Note
d’autore: Ho inserito l’espressione
“castello di carte” perché è
il
corrispettivo italiano di “house of cards”: il
titolo è preso dall’omonima canzone
dei Midnight Resistance.
Le
citazioni presenti sono correttamente attribuite subito sotto, comunque
appartengono
tutte a canzoni dei Linea 77 (con due collaborazioni, una con i
Subsonica e l’altra
con - ugh - Tiziano Ferro), un gruppo torinese che, a mio parere,
scrive testi da
mozzare il fiato.
Dove
è inserito un asterisco, si fa riferimento esplicito
alla frase inviatami per il contest “Not strong
enough”, ovvero “Look what this
love has done to me”. L’ho usata sia come prompt
che come citazione.
Per
un ulteriore approfondimento sulle dinamiche dei personaggi, rimando a
fine storia.
Buona
lettura!
House of cards
«Vuoi
un tè?»
Judith
aveva annuito, permettendo a Marike di lasciarla sola per andare a
mettere su
il bollitore. Il riscaldamento era al massimo, tanto che si
sentì soffocare finché
non decise di togliersi il soprabito chiaro e il maglioncino beige,
rimanendo
solo con la camicetta. Tornava da un colloquio di lavoro, ma Judith era
anche
questo: una ragazza fine ed elegante, che non avrebbe mai messo tacchi
superiori ai sei centimetri o un trucco pesante perché
esagerati, che non
avrebbe mai detto nulla di sconveniente ed inappropriato
perché l’educazione impartitale
non glielo avrebbe permesso. Faceva parte delle fila silenziose di
coloro che
sanno già a quale mondo appartengono, e che prima o poi
raggiungeranno il posto
designato per loro sin dalla nascita. Era una stella in ascesa, e
brillava come
tale.
Marike
non poteva fare a meno di considerare quanto fosse diversa da lei ogni
volta
che le era accanto. Judith assomigliava ad un piccolo fiore di montagna
esile e
delicato, difficile però da strappare alla terra, mentre lei
ad un fiore enorme
e possente che al primo soffio di vento sarebbe caduto per la corolla
troppo
pesante. Erano entrambe due esemplari magnifici, ma Marike aveva molto
più
bisogno di cure e attenzioni - amore - di quanto le potessero venire
offerte. E
quindi continuava a crollare, a morire e a risorgere, senza riuscire a
trovare
un modo per fermare quegli schianti violenti che ogni volta la
lasciavano senza
fiato, come un pugno nello stomaco. Testarda nel suo proposito di
autodistruzione.
«Scusami,
non sono riuscita a trovare lo zucchero di canna, ho solo quello
raffinato…»
«Non
è un problema». Judith sorrise, e Marike seppe che
non era solo una forma di
cortesia, quella che le avrebbe fatto rispondere “non
è un problema” anche se
le avesse annunciato chissà quale colpa. Era una creatura
gentile, ma
soprattutto vera. Sincera.
Si
rannicchiò sul divano, portandosi le ginocchia al petto e
soffiando sulla tazza
troppo calda. Judith era rimasta seduta composta, la schiena dritta e
le mani
ferme.
Non
riuscì a non pensare a lei.
Lo sguardo cade
su un particolare ormai dimenticato;
la testa gira;
ferma tutto,
voglio scendere
da
questa paranoia!
[Linea 77 feat.
Subsonica - 66 (Diabolus in musica)]
«Cosa
facciamo stasera?»
Elsbeth
scrollò le spalle, cercando di recuperare una delle scarpe
finita sotto il
divano. A volte si chiedeva anche lei come potesse essere tanto
disordinata, ma
poi si ricordava che doveva cercare altre venti cose introvabili e la
domanda
scivolava via dalla sua mente. «Non so, che ne dici di un
film?»
Marike
rimase a fissarla dalla porta della cucina, riflettendo su qualche
titolo da suggerire.
«Per
me va bene, ma niente di triste o altro. L’ultima volta che
mi hai costretta a sorbirmi
P.S. I love you mi sono addormentata
dopo il primo quarto d’ora. Qualcosa di allegro, o
d’azione. Anche un horror mi
va bene!»
L’altra
gioì nel ritrovare la décolleté nera;
a quel punto, avrebbe detto di sì a
qualsiasi proposta. «Vedo ciò che riesco a
trovare. Tu ordina qualcosa per le
nove, tanto per le otto dovrei aver finito».
Elsbeth
prese la borsa e corse da Marike, lasciandole un frettoloso bacio sulla
guancia. «A dopo!»
La
porta si chiuse e Marike rimase sola, sola con sé stessa ed
il suo più che
ingombrante bagaglio di sentimenti. Dopo più di un anno che
era innamorata
della sua coinquilina - nonché amica d’infanzia e
principale confidente -
sentiva di essere arrivata ad un punto di rottura. Aveva la sensazione
che
presto sarebbe tutto finito.
Il
problema stava principalmente nel fatto che non poteva sapere come. E non era nemmeno sicura di poter
accettare un’incognita del genere.
Senti qualcosa
che cambia, cerchi di bloccarlo invano.
Lungo i bordi
della mano cambiamento e mutazione,
siamo attori di
commedie quotidiane senza trame
tra ruggine,
fumo e metallo.
[Linea
77 - Flussi informativi]
Frequentava
Judith da parecchio. Avevano intrapreso insieme la stessa
facoltà, cinque anni
prima, e per i primi quattro non si erano rivolte granché la
parola. Si
conoscevano di vista, questo sì, e i corsi spesso le
costringevano a lavorare
fianco a fianco, ma Marike la considerava un’ipocrita
altezzosa e Judith non
era il tipo di persona particolarmente interessata nel piacere agli
altri.
Effettivamente, Judith difficilmente poteva essere considerata il tipo
di
persona particolarmente interessata ad alcunché.
In
realtà, si erano avvicinate dopo che Marike aveva cominciato
a stare male. Nel
periodo in cui aveva avuto principio la fine, come l’aveva
sempre definito,
Marike aveva dato l’avvio ad un suo primo isolamento, aveva
iniziato a
spegnersi in maniera quasi impercettibile, lenta ma inesorabile. Chi le
stava
sempre vicino aveva finito con il non accorgersene, mentre
un’estranea come Judith,
abituata ad osservare attentamente ciò che la attorniava, ne
aveva
istintivamente avuto paura. Come se fosse riuscita a prevedere il
baratro in
cui sarebbe caduta se si fosse lasciata andare, le aveva teso una mano
e le
aveva promesso che l’avrebbe aiutata a risalire.
Semplicemente, un giorno si
era presentata a casa sua e le aveva detto: “Non
mi importa cos’è successo. Te ne tirerò
fuori”.
Marike
non le aveva mai chiesto cosa l’avesse spinta a farlo, prima
perché troppo
concentrata su sé stessa per fregarsene degli altri, poi
perché davvero non
importava più. Era lì, ed era questo tutto
ciò che contava. Era diventata
l’unico motivo per cui poteva accettare di alzarsi la mattina.
«Com’è
andato il colloquio?»
Judith
fece spallucce, e Marike sorrise: poteva giurare che i risultati
sarebbero
stati grandiosi. Era impossibile che fosse altrimenti, in effetti.
«Penso
bene, mi faranno sapere al più presto. Vista
l’inadeguatezza della maggior
parte dei candidati, non credo di aver problemi. A voler essere
sinceri,
sarebbero loro ad averli se non assumessero me
per favorire uno di quei disadattati».
Be’,
sì, la modestia non era uno dei suoi forti. Ma la modestia
in chi possiede del
talento è semplice ipocrisia, le aveva insegnato
Schopenhauer, e si poteva star
certi che Judith era talmente sincera e diretta da far quasi male, a
volte.
Marike
continuò a bere la sua tazza di tè, fin quando
non sussurrò: «Ieri è passato
esattamente un anno».
Non
una sensazione attraversò il viso di porcellana
dell’altra, ma Marike si sentì
immediatamente in colpa. Non se lo meritava, davvero. Poggiò
la tazza ancora
piena sul tavolino e si alzò, andando alla finestra e
osservando le luci del
traffico di città, che alle otto di sera era al suo culmine.
In ogni macchina
c’era almeno una persona che stava tornando a casa, forse da
qualcuno che l’amava.
Si chiese se quelli che non avevano nessuno si sentissero soli quanto
lei.
Il
vero problema era l’enorme senso di colpa che provava nei
confronti di Judith.
Si rendeva conto di essere un peso, ma d’altra parte non era
in grado di rinunciare
a lei. Non ne era più in
grado.
Per
questo era consapevole di farle del male, eppure non riusciva a non
farlo;
esattamente come un aguzzino, continuava a colpire la sua vittima resa
ormai
muta e inerme dalla sua violenza.
Judith
non si mosse, non la raggiunse. Si limitò ad accarezzare con
le dita la
copertina di un libro e quella di un mazzo di carte che giaceva
abbandonato
sopra il tavolino da qualche giorno. Rimase in silenzio mentre sfilava
l’elastico che le teneva insieme, rimase in silenzio mentre
si chinava verso il
mobile dal piano di vetro e la sua espressione riflessa le restituiva
un senso
di tormento.
«Quando
imparerai a perdonarti?»
Il
peso sulla testa di Marike si fece insopportabile. C’era
ancora il fantasma di Elsbeth
che se ne andava in giro per quelle stanze, c’era ancora il
suo profumo
nell’aria, i suoi disegni alle pareti. E anche gettando via
tutto, come si
poteva cancellare un’assenza così prepotentemente
impiantata nel suo cervello? Era
doloroso, era una sconfitta, ma disincagliarla dalle rovine confuse dei
suoi
sentimenti avrebbe significato solamente il collasso definitivo.
Sarebbe stato
come recidere l’aorta nel tentativo di salvare una vita. Un
suicidio
programmato.
«Non
è poi così necessario», le rispose
sommessamente. Avrebbe imparato a fare i
conti con sé stessa, prima o poi, di questo ne era certa, e
ciò la atterriva.
Non voleva dimenticare, ma voleva lasciarsi il passato alle spalle. Non
voleva
più soffrire, ma doveva espiare.
Judith
aveva iniziato a disporre le carte l’una
sull’altra, in ordinate file
triangolari, focalizzando su loro la sua attenzione.
«Smettila
di morire, Marike. Torna a vivere».
Ma
come si faceva a tornare a respirare, quando se lo si era dimenticato?
Vivere significava
forse essere ancora più sensibili alle innumerevoli ferite
che la realtà
provocava?
Desiderava
che l’abbracciasse, ma non glielo chiese. Doveva imparare a
cavarsela, a non
contare più su Judith.
E
forse questo era ancora più insopportabile
dell’idea di smettere di affondare.
In fondo non
c’è
fuoco che si vuole estinguere,
in fondo non
posso smettere di cercare.
Non dovrei
più
tornare indietro,
non dovrei
più
voltarmi;
in fondo
abbracciami senza dire niente
perché
volevo
dirti…
[Linea
77 - Penelope]
Elsbeth
era semplicemente stupenda. Marike si era stupita nel ritrovarsi
continuamente
gli occhi pieni di lei, di lei e del suo sorriso, come se qualcuno le
avesse
gettato addosso un incantesimo. La sua presenza era ovunque:
in facoltà, nel parco, nella sua anima. Ogni volta che
pensava a lei sentiva un piacevole tepore nel petto e a volte arrossiva
senza
volerlo, ma tutto sommato coltivava segretamente queste sue emozioni,
sperando
che prima o poi sarebbero svanite da sole.
All’inizio
non era solo che il solito affetto, magari un po’
più intenso; pian piano si
era trasformato in altro, ma era
incantevole. Aveva riso sopra l’idea di essersene innamorata,
perché le era
capitato spesso di prendersi accidentali cotte per qualcuno e non erano
mai
durate più di qualche settimana. Elsbeth era bellissima, era
affascinante, era
intelligente, era tutto ciò che i ragazzi solitamente
cercavano. Era
inevitabile che prima o poi anche lei sarebbe finita nella sua rete, ed
in
fondo non era neppure così grave. Sarebbe passata. Sarebbe
passata presto.
Tanto
valeva godersi l’attimo, no? Sarebbe stata una cosa rapida ed
indolore, niente
di cui preoccuparsi.
Tuttavia,
presto si era resa conto che qualcosa non andava.
Erano
sul letto di Marike, più grande del suo, e stavano
abbracciate come sempre,
cercando di non scoppiare a ridere ogni volta che quel mostro di
protagonista
diceva un’assurdità smielata. Elsbeth ci impazziva
dietro, ma Marike non era il
tipo che riusciva a imbrigliare la sua ironia spietata neanche quando
avrebbe dovuto.
Era
stato un attimo. I loro seni si erano sfiorati e il cervello di Marike
era
andato in black-out. Si era sentita invadere dal panico, i sensi
all’erta, il
respiro affannoso. Si era alzata di scatto e con un sorriso forzato
aveva detto
di essersi dimenticata un libro in biblioteca, di dover correre prima
che
chiudesse. Era uscita in fretta, la faccia frustata dal gelido vento di
ottobre.
Quell’impulso di puro desiderio carnale l’aveva
sconvolta e lasciata senza fiato.
Mio Dio, cosa mi
sta accadendo?
Cosa mi sta-
Era
stato come ricevere uno schiaffo in faccia. Aveva capito e si era
sentita
franare il terreno da sotto i piedi.
Aveva
vagato a lungo quella sera, e quando era tornata aveva trovato Elsbeth
a casa,
la stessa Elsbeth che aveva lasciato.
Era
lei ad essere cambiata.
Come per magia
la coscienza inverte i ruoli:
da vittima a
responsabile dei tuoi stessi mali.
[Linea
77 - Inno all’Odio]
«Come
va?»
Judith
era entrata silenziosamente in quella casa che la riconosceva ormai
come sua
padrona - nessuno scricchiolio aveva tradito i suoi passi, nessun
fruscio aveva
rivelato la sua presenza. Era affascinante, quasi, vedere come
quell’ambiente
si fosse abituato alla sua figura, come l’aria si piegasse
docile al suo
passaggio; come se fosse lei stessa parte di quelle mura. Non ci aveva
mai
fatto caso con Elsbeth, perché avevano preso insieme
l’appartamento ed era
diventato loro nello stesso momento; era normale alzarsi e vederla
preparare la
colazione, dover capire di chi fosse un vestito, poi decidere che non
importava
e metterselo comunque, o ancora scambiare il suo terribile latte di
soia con
uno normale. Era anche questo ciò che le mancava,
ciò di cui lei si era privata
- e di cui aveva privato quelle stanze.
«Va…»
Si
risparmiò lo sguardo scettico di Judith, rimanendo a occhi
chiusi. Non sarebbe
stata in grado di dover combattere ancora solo per l’aver
detto una piccola menzogna.
Amava le bugie, rendevano l’inferno un po’
più confortevole - e non capiva che
in realtà lo facevano diventare sempre più caldo.
«Usciamo».
«Oh,
no…»
Seriamente,
come poteva proporle una cosa simile? Il solo pensiero di alzarsi le
faceva
girare la testa, figuriamoci quello di andarsene a passeggio tra gente
radiosa
e spensierata; era doloroso quanto una coltellata nel costato. Non era
ancora
pronta ad accostarsi alla bellezza, alla purezza. Alla
felicità.
«Marike,
forza. Ti giuro che non me ne vado se prima non mi prometti di
accompagnarmi a
fare un giro».
Aveva
premuto con forza un braccio sugli occhi, per impedire alle lacrime di
sgorgare. Perché le faceva tanto male? Perché
voleva costringerla?
«Non
sono pronta».
«Non
lo sarai mai, se non ti alzi».
Judith
le aveva accarezzato il volto con quelle sue dita gentili e fredde, che
a
contatto con il suo viso congestionato sembrarono tracciare delle linee
invisibili sulla pelle. Aveva continuato a sfiorarla, a passarle le
mani tra i
capelli, finché Marike non aveva scoperto lo sguardo umido.
«È
proprio necessario?»
Judith
aveva annuito con un sorriso triste, e le aveva dato una mano per
aiutarla a sollevarsi.
La prolungata posizione supina le aveva fatto addormentare i muscoli,
quindi
ebbe qualche difficoltà con l’immediato senso di
vertigini, ma quando ebbe
finito di prepararsi già andava meglio. Mentre era in bagno,
Judith aveva
aperto le finestre e aveva lasciato che i raggi del sole cadessero
obliquamente
sul suo letto, che l’aria viziata cambiasse. Si era fatta
coraggio, pensando
che bisogna sempre iniziare con piccoli passi.
«Ce
la farai», le aveva sussurrato Judith, prendendole una mano e
scortandola
fuori. Marike, in tutta onestà, non sapeva se crederci.
E poi ci sono
quelle volte che mi do fastidio da solo,
ma cosa devo
fare per farmi andare bene?
Testate contro
il muro o preferisci uscire
da questa apatia
generazionale del cazzo,
alimentata a
strisce per meglio scappare da una realtà di fatto?
[Linea
77 - Il Mostro]
Di
cosa si era innamorata? Di quale caratteristica di Elsbeth?
Le
bastava sentire il suo profumo per sentirsi completamente spaesata. La
sensazione del suo corpo caldo così vicino a lei la
ossessionava, ma nello
stesso tempo non riusciva ad immaginarsi come due fidanzate. Non
riusciva a
considerare la relazione tra due donne come una cosa giusta, ma questo
solo
perché sapeva che non lo era per Elsbeth. Aveva il terrore
di ciò che sarebbe
accaduto se lei avesse saputo dei suoi sentimenti, perché
qualsiasi scenario
potesse immaginare andava ben oltre al semplice rifiuto. Era
l’annientamento di
sé, della sua persona.
Aveva
sempre sentito dire che quando ci si innamora di una persona si vede
tutto
rosa. Il classico cinguettio degli uccellini, la felicità
nel cuore. Ebbene,
lei non aveva mai provato nulla di tutto ciò. Si era resa
gradualmente conto di
amarla, e un giorno aveva sognato che condividevano quel tipo di
relazione che
mai avrebbero potuto avere nella realtà. Gliene aveva
parlato con il riso sulle
labbra ma l’angoscia nel cuore, studiando la sua reazione con
profonda
attenzione. Elsbeth aveva sorriso e aveva fatto una battuta, ma
c’era stata una
smorfia sul suo viso. Era in tutto quell’attimo che Marike
aveva compreso fino
in fondo la tragicità di ciò che stava accadendo.
Era iniziato un processo la cui
conclusione non comportava altri esiti che la sua perdita, e non era
nemmeno in
grado di fermarlo. Oh, se solo avesse potuto mettere un bavaglio al
profondo
grido di dolore dentro di sé! Se solo avesse potuto
eliminare i suoi sentimenti
come un cancellino passato su di una lavagna… sarebbe
tornato tutto come prima.
Tutto come doveva essere, tutto come sarebbe sempre
dovuto essere. Perderla era ben più doloroso che
l’amarla
senza avere alcuna speranza.
Questo
suo affetto degenerato (il termine degenerato era essenziale, per lei,
per
l’accezione negativa che ne dava) era stato una condanna dal
primo momento in
cui era nato. Un sentimento scomodo, che l’aveva resa solo
più infelice e sola,
e che non poteva confidare a nessuno. Aveva il terrore che qualcuno ne
venisse
a conoscenza, perché c’era gente che le voleva
bene abbastanza da spingerla a
dichiararsi, convinta che ciò l’avrebbe fatta
stare meglio. Ma liberarsi del
peso l’avrebbe privata della sua presenza e questo, ormai le
era chiaro, non
era una condizione accettabile.
Era
iniziata così una lotta con sé stessa che
l’aveva lasciata stremata. Aveva
portato tutto dentro di sé, silenziosamente, per mesi e
mesi, incupendosi pian
piano e non lasciando che nessuno venisse a contatto con la sua
disperazione. Era
arrivata al punto di odiarsi. Perché era fatta
così? Perché si era innamorata a
quel modo? Perché, di tutta la gente che conosceva, proprio
di lei?
Aveva
elevato Elsbeth ad uno status di totale innocenza, che lei aveva il
compito di
preservare. Se ne era allontanata inconsciamente, senza volerlo,
probabilmente
per non farla stare a contatto con tutto ciò che di
sbagliato aveva dentro di
sé. Poi era semplicemente accaduto che aveva aperto gli
occhi, una mattina, e
si era resa conto che il suo peggior incubo era sopraggiunto da molto.
Si era
già allontanata, e Elsbeth l’aveva lasciata fare.
Non l’aveva trattenuta.
E cammino a
testa bassa, nell’incertezza
che mi porto
sempre a fianco:
falsa e
vigliacca, mi consiglia
l’ennesima
rinuncia, l’ennesima condanna
a un sogno
appena accennato.
[Linea77
- Vertigine]
«Elsbeth,
tu pensi che siamo ancora unite come un tempo?»
Lei
l’aveva fissata dalla tavola della cucina, disseminata di
libri su cui stava
studiando. Aveva fatto scattare la penna un paio di volte e poi
l’aveva posata,
passandosi una mano fra i lunghi capelli scuri.
«No,
non lo penso».
In
quel momento Marike si sentì letteralmente investita da
un’ondata di gelido dolore.
Come se dell’acqua le premesse sul viso, senza farla
respirare, come se qualcuno
l’avesse appena presa a pugni nello stomaco.
«E
tu credi si possa rimediare?»
Elsbeth
aveva chinato il capo, ed erano trascorsi molti istanti di silenzio;
una totale
agonia.
«Non
credo. Sei cambiata, Marike. Non sei più la persona che
conoscevo».
Marike
deglutì a fondo, la salivazione aumentata improvvisamente
come prima di un
attacco di nausea. Dopo tutto… Dopo tutto quello che aveva
dovuto sopportare
per lei, per poterle stare accanto, Elsbeth non riusciva a sopportare
l’idea di
lei che stava male. Era cambiata? Certo. Era cambiata a tal punto che
nessuno
sarebbe più stato in grado di starle vicino?
Non
esisteva risposta.
Provò
una rabbia cocente. Come poteva essere così superficiale da
non capire? La
gente fugge dal dolore, anche da quello altrui. È una
reazione istintiva, e
l’aveva sempre accettato; ma poteva accettarlo da tutti, non
da lei.
«Mi
dispiace di essere diventata così, ma non posso farci
niente».
Era
diventata così per lei. Solo per lei. Pensava fosse stata
una scelta facile?
«Marike,
a dire la verità c’è qualcosa di cui
volevo parlarti. Sono diversi mesi che
esco con Luke, e mi ha chiesto di andare a stare da lui per un
po’. Sai, per
provare a vedere come sarebbe una convivenza. Non credo che a te
dispiaccia,
vista la tua attuale misantropia».
Quanto
dolore. Quanto dolore, tutto insieme. Marike la guardò con
una sorta di apatia,
e fece un cenno d’assenso con il capo.
«Per
me puoi andartene anche subito».
Era
tornata in camera e aveva aperto l’anta
dell’armadio, osservando la sua figura
nello specchio. Dimagrita, pallida, l’aria stanca e sfinita.
Lo sguardo spento.
Dio,
lei non aveva mai avuto uno sguardo spento.
Elsbeth
aveva ragione. Dov’era finita?
Chiuse
lo sportello, insofferente davanti alla prova della sua debolezza. Era
solo
colpa sua, non aveva saputo essere abbastanza forte. Elsbeth la stava
facendo
allontanare, e lei la lasciava fare, perché sentiva di non
aver bisogno di
qualcuno che non era in grado di affrontare i profondi baratri in cui
poteva
cadere.
L’aveva
fatto per lei. L’aveva fatto per amore. Si era distrutta,
sgretolata, aveva
fatto a pezzi il suo cuore pur di non perderla. L’adorava a
tal punto che aveva
cercato di smettere di amarla. Tutto in lei urlava:
“Guardami, guardami! Guarda
cosa mi ha fatto questo amore! Guarda cosa mi hai fatto tu! Guarda come mi hai ridotta!” (*)
Elsbeth
se ne era andata la mattina dopo.
Rifletto dentro
uno specchio la mia faccia
mentre il freddo
in questa stanza
è
come la
stretta di un gigante che mi abbraccia.
Un brivido mi
afferra la gola per buttarmi giù,
c’è
il letto
vuoto ed il silenzio sul quale scivolo.
Ma non le vedi?
Parole che ti rotolano addosso.
La vita ride di
te e tu fissi i tuoi stessi piedi.
[Linea77
- Il Mostro]
Ciò
che amava di Judith era soprattutto la sensazione che, qualunque cosa
avesse potuto
fare, lei le sarebbe sempre e comunque rimasta accanto. Credeva fosse
piena di pietà,
di umanità, di quella tolleranza verso i peccati che non
poteva propriamente definire
bontà. No, Judith non era
una persona
buona, non nel senso stretto del termine. Era una persona bella, ma non buona. Riusciva a perdonare
gli altri, ad analizzare il
loro comportamento, proprio grazie a quella sorta di indifferenza che
vigeva dentro
di lei. A meno che una persona non facesse volutamente del male
all’altra, questo
non la interessava minimamente. Marike non capiva se fosse una cosa
positiva, perché
sapeva che fine facevano le falene attratte dalla luce. Ed era
così che si sentiva,
come una brutta farfalla il cui destino era quello di bruciarsi le ali;
e, pur essendone
a conoscenza, non faceva altro che continuare a volarle intorno,
consapevole che
quella era ormai l’unica
cosa per cui
valeva la pena sopravvivere.
Le
voleva bene, le voleva immensamente bene. Non era certa di
ciò che provava, perché
dopo aver tentato tanto a lungo di reprimere il suo amore per Elsbeth -
aveva avvelenato
la terra in cui quel bellissimo fiore era stato piantato, facendo
spuntare un germoglio
già marcio
ma resistente, che aveva continuato a crescere, testardo e
orribile
a vedersi - non era facile accettare di poter amare qualcun altro. Non
si ricordava
più com’era il desiderare di dimostrare a qualcuno
il proprio affetto, a volte nemmeno
le importava più. Judith sarebbe stata lì per
lei, per sempre, e questo intorpidiva
la sua coscienza. Non aveva voglia di esporsi, non di nuovo, e quindi
viveva in
bilico, indecisa da quale parte cadere - perché sarebbe
inevitabilmente caduta,
prima o poi. Ciò che ancora non aveva colto era la
sofferenza di Judith, perché,
benché limpida, aveva un altro colore dalla sua. E Marike al
momento era troppo
egoista per poter pensare anche al dolore altrui.
Mi sembra
inutile restare
sospeso tra
l’ebbrezza e la vertigine
di una scelta
inevitabile:
restare immobile
non mi salverà.
[Linea 77 - Evoluzione]
Judith
continuava a maneggiare le carte, e Marike era rimasta colpita
dall’estrema concentrazione
che vi metteva nel posarle l’una sull’altra. Erano
già un paio di volte che quel
castello crollava su sé stesso, ma lei non perdeva la calma;
semplicemente, ripuliva
il tavolino e ricominciava daccapo, come se fosse un compito
estremamente importante
da portare a termine. Come se quello non fosse solamente un gioco.
Per
un attimo si chiese il perché di tanta cura, siccome era
chiaro ci dovesse essere
un altro motivo, ma non formulò la domanda. Ognuno di noi ha
le proprie piccole
manie, le abitudini che ci permettono di restare ancorati alla
realtà e di non impazzire,
che siano l’avere un bicchiere d’acqua sul comodino
la sera prima di andare a dormire,
il caffè la mattina o la fede nuziale sempre al dito. Misere
azioni che ci fanno
sentire meglio.
Violarle
sarebbe come violare la persona stessa.
«Stasera
resti qui?», le domandò, sentendosi patetica.
Perfino la sua sola presenza era in
grado di farla stare meglio, e sapeva che non sarebbe mai dovuto essere
così. Era
Marike stessa l’unica persona che poteva aiutarla, ma non
aveva ancora capito il
procedimento da usare. Judith alzò gli occhi dal suo lavoro
e rispose:
«Per
me va bene, l’unico impegno che ho domani è verso
sera».
Marike
annuì e andò a preparare la cena. Aleggiava una
strana atmosfera, carica di elettricità,
forse dovuta al temporale in arrivo. L’aria era pesante,
greve, umida. Asfissiante.
Si appoggiò al lavello e si passò una mano sulla
fronte; la testa le girava, le
ginocchia le tremavano. Sarebbe accaduto qualcosa, quella notte. Dopo
tanti mesi,
Marike aveva imparato ad odiare i cambiamenti improvvisi. Solitamente
lasciano dietro
di sé solo la più totale devastazione.
Quando
tornò in salotto per annunciarle che era tutto pronto, si
bloccò prima di aprir
bocca. Judith se ne stava seduta lì, totalmente vulnerabile,
chinata sulle proprie
ginocchia, la nuca scoperta e pronta al colpo finale. Davanti a lei si
ergeva l’unico
castello di carte che avesse mai visto in vita sua, e in fondo non si
stupì del
fatto che vi fosse riuscita; non era il tipo di persona che potesse
fallire.
Ecco
perché vederla così esposta la lasciò
tanto turbata. Che la sua figura di scintillante
diamante fosse in realtà fatta di fragile cristallo?
«Judith…»,
mormorò, incerta. L’altra alzò il capo
e le sorrise.
«Arrivo».
Già,
Judith ci sarebbe sempre stata, pur se questo le avrebbe fatto del
male. Perché
la sua non era una luce che poteva essere spenta.
Dovrei passare tutta la vita a
pensare alle cose che ho,
alle cose che vorrei,
al modo di raggiungerle
e poi a come difenderle?
Ma io non so cosa avevo prima
e non so quello che ho adesso.
[Linea
77 - Fantasma]
Si
era svegliata con un singhiozzo rinchiuso in gola, la sensazione di
star soffocando.
Aveva urlato nel sonno, se ne era resa conto solamente quando Judith
era arrivata
di corsa e l’aveva stretta a sé, cullandola
finché il respiro non era tornato normale.
Il corpo teso, gli occhi ancora pieni del corpo di Elsbeth steso su
quel letto,
immobile, bianco come non lo era mai stato, con una lunga cicatrice che
le attraversava
il volto perfetto.
«Che
cos’ho fatto, che cos’ho
fatto…», gemette, e la sua non era una domanda,
solamente
una constatazione. Gli occhi di Judith ebbero un guizzo violento,
mentre si sforzava
di controllarsi.
«Era
solo un sogno, Marike. Ora calmati, smettila di farti del
male».
Judith
le aveva preparato una tisana ed era tornata in salotto, lasciandola
studiare in
pace, benché fossero le due di notte, perché
sapeva che questo era l’unico modo
per smettere di pensarci. Prima o poi la stanchezza l’avrebbe
vinta e l’avrebbe
fatta sprofondare in un lungo torpore privo di incubi.
Ma
questa non era la soluzione, si disse, seduta per terra, guardando
negli occhi la
regina di cuori, padrona del castello. Neanche dimenticare era la
soluzione, doveva
solo perdonarsi. Ma Marike era troppo umana, troppo buona per farlo.
Amava troppo
per odiare qualcuno che non fosse sé stessa. Si
massaggiò le palpebre e avvertì
la sensazione che qualcun altro fosse insieme a lei in quella stanza;
si voltò di
scatto e si irrigidì immediatamente.
Judith
non aveva mai visto Elsbeth, non di persona, ma quando le si
presentò davanti
seppe già di odiarla profondamente. Era persino
più bella delle fotografie che
Marike ancora teneva in giro per casa, e soprattutto era lì,
era presente.
Faceva più paura del fantasma perlaceo che Marike evocava.
Sembrava
sorpresa di trovare qualcuno, ma il primo attimo di sconcerto
lasciò spazio ad
un sorriso. «Marike dorme?»
Annuì,
rimanendo a fissarla placidamente. Dentro ribolliva, ma non era sua
abitudine
far capire agli sconosciuti ciò che in realtà
pensava; non era un vantaggio che
era disposta a perdere. L’altra si guardò intorno
e poi si diresse verso uno
scaffale, prendendo in mano una vecchia e consumata copia di Anna
Karenina. Judith
continuava a fissarla dal basso, con quell’aria indifferente
e al contempo
sospettosa che i cani assumono quando il loro territorio viene invaso;
la calma
ferocia di un animale che, se avvicinato troppo, sarebbe saltato alla
gola del
nemico. «Ero solo venuta a prendere questo, era di mia madre
e ci sono
parecchio affezionata… Per la fretta del trasloco
l’avevo lasciato qui, non me
ne sono accorta prima di mesi».
Judith
di nuovo non rispose. Non si sentiva a disagio, ma voleva che lei
invece
provasse quella sensazione. Era venuta di notte, introducendosi come
una ladra,
senza avere il coraggio di affrontare Marike direttamente. Si
ripeté che effettivamente
non era colpa sua se non
era lesbica o non poteva corrisponderla, o addirittura per
quell’altra cosa, ma
questo non l’aiutò a
farla sentire meno arrabbiata. Aveva assistito al pianto di Marike,
alle sue lacrime,
al suo dolore, alle giornate in cui si sentiva talmente distrutta che
non si
sarebbe alzata dal letto neanche per prepararsi da mangiare. E la causa
di
tutto questo, pur se inconsapevole, era lì, ora, e si
comportava come se
nulla fosse accaduto. Dov’era lei quando
Marike invocava il suo nome? Dov’era lei nelle notti in cui
il sonno tardava a venire
ad alleviare quell’orrenda sensazione di inadeguatezza e di
angoscia?
Judith
odiava non riuscire ad essere razionale, ma per una volta tanto non le
importava.
«Vattene.
Non fai più parte di lei».
Elsbeth
la fissò a lungo, seriamente, prima di aprirsi in un sorriso
ironico.
«Io
ne farò sempre parte. Io
continuerò sempre ad
essere dentro di lei, per
quanto tu possa odiarne l’idea».
Continuava
ad aggirarsi per la stanza, sfiorando gli oggetti che una volta erano
stati
anche suoi, finché non le si ritrovò di fronte.
Si mise seduta sulla poltrona
davanti a lei, con il libro stretto fra le braccia, l’aria di
sfida.
«Elsbeth,
sei tu la morta, non lei. Vattene e lasciala in pace».
La
donna si fissò con aria noncurante le unghie, e Judith si
sentì invadere da
un’ondata di profonda frustrazione. Forse aveva ragione.
Forse davvero non
c’era modo per farla sparire definitivamente.
«Sai
benissimo che non dipende da me. È lei che continua a
riportarmi alla mente, e
non esiste un modo per evitarlo».
Il
castello di carte costruito qualche ora prima si stagliava tra le due
figure,
come a creare una barriera - ma chi era ad averne più
bisogno?
Judith
abbassò lo sguardo e mormorò:
«Non
è stata una sua responsabilità. E non puoi
davvero sapere se non sarebbe
accaduto comunque, una volta andatatene di casa».
Anche
Elsbeth chinò il capo. In fondo, non erano altro che due
donne innamorate -
l’una della vita, l’altra della devastazione.
«Non
gliene ho mai fatto una colpa. Questo non mi fa meno male, ma non
gliene ho mai
fatto una colpa».
«E
allora aiutala a tornare a vivere. È il minimo che tu possa
fare».
Guardando
quella testa piegata improvvisamente capì. Neanche Elsbeth
voleva davvero separarsi da Marike.
Questa
consapevolezza la ferì e la commosse nello stesso tempo.
Perché, perché era
così difficile lasciarsi il passato, le
persone, dietro le spalle? Forse perché i legami
sono l’unica cosa che ci
mantiene vivi. Forse perché siamo fatti
di
legami; di legami, di ricordi e di sogni.
«Amala.
Amala anche da parte mia».
Judith
annuì, ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Bastava
il suo, di amore, per
riempire quel piccolo corpo fino a farlo scoppiare.
Quando
riaprì gli occhi scoprì di aver pianto nel sonno.
Seduta sul tappeto, la
schiena contro il divano, aveva finito con l’addormentarsi
senza nemmeno
rendersene conto, le braccia serrate attorno al busto. Improvvisamente,
aveva
freddo.
Si
alzò in piedi e, nel farlo, notò che il castello
di carte era franato su sé
stesso. Questo le provocò una stretta al cuore e si
sentì tremendamente triste.
Quelle rovine di cellulosa plastificata erano l’emblema di
quale fine? Delle
sue speranze? Di Elsbeth? Doveva rassegnarsi oppure combattere, ancora
e
ancora?
Ripensò
a Marike, al suo sorriso, alla sua infinita bellezza. Era stanca di
vederla
soffrire, era stanca di vederla lasciarsi trasportare dalla corrente.
Avrebbe
fatto di tutto perché riuscisse ad ottenere la parte di
felicità a cui tutti
noi siamo destinati.
Vorrei sentire
la tua voce gridare, tentare, sbagliare;
non sopporto
più
di vederti morire ogni giorno innocuo e banale.
[Linea
77 feat. Tiziano Ferro - Sogni risplendono]
Judith
entrò silenziosamente in camera di Marike, come tante volte
aveva fatto in quei
mesi. L’altra stava semi-sdraiata a letto, cercando di
tradurre un’intervista
in tempo reale, esercizio che faceva spesso per tenersi in allenamento;
il
portatile sulle gambe, le cuffie per non disturbare il silenzio della
notte,
l’aria concentrata e tesa. Non c’era di che
stupirsi se non si era accorta di
nulla. Alzò appena lo sguardo e le sorrise, senza smettere
di battere sulla
tastiera.
Judith
cominciò a sbottonarsi piano la camicetta, arrivò
alla fine della fila e la
sfilò dai jeans scuri; abbassò la cerniera e si
tolse anche quelli. Marike nel
frattempo si era resa conto che stava accadendo qualcosa di strano e si
affrettò a togliersi l’apparecchiatura dalle
orecchie, spegnendo il computer e
mettendolo da parte. Provò a chiederle qualcosa, ma Judith
continuò a
spogliarsi in silenzio, finché non rimase completamente
nuda. Marike tentò
ancora una volta di intervenire, ma la bocca era talmente secca che non
vi
riuscì; d’altronde, nel giro di pochi secondi era
stata talmente assorbita dal
corpo privo di difese dell’altra, così bianco, da
considerare marginale
qualcosa di insignificante come il perché delle sue azioni.
Judith
si avvicinò al letto e vi salì con le ginocchia,
posizionandosi sopra l’altra,
lasciando che la sua femminilità si andasse a posare sullo
stomaco. Era
mortalmente seria quando le prese una mano e la posò su uno
dei suoi fianchi.
«Da
quanto tempo non fai l’amore con qualcuno?»
Marike
sgranò gli occhi e poi arrossì.
L’ultima volta che era stata con un ragazzo
risaliva a prima che si riscoprisse innamorata di Elsbeth,
quindi… tanto,
troppo. «Da quanto tempo desideri toccare una donna? Da
quanto tempo non ti basti
più?»
Judith
aveva sussurrato quelle domande senza smettere di fissarla.
Guidò la sua mano
fino ad uno dei due piccoli seni, la aprì e la
lasciò lì. Marike spostò
più
volte lo sguardo dai suoi occhi al suo seno, momentaneamente
ipnotizzata da quei
suoi gesti. Sentiva il cuore battere all’impazzata, il sangue
risalire alla
testa con ondate violente e dolorose, un fastidioso ronzio nelle
orecchie che le
impediva di ragionare con lucidità. Judith era bellissima -
Cristo, era davvero
bellissima - ed era la prima volta
che
la vedeva totalmente nuda. Questo bastava per farle mancare il fiato.
Judith
si alzò leggermente per sfilare da sotto di sé
l’orlo della lunga maglietta che
Marike utilizzava come pigiama e la aiutò a toglierla. Ora
il suo sesso era
completamente a contatto con la pelle liscia dello stomaco, zona che
sembrò
andare a fuoco. Judith le sganciò anche il reggiseno
sportivo, che aveva
la chiusura laterale, e si chinò su di lei fino
a far premere i loro seni caldi, fino a mormorare al suo orecchio:
«Ti
farò urlare così tante volte il mio nome che
crederai sia il tuo».
La
baciò e il gemito di Marike si perse nelle loro bocche. Per
un momento ebbe la tentazione
di fuggire via, ma qualcosa nella veemenza di Judith la fece desistere.
Riconobbe la stessa disperazione, la stessa angoscia che
l’avevano soffocata
quando nei suoi sogni faceva l’amore con Elsbeth ed era
perfettamente
consapevole che non rappresentavano la realtà. Quanto aveva
sofferto, in
realtà, nello starle accanto senza poterla raggiungere? Non
avrebbe potuto farlo,
non prima che Marike fosse totalmente guarita, almeno. Questa presa di
coscienza
la colpì a tal punto che si commosse. Le prese il viso con
le mani e la guardò,
sussurrando sulle sue labbra, mettendo a tacere le proteste che
già stava per manifestare
per essere stata allontanata da lei.
«Non
c’è nessuna fretta. Abbiamo tutta la notte
davanti».
Per
la prima volta da quando la conosceva, Judith le rivolse uno sguardo
umido. Le
baciò piano le palpebre e poi le prese la mano che aveva
appoggiato sul suo
petto, sfiorandone i polpastrelli con altri piccoli baci. Judith chiuse
gli
occhi e appoggiò la fronte contro la sua, lasciando andare
il gemito di dolore
che aveva sempre trattenuto - da quanto? Settimane? Mesi? Dalla prima
volta che
l’aveva vista?
Marike
l’abbracciò e la strinse forte a sé,
per farle comprendere che aveva capito. Che
aveva capito davvero.
Quando
quella mattina si svegliò e sentì i capelli
biondi di Judith accarezzarle la
spalla, Marike provò talmente tanta felicità che
credette di poter scoppiare.
Pianse silenziosamente, ma Judith si svegliò e se ne
accorse. L’abbracciò e
rimase lì, stretta a lei, a contatto con il suo cuore.
Judith
aveva visto fino in fondo tutta la sua desolazione e la sua vera
essenza. Ed
era rimasta.
Ora dimmi che
non avrò paura,
che quando il
buio arriverà sarò pronto a guardarmi in faccia.
Ora dimmi che
non sarò da solo,
che tenderai la
mano per salvarmi
dal vuoto in cui
mi trovo.
[Linea 77 - Vertigine]
Ovviamente,
Judith non vede davvero il
fantasma
di Elsbeth. È solo un frutto della sua immaginazione,
partorito durante il
dormiveglia; ha riversato in questa sorta di sogno le sue speranze e le
frustrazioni.
Sono
convinta che le risposte alle domande che abbiamo siano già
contenute in noi,
basta trovarle: ecco perché ho fatto riaffiorare certi dubbi
e domande, perché
in realtà Judith sa cosa deve fare.
Elsbeth
è morta? Non è morta? Volutamente ambiguo, anche
se la risposta è chiara, ci sono
vari indizi che lo confermano, disseminati qua e là.
Credo
sia tutto; al solito, consiglio l’ascolto delle canzoni
citate
(soprattutto Not strong enough, degli Apocalyptica
♥).
Salut!
Edit: Questa
storia si è classificata seconda al contest Titoli per l’amore
indetto da signorino__. Di nuovo, un grazie di cuore alla giudice e a
My Pride che ha sfornato dei banner assolutamente meravigliosi, e i
miei migliori complimenti alle altre partecipanti, soprattutto alla mia
amata Sore che si è classificata prima (tiè, lo
sapevo!).
Edit2:
Questa storia si è classificata seconda anche al contest Not
strong enough indetto da visbs88, che è stata
velocissima a giudicare *_* Si è anche aggiudicata il premio
Apocalyptica e questo mi riempie di amore (XD), dato che io li adoro e
venero. Davvero bravissime alle altre partecipanti, podiste e ad Ely79,
senza dubbio :)
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