maglietta che
indossavo. «Anche se in quanto vampiro sei già
morta - perdona la franchezza -,
sapere che potresti diventarlo davvero è una cosa che ci
spaventa».
Diamine, vedere quei due così
preoccupati sembrava così sbagliato! «E’
da prima ancora che nasceste che me la
cavo da sola», cercai di rassicurarla, ma alzai ben presto lo
sguardo al
soffitto non appena le vidi in viso un’espressione
addolorata. «Per l’amor del
cielo, Giselle, controllati!» esclamai esasperata, dandole le
spalle prima di
dirigermi alla finestra. Non osai scostare i pesanti tendaggi che la
nascondevano, limitandomi solo a sfiorarli appena con la punta delle
dita.
Sentivo la pesantezza del sole opprimere la stoffa, sebbene stesse man
mano
scemando. Ancora poco e sarei potuta uscire da quella casa, finalmente.
Il rumore dei tacchi di Giselle
sul parquet mi costrinse a voltarmi ancora, e la vidi radunare alcuni
giornali
e la tazza che aveva usato, nonostante non avesse bevuto neanche un
sorso di
caffè. La guardai, osservando ogni suo minimo movimento come
se fosse la prima
volta che la vedevo.
Era strano come mi fossi
interessata a lei, da un po’ di tempo a quella parte. Non mi
era mai importato
di intrattenere una relazione con qualcuno, né essere umano
o vampiro che
fosse, dunque anche solo pensare di farlo con un licantropo era
alquanto
bizzarro. Come potevo mai credere che tra due creature così
diverse potesse
nascere qualcosa?
«E va bene, vediamo di fare il
punto della situazione», mi riscosse d’un tratto la
voce di Giselle,
richiamandomi alla realtà ancora una volta. Aveva recuperato
un fermaglio a
clip e aveva raccolto i lunghi capelli scuri in una crocchia, senza
curarsi dei
ciuffi ondulati e ribelli che le ricadevano a incorniciarle il bel viso
da
bambolina. «Oltre al fatto che sono state uccise ben quindici
persone in così
poco tempo, cos’altro sappiamo?»
Arricciai di poco le labbra, come
spesso mi capitava di fare quando assumevo un’aria pensosa.
Beh, aye, anche i
vampiri hanno i loro tic nervosi. «Mi è giunta
voce che due poliziotti che
avevano appena cominciato a lavorare al caso sono misteriosamente
scomparsi».
«E tu credi che possa essere
coinvolto questo vampiro, o qualunque altra cosa esso sia?»
domandò ancora
Giselle, sinceramente interessata. E di certo non potevo darle torto.
Non aveva
mai preso parte ad una cosa del genere, tentando di nascondere il
più possibile
la sua licantropia. Quanto a me, in settecento anni era la prima volta
che mi
immischiavo in indagini della polizia. In fin dei conti avevo
anch’io il mio
bel da fare.
Non sapendo però come
rispondere
con esattezza alla domanda, mi limitai a stringermi appena nelle
spalle. «Non
lo so», replicai in tono sincero, incrociando le braccia al
petto e cominciando
a guardarmi distrattamente intorno. «I segni dei morsi che ho
visto sulle prime
vittime sono senza dubbio quelli di un vampiro, ma
l’aggressione di sei agenti
e di un medico legale conduce tutte le piste ad una creatura
più simile ad un
licantropo».
«Sono stati trovati cadaveri
mutilati?»
«Per niente. Solo grosse
ferite da
artiglio».
Si portò un dito alle labbra,
cominciando a picchiettare quello inferiore con un’unghia
curata e
perfettamente laccata. La posizione che aveva assunto la faceva
stranamente
apparire più giovane di quanto non fosse in
realtà, e mi accorsi che la stavo
osservando con bramosia solo quando mi soffermai sulla vena pulsante
del suo
collo. Fortunatamente lei non se ne rese conto, inclinando
infantilmente la
testa di lato mentre tornava a fissarmi. «Non
dev’essere stato necessariamente
un licantropo, a ben pensarci», rimbeccò, e nei
suoi occhi sembrò comparire un
lampo di accusa che non riuscii ad identificare. «Tu stessa
hai ammesso che
anche i vampiri possono compiere stragi del genere per il semplice
gusto di
farlo».
Un punto per lei. Aveva
tremendamente ragione. «Qualunque cosa sia, ci conviene
togliercela di torno il
più in fretta possibile», tagliai corto, stufa di
quella discussione e di tutta
quella dannata storia. Maledizione a me e a quando avevo accettato.
Forse avrei
fatto meglio a dare ascolto a Miguel; il consiglio che mi aveva dato
era stato chiaro,
semplice e conciso. Avrei dovuto lasciare che chiunque fosse coinvolto
se la
sbrogliasse da solo, poiché come Miguel aveva puntualizzato
io non avevo nulla
a che fare con tutta quella merda. Era cieco ma vedeva più
lontano di me, certe
volte. Però ormai le danze si erano aperte, e a me non
toccava altro da fare
che ballare.
Senza prestare più attenzione
a
Giselle, volsi lo sguardo verso le finestre ancora una volta. Era
sopraggiunto
un fresco crepuscolo che rendeva quel soggiorno molto più
simile ad una cripta,
dove solo poche lampade erano accese sulla mobilia. Scorsi persino una
piccola
lanterna ad olio, utilizzata probabilmente più per
abbellimento che per il
reale uso per cui era stata creata. Non avrei mai creduto che Nathan
fosse un
collezionista di cimeli antichi.
Scossi il capo. Non avevo
abbastanza tempo per pensare a simili sciocchezze. «Quando
rientra, di’ a
Nathan che lo saluto», esordii d’un tratto, forse
neanche io conscia d’aver
aperto bocca, incamminandomi in direzione della porta
d’ingresso. Ormai il sole
non avrebbe più potuto nuocermi, e io non sarei riuscita ad
attendere il
ritorno di quel sacco di pulci un attimo di più.
Udii un rumore alle mie spalle,
intuendo che si trattava dei piedi di una sedia che venivano
strascicati
all’indietro sul pavimento. «Vuoi andare da
sola?» mi chiese Giselle con una
punta d’isteria fin troppo marcata. Se stava cercando di
apparire tranquilla,
beh, non ci riusciva per niente.
Con la mano sul pomello della
porta, mi ritrovai a gettare appena una rapida occhiata verso di lei,
distendendo le labbra in una linea sottile. Avevo
l’irrefrenabile voglia di
tornare sui miei passi per andarle vicino e confortarla, rassicurandola
che
sarebbe andato tutto bene e che non avrebbe dovuto preoccuparsi di
nulla,
nemmeno della mia incolumità. Se si fosse ritenuto
necessario, avrei fatto
appello a tutte le mie forze per uscire da un qualsiasi pericolo si
fosse
presentato. Oltre ad aver barattato la mia anima, dicendo addio a quel
Dio che
mi aveva abbandonata e lasciata nelle mani di quel vampiro che mi aveva
resa
ciò che ero, avevo ottenuto una forza che mai avevo
sfruttato, se non si teneva
conto di quel giorno in cui avevo ucciso il mio carceriere.
«Per favore, Giselle, non
ricominciamo con questa storia», ribattei pacatamente, e
avrebbe dovuto capire
quanto fossi stanca proprio dalla mia richiesta. Non sprecavo mai un
«Per
favore»; anzi, non lo dicevo quasi mai se potevo evitarlo.
Perché chiedere per
favore quando potevo usare metodi ben più diretti come la
minaccia?
Sentii Giselle avvicinarsi ancora
di qualche passo, senza accostarsi troppo a me, ma abbastanza
affinché
avvertissi distintamente la pulsazione agitata del suo cuore, come se
fosse una
piccola farfalla imprigionata nelle mie mani che batteva freneticamente
le ali.
«Aspetta almeno il ritorno di Nathan», mi
supplicò, o almeno sembrò farlo. Se
non fosse stata davvero preoccupata non avrebbe mai dato alla sua voce
quella
cadenza.
«Devo nutrirmi, non posso
aspettare ancora quel sacco di pulci».
«Posso offrirti io il mio
sangue».
Lei voleva
fare cosa?
Lasciai così bruscamente il pomello della porta che quasi mi
sembrò di
strapparlo dal legno in cui era incastonato con tutta la serratura,
voltandomi
a guardare Giselle con un’espressione stralunata. La
prospettiva di morderla e
sentire la forza del suo sangue scorrere nelle mie vene era allettante:
avrei
potuto stringerla fra le mie braccia e baciarle dolcemente il collo
prima di
affondare le zanne nella carne sopra l’arteria, succhiando e
deglutendo quel
caldo liquido rosso e vischioso, godendomi i gemiti a cui le avrebbe
dato vita.
Ma... c’era sempre un ma, dannazione. Non potevo farlo. E
non perché non
volessi, nay, non era affatto per quel motivo. Se avessi cominciato non
mi
sarei più fermata, lo sentivo fin dentro alle viscere. Il
sentimento che
provavo nei confronti di Giselle era inspiegabile e troppo forte
persino per me
- non avevo provato niente del genere nemmeno per Miguel, eppure
eravamo stati
a lungo amanti -, e nulla era più pericoloso di una cosa
simile per il
malcapitato donatore. Come potevo, quindi, anche solo pensare di
lacerare la
pelle di Giselle per nutrirmi di lei? Semplice: non potevo.
Scossi dunque il capo molto
lentamente, quasi con circospezione, alzando lo sguardo per osservarla
con
attenzione. «Non posso accettarlo, Giselle»,
esordii piano, vedendo i suoi
begl’occhi diventare d’un dorato quasi brillante
per un qualcosa di molto
simile alla rabbia.
«Nathan l’hai morso,
però»,
replicò scorbutica, aggrottando la fronte.
«Nathan è un caso a
parte»,
ribattei, e sul viso di Giselle comparve una smorfia che le
deturpò il bel viso
perfetto da bambola di porcellana. Fino a quel momento non le avevo mai
visto
un’espressione simile dipinta in volto, e non capii nemmeno
cosa avessi fatto
per far sì che essa comparisse.
Giselle, però, non mi diede
nessuna
spiegazione, ritraendo un po’ il labbro inferiore prima di
raschiarselo con i
denti, dandomi indispettita le spalle per allontanarsi in direzione del
corridoio, diretta probabilmente nella sua stanza per starsene da sola.
Sospirai pesantemente e mi
detestai per averla ferita in quel modo - qualsiasi cosa io avessi mai
fatto -,
ma purtroppo non c’era tempo per quel tipo di
sentimentalismi. Avevo un lavoro
da portare a termine.
Nathan
si ripresentò solo dopo le otto e quarantacinque di quella
stessa sera, scosso
e spossato come non l’avevo mai visto. I capelli, che persino
quando era a casa
in pigiama teneva sempre in ordine, erano una massa informe sulla sua
testa,
come se fosse stato investito da folate di vento che gli avevano sferzato la
chioma senza pietà. Gli occhi erano cerchiati di rosso a
causa del poco sonno
che si era concesso, e scintillavano sinistramente di un colore simile
al miele
dorato alle calde luci dell’ingresso.
Seduta sul divano nel soggiorno,
dal quale si poteva avere la vista panoramica di gran parte della casa
-
ingresso incluso, quindi -, lo salutai appena con un cenno del capo,
guadagnandoci un’occhiata distratta e un’alzata di
mano in risposta.
Non sembrava per nulla sorpreso di
trovarmi ancora lì; io invece lo ero. Anziché
andarmene come avevo deciso di
fare al principio, avevo atteso che Nathan tornasse, poiché
non avevo avuto il
coraggio di lasciare da sola Giselle. Per quanto potesse essere forte,
se mai
si fosse presentato qualcuno a casa non sarebbe riuscita a fare poi
molto. E io
non volevo che lei si trovasse in pericolo a causa mia.
Sgranchendosi il collo e sbadigliando,
Nathan si liberò della giacca leggera che indossava e si
diresse verso di me,
lasciandosi cadere pesantemente sul lato libero del divano. Io attesi
che mi
raccontasse ciò che aveva scoperto, fissandolo con
attenzione in viso, ma lui
non sembrò accennare ad aprir bocca, anzi,
sbadigliò ancora una volta e si
adagiò meglio contro lo schienale, voltandosi solo di
pochissimo nella mia
direzione.
Continuò però a
star zitto e io mi
innervosii. «Sputa il rospo, Nathan, cos’hai
scoperto?» sbottai, incrociando le
braccia al petto. Un rumore dall’altra parte della casa ruppe
di poco il
sottile silenzio che si era venuto a creare, ma non osai voltarmi in
quella
direzione. Per affrontare Giselle era ancora un po’ troppo
presto.
Un grugnito soffocato si levò
dalla
gola di Nathan. «Dammi tregua, sanguisuga, sono appena
tornato da un giro di
cinque ore», replicò, massaggiandosi una tempia
con la punta dei polpastrelli
della destra. Sbuffai pesantemente, agitando appena una mano senza
sciogliere
le braccia, lasciando che si prendesse il tempo di cui necessitava. In
realtà
avrei voluto che mi mettesse subito al corrente delle informazioni
ottenute -
se mai ne aveva ottenuta qualcuna, c’era da aggiungere -,
però non potevo
proprio pretendere di torchiarlo dopo tutto il tempo che aveva passato
in giro
a raccogliere indizi per me.
Non ero poi così bastarda.
Infine, dopo aver fatto scroccare
le nocche di entrambe le mani ed essersi massaggiato una spalla,
Nathan riportò la sua attenzione su di me,
raccontandomi con gran dovizia di particolari come aveva passato quelle
cinque
ore mentre io ero stata confinata nel mio riposo diurno. Mi disse che
aveva
sentito da un suo vecchio amico licantropo - tale James Kirkland, che
tempo
addietro aveva lavorato nella polizia di St. Louis prima di andare in
pensione
- che negli ultimi periodi il via vai di creature sovrannaturali era
notevolmente aumentato e divenuto piuttosto sospettoso, e non solo fra
i bassi
fondi della città. Lì a St. Louis stava
succedendo qualcosa di strano, aveva detto,
e di certo non si riferiva soltanto agli omicidi che erano stati
commessi. Si
vociferava che anche il Bloody
Nights, la bettola di Harry, stesse facendo affari d’oro e
incassi
record, e la cosa sarebbe apparsa del tutto normale se la maggior parte
dei
clienti non fossero stati proprio dei vampiri. Era alquanto raro che
così tanti
succhiasangue come me frequentassero quel posto, per di più
ogni notte. Quel
piccolo e insignificante dettaglio aveva di sicuro la sua parte in quel
grande
mosaico che stava venendo a crearsi.
Ascoltai con circospezione il
restante racconto di Nathan, scoprendo così che non erano
state poi molte le
informazioni racimolate. Ma cosa potevo pretendere in un paio
d’ore? Il nome
che era comparso più di tutti gli altri, però,
era stato quello che avrei
preferito udire di meno o per nulla: quello di Dante. Possibile che,
per quanto
tentassi di restare il più possibile lontana dalla sua
casata, mi toccasse
sempre avere a che fare con lui? Avrei dovuto fargli nuovamente visita
e farlo parlare
chiaro, stavolta, sebbene non avessi la benché minima
intenzione di incontrarlo
dopo così poco tempo. E non potevo nemmeno pretendere che
Nathan mi
accompagnasse ancora una volta nella sua tana. Se le cose si fossero
messe
male, non volevo che lui restasse coinvolto. Forse avrei potuto
chiedere anche
a Miguel di farci da scorta, ma... chi mi assicurava che avrebbe
accettato? Non
dovevo poi dimenticarmi che lui, per quanto fosse un vampiro, era
cieco.
Dubitavo però che, se glielo avessi chiesto, si sarebbe
buttato a capofitto in
quell’impresa, giacché era stato proprio lui a
consigliarmi di tirarmene fuori
finché potevo.
Proprio in quel mentre, ad
interrompere i miei pensieri e il nostro discorso fu l’arrivo
di Giselle, che
salutò distrattamente Nathan senza degnare me di uno
sguardo. Lui se ne
accorse, chiedendomi spiegazioni con gli occhi, ma io non gli prestai
alcuna
attenzione, tenendo per me ogni particolare. Era una cosa che
riguardava solo
me e Giselle. Per quanto fosse suo cugino, non era necessario che
Nathan
sapesse. Non c’entrava niente.
Nathan continuò
però a squadrarmi
con quei suoi occhi dalle sfumature dorate, mormorando fugacemente un
«Roba da
femmine?» e venendo ammonito da Giselle stessa prima che
potessi farlo io.
Aggrottò la fronte e fece per aprire nuovamente bocca, ma lo
zittimmo
prontamente entrambe come se gli avessimo letto nel pensiero, e per
quanto mi
riguardava avrei anche potuto farlo, se solo avessi avuto il potere di
sondare
la mente altrui. Di certo non ne sentivo la mancanza: con le poche
persone con
cui avevo a che fare a che cosa sarebbe servito? Che mi chiamassero
pure
sociopatica. In fin dei conti lo ero davvero.
«Lo vuoi un
caffè?» si
sentì
dire
da Giselle, che interruppe il flusso di quei pensieri e
spezzò quel breve silenzio
che si era creato fra noi. Non per dire, adesso, ma non stava bevendo
un po’
troppo caffè? Già era nervosa di suo; quella
bevanda era proprio l’ultima cosa
che le serviva.
Gettando un’occhiata a me e
poi
agitando una mano in segno di negazione, Nathan si alzò con
un unico gesto
fluido dal divano, stiracchiandosi come un grosso gatto - pardon, un
grosso
lupo - prima di portare la propria attenzione sulla cugina.
«Mettimene un po’
da parte per dopo», asserì infine.
«Credo proprio che andrò a farmi prima una
doccia».
«Come preferisci»,
ribatté
semplicemente Giselle, aprendo l’anta di un mobiletto per
tirar fuori la
macchinetta. A me come al solito non chiese nulla, e stavolta ero certa
che ci
fosse un motivo in più. Ma non vi diedi peso, accennando un
saluto a Nathan e
borbottandogli un «Dopo chiamerò Miguel per
informarlo di questa storia e
vedere se è disposto ad aiutarci» prima che lui
annuisse e si dirigesse verso
il corridoio, diretto probabilmente in camera sua e poi dritto in
bagno. Io
riportai lo sguardo sulla schiena di Giselle, che fece praticamente
finta
d’esser sola. Che cosa diavolo le avevo fatto? Avrei dato
chissà cosa per saper
davvero leggere nella sua mente e capirlo, adesso.
Osservai ogni suo minimo movimento
senza che lei mi dicesse di smetterla di farlo, comportandosi sul serio
come se
in quella specie di cucina non ci fosse nessun altro oltre a lei. Si
alzò un
po’ in punta di piedi per cercare il caffè nella
credenza, prendendo anche lo
zucchero e una tazzina prima di arraffare nuovamente la macchinetta per
aprirla
e prepararla.
Sbuffai. Quanto tempo ancora aveva
intenzione di andare avanti in quel modo?
«Giselle», la chiamai, decisa più che
mai ad interrompere quell’ostilità e quel suo
freddo silenzio. Lei però
continuò a far finta di nulla, senza prestarmi il
benché minimo ascolto. Fui
così costretta ad alzarmi per raggiungerla, obbligandola a
guardarmi dopo
averle poggiato una mano su una spalla. «Si può
sapere che cos’hai?» le chiesi
una volta ottenuta la sua attenzione.
Giselle aggrottò le
sopracciglia e
gonfiò di poco le guance, dimostrando così meno
dell’età che aveva. Sembrava
quasi che fosse ancora indispettita, ma il punto era...
perché? «Tu non te ne
sei proprio resa conto, vero?» mi domandò in
risposta, e l’espressione ferita
che le si dipinse in viso riuscì quasi a farmi sentire in
colpa. Ma in colpa
per cosa? Avevo troppe domande e nessuna risposta, purtroppo, e la cosa
mi
mandava su tutte le furie. Avrei voluto chiederle cosa non andava, ma
temevo
che Giselle reagisse peggio di quanto non stesse già
facendo.
Alzò la testa per potermi
osservare negli occhi, fregandosene delle possibili conseguenze che
l’incontrare il mio sguardo avrebbero potuto comportare. Gli
attimi che si
susseguirono, però, furono rapidi e incerti persino per me,
tanto che restai
brevemente interdetta: un momento prima Giselle mi stava fissando, e
quello
dopo si era avvicinata così velocemente che avevo quasi
stentato a vederla,
probabilmente a causa del gesto che aveva compiuto pochi attimi dopo.
Aveva poggiato
delicatamente le sue labbra sulle mie, e ci trovavamo ancora
così senza
approfondire per niente quel minimo contatto.
Fui la prima a riprendermi,
allontanandomi di scatto come se mi fossi appena ustionata. E il
paragone non
era poi così lontano dal vero, date le labbra bollenti e
morbide di Giselle. «Che
cosa fai?» domandai incredula, sgranando di poco gli occhi.
Sicuramente meno isterica di
quanto non apparissi io, lei si leccò il labbro inferiore,
osservandomi poi con
gli occhi scintillanti di ironia e di un qualcosa che non riuscii a
definire. «Ti
bacio, non è ovvio?» rimbeccò, facendo
appena un passo indietro quasi volesse
ristabilire le distanze. E dovetti ammetterlo: un po’ me ne
rammaricai.
«Mi risultava tu odiassi i
vampiri», replicai sarcastica. «E non credevo ti
piacessero le donne».
«Forse è il mio
modo per dirti di
non gettarti oltre in quest’impresa, non ci hai
pensato?»
«Ma perché dovrebbe
importartene?»
La vidi mordicchiarsi il labbro
inferiore e distogliere lo sguardo, pensando probabilmente che sarebbe
stato
più saggio fissare qualcos’altro
anziché i miei occhi. Stavolta sembrava
tormentata, e fu quasi con una certa riluttanza che infine si decise ad
aprire
nuovamente bocca. «Perché ti amo».
Quella sì che sarebbe stata
una
notizia che avrebbe lasciato interdetto chiunque, e io non facevo di
certo
eccezione. Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere, nemmeno
Miguel, che
aveva sempre avuto il brutto vizio di idolatrare qualsiasi uomo o donna
che
avesse avuto la sfortuna
di finire nel suo letto dalle belle lenzuola
di
seta. Insomma, dire che ero rimasta spiazzata - forse più
del bacio, chi poteva
dirlo -, sarebbe stato soltanto un eufemismo.
Senza volerlo mi ritrovai ad
obnubilare la mente di Giselle, cosicché non mi vedesse
mentre mi allontanavo.
Era un trucchetto che si imparava dopo mezzo secolo e che, in
situazioni come
quella, appariva piuttosto utile. Giselle nemmeno se ne accorse.
Sbatté solo velocemente
le palpebre, confusa, cercandomi con lo sguardo e trovandomi accanto
alla piccola
libreria addossata alla parete. Sembrava sorpresa, ma non avrebbe
dovuto
esserlo; sapeva chi e che cosa ero, quello di sparire come nebbia ed
apparire
altrove era solo un semplice gioco di prestigio, per quelli della mia
specie.
Dalla posizione in cui mi trovavo
squadrai Giselle, aggrottando lievemente le sopracciglia come in preda
alla
preoccupazione. «Non prendermi per il culo con queste
stronzate, Giselle»,
replicai, lasciando che dalla mia voce trapelasse la serietà
e qualcosa di
simile alla rabbia. Aveva forse fiutato il mio desiderio e, con la
speranza di
preservare la mia cosiddetta vita,
aveva deciso di prendermi in giro in
quel modo? Se avessi potuto assaporare le menzogne mi sarei risposta da
sola.
Giselle fece qualche breve passo
verso di me senza sfruttare la sua velocità di licantropo,
apparendo più umana
di quanto non fosse. «Credi che stia scherzando?»
mi domandò, estremamente
seria a sua volta. Aveva abbandonato le braccia lungo i fianchi e mi
fissava il
petto, attenta a non incrociare il mio sguardo per evitare che potessi
manipolare ancora una volta la sua mente e sparire del tutto.
Annuii. «Non lo credo, ne sono
certa», ribattei fermamente, ma lei si ritrovò a
sospirare.
«Non direi mai una cosa del
genere
se non fosse vera, dovresti conoscermi».
«È proprio
perché ti conosco
che
non riesco a credere a ciò che dici».
«Eppure è la
verità».
La fermezza con cui lo disse mi
fece montare una rabbia così cieca che, lanciando un grido
smorzato in preda
alla frustrazione, sentii i vetri delle finestre tremare come se
fossero sul
punto di andare in frantumi. Giselle aveva invece sussultato, investita
e colta
alla sprovvista dal soffio del mio potere. «Mi rifiuto di
credere che tu ti sia
innamorata di un cadavere ambulante, Giselle, perché, sai,
se non te ne fossi
accorta è quello che sono», sibilai in tono
sprezzante, facendo ancora una
volta per andarmene.
Lei però mi fu accanto e mi
bloccò, come se volesse impedirmi di muovermi. Si rendeva
conto che, se
l’avessi voluto, avrei potuto strapparle il braccio
dall’articolazione?
Probabilmente non ci aveva nemmeno pensato. «Mi stupisce
sentirti parlare così
di te stessa, Lewis», il modo in cui pronunciò il
mio pseudonimo sembrò quasi
derisorio. «Perché non vuoi accettare il semplice
fatto che qualcuno possa
essersi innamorato di te?»
Le allontanai di scatto la mano
per costringerla a lasciarmi, sibilando come avrebbe fatto un serpente
infastidito e snudando le zanne, pronta all’attacco. Con
Giselle non l’avevo
mai fatto, e la cosa spaventò sia me che lei.
Sgranò difatti gli occhi e
abbassò il braccio, le pupille ingigantite dalla confusione.
Reagire in quel
modo non era mai stata mia intenzione, ma le sue parole mi avevano
indispettita
a tal punto che non avevo potuto controllarmi. Purtroppo Giselle aveva
colto
nel segno e io ne ero rimasta turbata; avevo sofferto così
tanto, dal momento
in cui ero stata trasformata nel mostro che ero, che pensare che
qualcuno
potesse affezionarsi a me in quel determinato modo era inconcepibile.
Ritrassi le zanne e mi portai
entrambe le mani a coprirmi il volto, sentendolo scarno sotto le dita.
Giselle
aveva per caso intravisto il mio vero aspetto, il mostro che si
nascondeva
sotto la maschera di una donna da più di settecento anni?
Qualcosa mi fece
pregare che non fosse così, ma soffocai ben presto quella
preghiera per
ricacciarla nei meandri della mia anima dai quali era riuscita a
riemergere.
Pregare non sarebbe servito a nulla, lo sapevo fin troppo bene.
Mi lasciai scivolare lentamente
sul pavimento, stringendomi subito dopo le gambe al petto e
raggomitolandomi in
me stessa in un gesto dolorosamente umano. Non volevo vedere
l’espressione di
Giselle né tanto meno sapere cosa stesse pensando nel
vedermi così vulnerabile.
«Scusa», bofonchiai con voce soffocata a causa
delle mani con cui ancora mi
coprivo il viso. «Non avevo intenzione di minacciarti, non so
cosa mi sia
preso».
Avvertii come un sussurro al mio
orecchio la tensione dei suoi muscoli, capendo che si stava chinando
alla mia
altezza prima ancora che lo facesse. Non parlò né
tentò di scoprirmi il volto,
limitandosi semplicemente a gettarmi le braccia al collo per stringermi
a sé.
Attraverso la fessura fra le dita sgranai gli occhi, esterrefatta. Non
avevo
più avvertito un calore del genere dai tempi in cui, da
viva, abbracciavo i
miei genitori. Miguel non faceva testo, poiché i suoi
abbracci erano sempre
stati pervasi da un alone di lussuria e sangue.
Quell’abbraccio, invece, era...
umano. Era caldo e vagamente odorante di pelliccia, ma
anziché risultare
fastidioso lo rendeva ancor più confortante, come
l’abbraccio gentile d’una
madre o quello d’un amante affettuoso. E forse fu per quelle
bizzarre
sensazioni che provai che mi ritrovai inconsciamente a ricambiare
quell’abbraccio, sebbene in modo piuttosto goffo.
Come se si stesse occupando di una
bambina, poi, Giselle mi costrinse ad allentare un po’
quell’abbraccio,
aiutandomi subito dopo a rimettermi in piedi quasi ce ne fosse bisogno.
Non
dissi niente né tentai di oppormi, lasciandola fare mentre
custodivo dentro di
me le strane sensazioni che un semplice abbraccio mi aveva provocato.
In
seguito, gentili e delicate come petali d’un fiore, le labbra
di Giselle
sfiorarono le mie ancora una volta, senza però cercare di
approfondire quel
lieve contatto. Sentii invece, non con le orecchie bensì con
i sensi, che mi
guidava verso il divano, avvertendo sin dentro le narici
l’odore del desiderio
che l’animava. Mi voleva così tanto come sembrava,
oppure c’era dell’altro? Non
lo sapevo, e forse nemmeno mi interessava. In un modo o
nell’altro avrei avuto
ciò che avevo bramato fino a quel momento: Giselle stessa.
Quando giungemmo al divano e ci
sdraiammo su di esso, però, qualcosa di inaspettato
serpeggiò dentro di me,
facendomi rabbrividire nonostante fossi sicura che non fosse possibile,
e aprii
gli occhi di scatto prima di poggiare le mani su entrambe le spalle di
Giselle,
allontanandola. «Aspetta, aspetta, aspetta... basta
così, Giselle», rantolai,
sentendo le zanne cominciare a fremere come quando ero affamata.
Una vaga incertezza si
appropriò
delle sue membra contratte, e, dopo aver scansato docilmente le mie
mani per
avere più libertà di movimento, drizzò
la schiena per osservarmi come poteva.
Una grossa ciocca di capelli ondulati si era liberata dalla crocchia e
le
ricadeva disordinata sul viso, nascondendo alla vista un occhio ormai
dorato. «Cosa?
E perché?» mi domandò scandalizzata,
sistemandosi a cavalcioni su di me e
poggiando le mani poco al di sotto dei miei seni.
Cercando di trovare le parole
adatte, mi leccai lentamente le labbra, abbassando e alzando le
palpebre di
continuo. «Primo: questo è il divano di tuo cugino
e lui potrebbe tornare a
momenti», non che me ne importasse, in realtà, ma
non gliel’avrei mai detto.
«Secondo: non mi sembra giusto e non credo che riuscirei a
controllarmi»,
soggiunsi, e almeno stavolta dissi l’unica cosa sincera che
mi passò per la
testa.
Però Giselle non
sembrò voler
lasciar perdere, poiché la vidi aggrottare le sue belle e
fini sopracciglia con
aria piuttosto scontrosa. «Hai paura di uccidermi, per
caso?» ironizzò,
lasciando trapelare dalla sua voce la seccatura che aveva ormai
cominciato a
farsi spazio dentro di lei. Però come potevo darle torto?
Avevo interrotto
tutto proprio quando entrambe eravamo sembrate pronte a portare a
termine la
questione. O almeno a
cominciarla, precisai nella mia testa.
Sfiorandomi appena una zanna con
la punta della lingua, mi ritrovai ad annuire brevemente con il capo
ancora sul
bracciolo del divano. «Anche, lo ammetto». Ma non
era quella la verità. Ciò di cui
avevo paura era il mio stesso essere, la brama che avevo sentito
scorrermi
nelle vene come se fosse sangue. Probabilmente non sarei riuscita a
dare un
freno alle mie emozioni e l’avrei uccisa davvero, non ne ero
certa e non volevo
saperlo. «Hai ben visto come mi sono ritorta contro di te,
poco fa».
«Non succederà di
nuovo»,
rassicurò lei, come se sapesse ciò che diceva. E
anche l’espressione che aveva
in viso sembrava dare quella stressa impressione. Non aveva per niente
capito
quanto fosse andata vicina ad una morte sicura, o probabilmente non le
interessava affatto.
La scansai da me in un gesto
brusco, a quel dire, rimettendomi in piedi e lasciando che fosse lei a
cadere
di peso sul divano, dando vita ad un suono soffocato.
«Succederà eccome,
Giselle, solo che tu non te ne rendi minimamente conto»,
replicai seccamente,
facendo qualche passo lontano da lei proprio quando in soggiorno
entrò Nathan.
Aveva un asciugamano sulla testa e
indossava soltanto dei comodi pantaloni di flanella, di un beige
così chiaro da
sembrare quasi bianco. Io e Giselle lo squadrammo come se avessimo
appena visto
un fantasma, e lui, ricambiando le nostre occhiate, si
ritrovò a sbattere più
volte le palpebre senza capire il perché delle nostre
espressioni o la
situazione che aveva evitato per un pelo. «Beh? Che
c’è?» ci chiese, sollevando
in seguito un sopracciglio.
Scossi il capo e alzai una mano
come per zittirlo, senza rispondere alla sua domanda ma scoccando
appena
un’occhiata a Giselle, che si era rimessa a sua volta in
piedi e si stava
sistemando le ciocche di capelli sfuggite precedentemente alla
crocchia. «Usufruisco
un po’ del tuo telefono per chiamare Miguel, se non ti
spiace», dissi
semplicemente in risposta, dirigendomi verso di esso senza nemmeno
attendere
che lui mi desse il permesso o aggiungesse qualcosa, visto che
gliel’avevo già
accennato in precedenza.
Non avevo più intenzione di
giocare, per quella sera. Volevo soltanto andarmene da quella casa e
porre fine
a quella storia. Avrei dunque telefonato al Night Club di Miguel,
l’Old
Passion, - un nome piuttosto ironico, per un Night Club,
ma chi ero io
per
criticare? - per parlare con lui, in modo da poter scoprire se fosse
intenzionato o meno ad aiutarci. E io speravo proprio di sì.
Ero stufa di
mettere Nathan nei guai più di quanto non avessi
già fatto.
Quando composi il numero e attesi,
la sua calda voce straniera rispose al secondo squillo.
«Buenas
noches, chica [3]».
Restai lì per lì
interdetta,
mantenendo saldamente la cornetta prima di riprendere almeno
parzialmente le
mie facoltà mentali. «Come sapevi che ero
io?» domanda stupida, e difatti lui
rise, una risata spontanea e genuina che sembrò scivolarmi
sulla pelle come una
languida carezza.
«Chiamala pure... intuición»,
ribatté sarcastico, e
quasi mi parve di vedere le sue belle labbra incurvate in un sorriso e
il lieve
scintillio del divertimento nei suoi occhi ciechi.
Scossi il capo, non volendo
pensarci. «Non sei affatto divertente».
«Lo
siento, chica, yo no querìa [4]».
«Piantala di parlare in
spagnolo e
stammi a sentire», sbottai. Sapevo perché si
divertiva a fare così, ma perché
io continuavo ad innervosirmi? Probabilmente perché sentirlo
parlare nella sua
lingua mi riportava alla mente il tempo che avevamo passato insieme, e
io non
volevo ricordarlo per niente, se potevo evitarlo.
Un’altra sua bella risata
giunse
metallica attraverso il ricevitore, ma riacquistò pian piano
la propria serietà
prima di sussurrare all’apparecchio. «Sei per caso
nei guai, chica?»
Se avesse potuto vedermi - con o
senza il fatto che stessimo parlando a telefono, c’era
tristemente da
aggiungere -, Miguel avrebbe di sicuro visto il mio sussulto e
avvertito
l’ombra di paura che si stendeva dal mio corpo stesso.
«Non voglio mentirti,
Miguel, quindi... aye, sono nei guai», replicai seccamente.
«Ho bisogno di
andare a parlare con Dante». Non accennai al fatto che gli
avessi già fatto
visita, poiché probabilmente avrebbe di sicuro avuto a che
ridire.
«Dante?»
ripeté lui, e il
silenzio
che seguì fu riempito soltanto dal crepitio della cornetta.
Si era zittito
senza aggiungere nient’altro, probabilmente per cercare di
capire se avessi
realmente pronunciato quel nome oppure se lo fosse sognato.
Però aveva capito
benissimo. D’un tratto Miguel sospirò, e sentii
distintamente lo schioccare
delle sue labbra. «Por
favor, chica, segui il consiglio che
ti ho dato e
lascia perdere», la sua voce suonò stanca e
pacata, come se tutta la sua solita
vitalità fosse d’improvviso scomparsa.
«L’ultima persona di cui hai bisogno è
proprio quel hijo de
puta di
Dante».
«Miguel... che cosa sai che io
non
so? Cosa mi stai nascondendo?»
«Te ne parlerò se
mai riuscirai a
restare viva, chica»,
replicò sibillino,
interrompendo poi la
comunicazione senza neanche attendere che ribattessi. Se aveva tutta
quella
fretta doveva esserci di sicuro qualcosa sotto. Ma cosa?
Sospirai pesantemente,
riattaccando a mia volta e scuotendo il capo. Quella maledetta storia
stava
diventando più complicata di quanto non mi fossi aspettata
al principio, e la
cosa non mi faceva stare per niente serena. Temevo i miei stessi
simili, ed
anche per una buona ragione. Se erano davvero implicati anche
succhiasangue con
secoli, se non millenni, alle spalle, allora c’era davvero
poco da stare
tranquilli, per umani, vampiri, o licantropi che fossero.
«Allora?» la voce di
Nathan mi
richiamò alla realtà e io fui costretta a girarmi
verso di lui per
fronteggiarlo, vedendolo intento a frizionarsi ancora i capelli. Forse
per la
tensione non si era nemmeno accorto di star compiendo quel gesto da una
buona
decina di minuti,e Giselle nemmeno glielo tenne presente. La tensione
era ben
visibile anche sul suo pallido e bellissimo viso.
Allontanandomi dal ripiano del
telefono, scrollai di poco le spalle e feci vagare lo sguardo
dall’uno
all’altro prima di sospirare appena. «Non mi ha
dato nemmeno il tempo di
chiedergli se avesse intenzione di aiutarci o no».
Nathan aggrottò di poco la
fronte
con fare pensoso, sistemandosi poi l’asciugamano intorno alle
spalle per
lasciarlo penzoloni sul petto nudo. Mi guardava con una
serietà tale, adesso,
che sembrava quasi che fosse pronto a tutto. Giselle aveva la stessa e
identica
espressione, e quasi mi chiesi cosa avessero in mente. «Ce la
vedremo noi se
dovesse succedere qualcosa», disse Nathan, ma subito dopo mi
sorrise raggiante,
un sorriso in cui fece scintillare i canini aguzzi. «Ma
vedrai che finirà tutto
per il meglio, sanguisuga. Ci saremo noi a darti manforte come
potremo», mi
rassicurò, e io sfortunatamente gli credetti.
[1]
Il titolo è ovviamente tratto dalla
canzone
“Si Deus me relinquit”, facente parte della
Kuroshitsuji “Black Box”, e significa “Se
Dio mi abbandona” in lingua latina.
[2]
Se Dio mi abbandona, io abbandono Dio. Solo
un oppresso può avere una chiave nera.
Chiudo tutte le porte, così
sigillo tutte le preghiere.
Ma chi mi protegge dal terribile
me stesso?
[3]
La traduzione sarebbe “Buona sera,
ragazza” ed è
ovviamente spagnolo.
[4]
La traduzione sarebbe “Scusa, ragazza,
non volevo”
ed
è ovviamente spagnolo.
_Note
conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest “Titoli per l'amore: Femslash”,
e si è classificata sesta.
Per chi sta leggendo Under
a bloody sky
è inutile spiegare esattamente in che parte della storia si
svolge questo spin off appena terminato. Per chi invece ha aperto
questa storia solo di sfuggita ed è
arrivato fin qui, lascio il caloroso invito a farlo, così da
poter capire meglio questa specie di Missing Moment. Nella storia a
capitoli, difatti, non verrà accennato niente di
ciò che è successo in questa storia: i fatti
saranno
posti nudi e crudi dinnanzi ai vostri occhi, giacché
ripeterlo
sarebbe inutile.
Passando al contest, non avrei mai pensato che questa storiella da
niente avrebbe raggiunto quel risultato, forse perché sin
dal
principio non mi convinceva per niente. In questo spin off, comunque,
viene accennato anche qualcosa legato alla storia Na
doir sìon dhomh, mo brèagha aingeal, ma
sta a voi capire di che cosa si tratta con esattezza :)
Spero comunque che la storia vi sia piaciuta, o almeno vi abbia in
parte interessati. Qui di seguito il commento della giudice:
SESTA CLASSIFICATA
GIUDIZIO
Correttezza grammaticale
e lessico: 9/10
Il punteggio è quasi il massimo perché ci sono
davvero poche imprecisioni: solo un “come se lo fosse
sognato” che doveva essere “come se se lo fosse
sognato” e un paio di punti in cui non hai adeguatamente
separato tramite uno spazio le parole dai segni di interpunzione.
C’è una frase che però non mi
è chiara: “succhiando e deglutendo quel caldo
liquido rosso e vischioso, godendomi i gemiti a cui le avrebbe dato
vita” – “a cui le avrebbe dato
vita”? C’è qualcosa che non va nella
sintassi, ma lascio a te il compito di correggere perché
riesco solo a intuire dove tu volessi andare a parare con questa frase.
Per il resto, la storia è piacevolissima dal punto di vista
del lessico, variegato e mai pesante per un’eccessiva
uniformità, anzi. Ti faccio i miei complimenti sotto questo
punto di vista, perché, davvero, nonostante fossero dieci
pagine non mi hai mai annoiata.
Stile: 2,
5/5
La storia è un po’ debole dal punto di vista dello
stile: non perché sia spiacevole, ma perché in
certi punti è pesante. Anzitutto, il gerundio: per la
maggiore, i tuoi periodi consistono in “subordinata implicita
al gerundio + principale + subordinata implicita al gerundio”
e tutti questi gerundi dopo qualche tempo annoiano il lettore e
appesantiscono la lettura. Inoltre, sei solita scrivere la
“e” e la “o” dopo le virgole,
cosa non errata ma di cui tu abusi fin troppo, rendendo la lettura
accidentata in punti in cui invece dovrebbe essere fluida, senza la
pausa rappresentata dalla virgola.
Originalità
nella trattazione del titolo: 9/10
Hai nominato Dio soltanto un paio di volte, ma in questa storia si
evince sicuramente con chiarezza la presenza del titolo, “Si
Deus me relinquit”. Perché l’abbandono
da parte di Dio sentito dalla protagonista trasuda da ogni sua
riflessione e in particolare dal suo rapporto con Giselle: Dio
l’ha abbandonata, allontanando la sua luce da lei, e Lewis,
sprofondata nell’oscurità, rischia di non riuscire
a riemergerne e trascinare con sé le persone che ama. Con
questa metafora voglio mettere in evidenza la paura di Lewis di poter
fare del male a Giselle che permea più o meno
l’intero spin-off, nonché i riferimenti al suo
passato travagliato e al suo misterioso presente.
Inoltre, il titolo non ha una presenza “pesante”
nella storia, nel senso che non ritrovi ogni due righe “Dio
mi ha abbandonata, quindi…”; anzi, in un certo
senso sta all’intuito del lettore riconoscere che titolo e
storia sono strettamente collegati e questo rende la
“scoperta” del racconto ancor più
gradevole.
L’unica cosa che ti ha abbassato il punteggio è
l’originalità: purtroppo molto spesso, nelle
storie con protagonisti i vampiri, si riscontra il binomio
vampiro-abbandono della luce, ma per il resto la trattazione del titolo
è ottima.
Trama (completezza della
storia, realismo, capacità di incastrare gli avvenimenti...):
6, 5/10
Sfortunatamente non riesco a darti un punteggio più alto,
perché la storia si intuisce da questo spin-off –
non ho il tempo materiale per andare a leggere la long-fiction da te
linkata – ma senza le note a fine storia non mi sarebbe stato
possibile capire per bene l’intrecciarsi delle vite dei
personaggi.
In particolare ha pesato la totale assenza di un qualche flash-back o
comunque un espediente per raccontare come si sono conosciute Giselle e
Lewis: quel che si vede in questo racconto è che Giselle
dice di essere innamorata di lei, così, senza che ce ne
venga spiegato il perché, se non in due righe a fine storia.
Inoltre, queste dieci pagine girano tutte attorno al mistero di St.
Louis, ma la storia si conclude con un nulla di fatto, lasciando a
bocca asciutta chi, come me, fa il giudice in un contest e si aspetta
dalla storia la sua completezza. Un altro punto che si conclude in un
nulla di fatto è l’arrabbiatura di Giselle: lei
è innamorata di Lewis, okay, ma perché si
è tanto arrabbiata quando lei si è rifiutata di
bere il suo sangue? Dopo averla fatta infuriare a tal punto, avresti
dovuto dilungarti un po’di più nella spiegazione
di questa parte.
So che tu avrai da ridire dicendo che “è uno
spin-off e quindi cosa ti aspetti?”, ma questo è
un contest e la completezza è per me, che sono la giudice,
fondamentale; per la prossima volta, ti consiglio di non presentare uno
spin-off o, ancora meglio, presentalo, ma in fondo che costituisca una
storia a sé senza bisogno di seconde parti o lunghe
spiegazioni alla fine.
Trattazione dei
personaggi: 8, 5/10
Mi piace molto il modo in cui è stata trattata Lewis, anche
se il suo carattere mi sembra un po’ altalenante: da come
parla di se stessa e di ciò che ha passato si evince che
è una ragazza molto forte – e la sua forza
proviene proprio dalle sue esperienze passate – mentre,
quando si tratta di relazioni interpersonali, cede e diventa debole,
perché è passato troppo tempo
dall’ultima volta che ne ha avute. Da questo punto di vista
è sì realistico, come personaggio,
perché è ovvio che chi è abituato a
sputar sangue per sopravvivere davanti a una dichiarazione possa non
sapere cosa fare, ma la sua reazione, a mio parere, è un
po’ troppo esagerata, in rapporto al fatto che è
riuscita a uccidere il suo Creatore, per esempio. Ma per il resto
è un personaggio ben fatto, ben tratteggiato, realistico nel
contesto in cui lo muovi.
Giselle, vista dagli occhi di Lewis, mi è sembrata un altro
personaggio ben definito, senza “stonature”, si
potrebbe dire, nel senso che ciò che dice e fa è
in linea con ciò che dice di lei Lewis.
La protagonista è naturalmente Lewis, ma anche gli altri
comprimari – Nathan e Miguel – fanno la loro
figura, in quanto grazie alle parole della vampira il lettore riesce a
intuire in modo abbastanza completo il loro carattere; peccato
– ribadisco – per l’assenza di una
ricostruzione del passato di Giselle e Lewis – o almeno dei
momenti antecedenti l’inizio dello spin-off, cioè
quando loro due si rincontrano dopo tanti anni –, che sarebbe
stata sicuramente utile al fine di capire meglio perché si
relazionano a quel modo, come se si vedessero ogni giorno e si
conoscessero da sempre, e non come le due semi-estranee che in fondo
dovrebbero essere.
Totale: 35,5/45
Alla prossima ♥
_My Pride_
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
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