Luce. Tanta,
spaziosa, immensa. Troppa. Troppa, troppa luce addosso, a riempire di colpo di
bianco lo schermo degli occhi, a cancellare di prepotenza tutto tranne se
stessa, tutto tranne l’impulso di serrare le palpebre, e difendersi sprofondando
di nuovo nel sonno.
E poi c’era il
peso. Il peso della braccia, delle gambe abbandonate tra le coperte,
un’oppressione che affondava nella consistenza arrendevole del materasso sotto
la schiena, la sensazione delle lenzuola sotto le dita.
Tatto.
Fuori, lontano,
amplificate dal sonno, le chiacchiere degli uccelli, su un sottofondo di alberi
e vento.
Udito.
L’odore
dell’aria… quell’aroma inconfondibile fatto di pelle, di profumo di sapone nella
federa, e, dietro, tutto il resto, lo sfondo dimenticato ed essenziale… oh, dio,
la facoltà, la fatica di respirare…
Olfatto.
E poi, se si
azzardava a riprovare a schiudere le ciglia, tutta quella luce, luce ovunque,
che si faceva più trasparente man mano che i suoi occhi vi si abituavano,
lasciando trapelare le linee del soffitto, il colore delle tende, l’intelaiatura
della finestra, le sue venature di legno.
Ma soprattutto,
sotto a tutto c’era quella sensazione… la presenza…
Aprì
completamente gli occhi. Poi provò a concentrarsi sul calore che avvertiva tutto
intorno, addosso, o forse dentro –non sapeva dire dove, ma lo percepiva- sulle
minuscole sensazioni che percorrevano invisibili strade, da laggiù, dai piedi
nudi contro le lenzuola, fino agli occhi e al pensiero, strade che sembravano in
qualche modo delimitare la sua essenza. Era difficile, difficile soprattutto
afferrare quell’idea confusa che si risvegliava in fondo al suo essere, quella
straniante impressione di familiarità…
Provò a muovere
le dita. Una. L’altra. Il gioco fluido del polso, l’altra mano. Piegare il
gomito, il braccio. Ancor prima di intuire il comando, ecco, già la risposta,
così pronta, logica, precisa…
Decisamente,
sembrava che avesse un corpo.
A lungo restò
ad ascoltare il mormorio silenzioso del suo esistere, ad ascoltare tutte le
sensazioni che affluivano insieme, disordinate ma così naturali, strane solo per
l’istante del contatto, e poi già impregnate di quel sapore quasi inconscio del
quotidiano.
Allora era
così, rinascere…
Rinascere… un
momento.
Nascere… di
nuovo… significava che lei doveva… doveva essere… morta.
Seishiro…
E infatti
ricordava. Ricordava tutto, perfetto come fosse accaduto da un attimo, confuso
solo verso la fine –annebbiate le ultime parole che aveva rivolto al suo
assassino, fuggevoli e stanchi gli ultimi pensieri, sicuramente tesi verso il
fratello, nel vago tentativo di abbracciare in un solo istante la sua vita e
tutto il suo futuro, un futuro felice…
Ma quando mai,
in qualsiasi religione, si era sentito che si potesse rinascere ricordando la
vita precedente?
Rinascere.
Rinascere… era l’idea, ancor più della situazione stessa, ad essere così
impossibile, così estranea, così inconcepibile, così…
Decise di
alzarsi. Sollevare la schiena e appoggiarla alla testata del letto le costò uno
sforzo enorme e un capogiro violentissimo. Poteva sentire il sangue pulsare
improvviso e affluire alla testa lentamente, cancellando pian piano le macchie
nere e le oscillazioni nella sua vista. Poggiare i piedi per terra –oh, il
freddo del pavimento- e tentare un passo… impossibile, assolutamente
impossibile, non erano le gambe che non la sostenevano, era che mancava
qualcosa, la coordinazione, forse.
Forse… forse,
per una volta, la maledizione dei Sakurazukamori non aveva funzionato, forse
qualcuno l’aveva salvata, e adesso si svegliava per la prima volta dopo una
lunga stanchezza… Ma allora dov’erano tutti? Dov’era la nonna, dov’era Subaru? E
dov’era, cos’era quella grande stanza sconosciuta in cui si trovava adesso?
Stavolta riuscì
a tenersi in piedi, e persino a muovere qualche passo. Sì, era tutto nuovo,
tutto strano, ma la cosa più estranea era quel peso addosso, le sembrava come di
essere tanto, troppo alta…
Uno specchio.
Un lungo specchio, dentro l’anta di un armadio socchiuso, attirò la sua
attenzione deflettendo un improvviso raggio di sole. Si avvicinò. E sulla sua
superficie d’argento, insieme alla violenta luce del giorno, si rifletteva
un’immagine che non conosceva.
Una figura
alta, davvero alta, esile, capelli neri nel leggero disordine del sonno, corti
sul collo; e, malgrado la delicatezza del volto, la camicia bianca aperta sul
petto mostrava senza equivoco la sottile muscolatura di un uomo.
Arrossì
violentemente, volgendo d’istinto lo sguardo dallo specchio. No, non era
possibile, non era lei, non poteva essere lei…
Era… dentro il
corpo…
Era dentro il
corpo di un uomo…
Ma poi, una
microscopica rifrazione di verde scorta nello specchio con la coda dell’occhio
la fece girare di nuovo.
Ed era proprio
così. L’immagine sul vetro aveva occhi color smeraldo cupo, appena accesi e resi
trasparenti dal riverbero del sole. E subito la tinta di quelle iridi stupefatte
si sciolse dietro un velo di lacrime, nello stesso istante in cui la sua visuale
si sfuocava, e si disfaceva.
Subaru…
Non poteva
essere che Subaru… anche se era tutto così diverso, così cambiato, anche se era
sparito tanto di quello che ricordava di lui e che le era familiare più d’ogni
altra cosa, non poteva essere che Subaru… Perché la figura nello specchio pareva
una naturalissima, elegante variazione sul tema delle sue memorie, e tutto la
costringeva ad ammettere che, se mai nell’inconsapevolezza dei suoi sedici anni
avesse immaginato suo fratello da grande, avrebbe disegnato un ritratto come
quello.
E adesso
piangeva non più solo per l’inverosimile emozione di trovarsi dentro Subaru.
Adesso piangeva perché infinite volte aveva immaginato come sarebbe stata lei
da grande –come sarebbero caduti su nuove guance i capelli più lunghi, come
si sarebbe truccata gli occhi e le labbra più piene, come sarebbe sbocciata
quella promessa accennata nelle sue forme immature, in cui premevano già
impazienti, dentro, i cambiamenti.
Una promessa
che non sarebbe fiorita mai…
Poi,
lentamente, i singhiozzi cominciarono ad abbandonarla, mentre lei cercava di
asciugarsi le lacrime nella manica della camicia sgualcita. Le sfuggì un mezzo
sorriso: Subaru dormiva vestito… Non lo poteva lasciare un minuto da solo, che
già si trascurava… Osservò ancora una volta il riflesso del suo corpo, i begli
occhi dalle lunghe ciglia nere, il viso fine e senza difetti; decisamente, ce
n’era abbastanza da far cadere ai suoi piedi qualsiasi ragazza, però era magro,
un po’ troppo magro… Spontaneo le salì alle labbra il rimprovero:
“Mangi
abbastanza, Subaru?”
Si tappò di
scatto la bocca con le mani. Quella voce… da dove diavolo veniva quella voce
profonda e bassa –così vibrante in gola- quel suono mille miglia lontano sia
dalla sua voce squillante che dal tono sempre leggero e ansioso del fratello che
ricordava lei? Le scappò una risatina, roca e grave anche quella: beh, a quanto
pareva, questa doveva essere la voce del Subaru adulto.
Adulto… ma
quanto adulto?
Un familiare
morso allo stomaco la distrasse da quel pensiero, la risposta alla sua domanda:
Subaru non mangiava abbastanza… Come per un riflesso incondizionato
attraversò la stanza, aprì la porta e scese le scale, con la mente ovattata,
come ubriacata dal peso di quel corpo che non riusciva a bilanciare sulle gambe,
stordita da tutte quelle sensazioni così fisiche, dall’affollarsi di tutte
quelle reazioni troppo nuove –antiche?- e automatiche che le facevano piegare le
giunture, scendere i gradini, appoggiare le dita sul corrimano.
Al piano di
sotto, la luce era ancora più intensa, si diffondeva in tutto il vasto ambiente,
batteva sull’acciaio della cucina in fondo alla stanza. Che casa era quella? Non
la residenza di famiglia a Kyoto, non l’appartamento suo o quello di Subaru
nella capitale, e nemmeno i corridoi stretti e le note stanze della casa a
Shinjuku sopra la clinica, la casa di…
Sul tavolo, in
bell’ordine, aspettavano una ciotola di riso, bacchette, una porzione di
frittelle e la caraffa del tè. Si bloccò. Chi aveva preparato la colazione?
Con chi
viveva Subaru?
“C’è
nessuno?” tentò, ma le rispose solo l’eco della sua voce, ancora straniera alle
sue orecchie. Era mai possibile che…
Sei-chan…?
Il cuore le
sobbalzò, ancora più forte di come avesse fatto fino ad allora, un’infinità di
possibilità incredibili prendevano forma e correvano l’una addosso all’altra… Ma
poi si avvicinò ad un piccolo mobile, dove, insieme al telefono e ad un giornale
piegato, baluginava il rosso di un fermaglio da donna.
Subaru viveva
con una ragazza?
Con il sangue
che pulsava sempre più forte nei polsi e la mente affollata di interrogativi, si
girò verso il corridoio ed ebbe la sua risposta.
Appesi al muro
pendevano due giubbotti sportivi, un lungo cappotto leggero, bianco, una casacca
di un’uniforme scolastica, molto più piccola degli altri abiti, e due giacche
femminili, di taglie diverse. Troppe cose per una persona sola. Troppe anche per
due. E nulla neanche vagamente della misura di Seishiro.
Un altro morso
di fame la guidò verso la colazione sul tavolo, ancora tiepida. Buona… almeno
c’era la consolazione che ci fosse qualcuno di bravo in cucina a prendersi cura
di suo fratello, senza fargli troppo rimpiangere i suoi memorabili piatti… Si
leccò le dita dopo le frittelle: un gesto che né il Subaru adolescente né,
presumibilmente, quello adulto avrebbero fatto mai… Rise. E la risata le si
spezzò sulle labbra.
Il giornale…
Corse
furiosamente al mobile del telefono, spiegò in un solo gesto i fogli. E, insieme
alle foto di palazzi in fiamme e al titolo disperato in caratteri cubitali,
c’era la data: 5 settembre 1999.
Scivolò con la
schiena lungo il muro, a seppellire le lacrime nelle ginocchia strette al petto.
E se poco prima la sua vita, la vita di Hokuto Sumeragi pareva distante solo un
attimo, un battito di ciglia dal suo risveglio, adesso era ai suoi occhi
infinitamente lontana, una nave già partita e già svanita dietro la curvatura
dell’orizzonte, separata dallo spazio di chilometri di deserti dal mondo così
concreto di quella casa, di quel muro, di quel giornale e degli uccelli sugli
alberi, fuori dalla porta. Sentiva, instabile come nausea, invadente come acqua
ghiacciata nei vestiti, la sensazione di non appartenere a quel luogo, né a
nessun altro, di non avere il diritto di sentire quelle lacrime bruciare e poi
gelarsi sulle guance, di camminare, di vedere la luce accecante di quel mattino.
Era passato
così tanto tempo… un tempo che non ricordava, che non aveva vissuto, scavalcato
in un istante per farla svegliare, un giorno, in un corpo non suo, in una
stagione non sua…
E allora perché
si trovava lì, nel corpo di Subaru?
Di nuovo si
passò le dita e la manica sul viso bagnato, asciugandosi poi la mano sulla
stoffa scura dei jeans; infine recuperò il giornale dal pavimento, lo aprì.
Forse era
passata mezz’ora quando si rialzò da terra per richiudere il quotidiano e
rimetterlo al suo posto sul mobile; probabilmente non aveva mai passato tanto
tempo in vita sua a leggere un giornale. Ringraziando mentalmente per la
colazione, infilò gli stivaletti lasciati nel corridoio e poi il cappotto che
sembrava essere il suo, quello bianco, e uscì di casa.
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[Note…
Che dire…
Innanzitutto, che la scintilla d’ispirazione che ha trasformato un semplice
abbozzo d’idea in questo racconto mi è venuta leggendo “Sakura and Snow”, una
delle straordinarie fanfiction di Natalie Baan… -Thank you from the bottom
of my heart, Natalie! ^__^ Because you let me utilize the
inspiration you gave me, but most of all because you always make me dream with
your works!-
L’ambientazione è
intorno alla prima parte del vol.11 di X; ho immaginato che a Subaru potesse
capitare qualche volta di fermarsi a dormire alla residenza degli Imonoyama… E’
solo che mi piace tanto quell’atmosfera di casa che si respira in quel numero
del manga…
Il mio obiettivo era
cercare di mettermi negli impossibili panni di qualcuno che si è disabituato
alla vita… qualcosa di simile al risveglio la mattina, la difficoltà di mettere
a fuoco le sensazioni e i luoghi, ma naturalmente ad un livello molto più alto.
Mi auguro di aver almeno suggerito l’idea, e soprattutto di non avervi annoiato…
Vi prego di farmelo sapere, e di informarmi di qualsiasi critica abbiate! In
particolare, grazie alle chiacchiere con Juuhachi Go riguardo a “Incontro”, ho
cercato stavolta di migliorare la chiarezza espositiva (anche se qui la
situazione era ancora più intricata!), ma anche di mantenere un alone di
mistero, di sospensione.
Beh, questo sarebbe,
nelle mie intenzioni, soltanto il primo capitolo… sempre che ci sia qualcuno che
abbia voglia di leggerne il seguito!^^
Colgo l’occasione
per un saluto a Kairi84, perché non ho ancora avuto modo di ringraziarla per
aver commentato molte delle mie fic, quindi lo faccio adesso!^__^
Allora a presto,
spero! E grazie di aver letto!! –Shu- ]
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