Welcome
to my life
Do
you ever feel like breaking
down?/ Do you ever feel out of place?/ Like somehow you just
don’t belong/ And
no one understands you/ Do you ever wanna run away ?/ Do you
lock yourself
in your room ?/ With the radio on turned up so loud/ That no
one hears you
screaming.
Ci sono alcune canzoni che sembrano
scritte apposta per noi. Ecco, questa è una di quelle,
scritta apposta per me,
su misura come un bel vestito. In 3:22 sono racchiusi i sedici anni
della mia esistenza,
il più breve riassunto che sia mai stato creato. Mi piace
immaginare la mia
vita come una tela infinita ad acquerelli; fino ad ora il colore che
predomina
è il grigio, quel grigio scialbo e slavato che ricorda tanto
la bruma che
talvolta si degna di ricoprire pietosamente quell’ammasso di
insulsi fantocci
che è più comunemente detto città. Qua
e là ci sono sprazzi più chiari, in
qualche raro caso arrivano al bianco, nella maggior parte tendono al
nero.
Strano che ora il nero sia il mio colore preferito: mi ha sempre
spaventato con
quella sua tonalità così carica, viscosa e
abbacinante, la stessa che mi
avvolgeva quando chiudevo gli occhi per non vedere e tappavo le
orecchie per
non sentire. Non ci sono persone sulla mia tela, nessuno è
degno di apparirvi,
neppure come ombra fugace; con qualche sforzo si scorgono contorni
sfumati
riconducibili a luoghi, per lo più alberi dai rami
intricati, come la mia
mente. A volte l’ingarbuglio dei miei pensieri mi spaventa e
forse è per questo
che cerco sempre di tenermi occupata: studio, leggo, faccio sport,
tutte
attività che richiedono massima concentrazione, che equivale
a nessuna via di
fuga. Purtroppo capitano momenti in cui non hai la forza di impegnare
anima e
corpo in qualcosa che ti impedisca di soffermarti a riflettere su
quello che ti
accade, che ti è accaduto e che ti accadrà e
questi sono i momenti peggiori,
perché quando la diga si rompe ci vogliono metri e metri
prima che le acque
assumano un andamento tranquillo e regolare, metri durante i quali
c’è la
possibilità che l’acqua possa uscire dagli argini
e travolgerti.
Ma queste
non sono che elucubrazioni di una persona troppo chiusa, troppo sola e
troppo
incompresa, che quando inizia a scrivere riversa sulla carta in maniera
confusa
tutto ciò che vorrebbe riversare sul mondo, ancora troppo
ostile per essere
degno di raccoglierlo. Lo so, pecco di presunzione, ma una smisurata
autostima
a volte è l’unica cosa che ti sorregge,
impedendoti di cadere nel baratro
dell’apatia, di amalgamarti alla massa di automi privi di
volontà che popolano
questo insulso mondo. Mi sento come un alieno sceso sulla Terra, o
meglio, come
un umano approdato su Marte: totalmente fuori luogo in ogni luogo, da
casa, a
scuola, alla piazzetta illuminata dai lampioni il sabato sera. Triste,
qualcuno
potrà pensare, ma non sempre è così.
C’è una sorta di perversa ed insana
soddisfazione nel constatare l’abisso che si estende fra te e
gli altri, ologrammi
di una società in via d’estinzione, che
s’incammina veloce verso
l’autodistruzione.
Pensare che fino
a
qualche anno fa avrei dato tutta la mia non indifferente intelligenza
per
essere come uno dei miei tanti stolti compagni, per vivere nella loro
casa,
avere i loro genitori, giocare con i loro giochi; ora mi rallegro che i
desideri siano solo parole vuote, pronunciate in un eccesso di gioia, o
tristezza. Non che ora non ne esprima, ma si sa, i vizi sono duri a
morire.
Adesso, ogni mattina, mi sveglio e inizio a recitare, fino a sera,
quando poso
la maschera sul comodino e faccio il bilancio della giornata,
crogiolandomi in
quei pochi attimi di beatitudine e assaporando il gusto amaro delle
solite
delusioni. Giusto ieri pensavo ad una cosa: è buffo come
nell’immaginario
collettivo la ricchezza sia sinonimo di felicità e
appagamento, come se davvero
i soldi potessero comprare un sorriso o chissà,
un’amicizia vera. Io ne sono
l’esempio più lampante: famiglia benestante, per
non dire disgustosamente ricca
e zero persone in cui riporre anche solo un misero briciolo di fiducia.
Fin da
quand’ero piccola sono sempre stata un po’
emarginata, un po’ volontariamente,
un po’ perché gli altri, dopo i primi approcci
infantili e chiassosi, vedendo
che non rispondevo con lo stesso tono, mi lasciavano in pace; a
ciò va
aggiunto, col passare del tempo, la consapevolezza delle persone che mi
circondavano
che ero “troppo matura per la mia età”,
frase che continua ad essermi ripetuta
alla nausea ancora adesso. Con il passar del tempo la differenza fisica
rispetto agli altri aumentava di apri passa con quella comportamentale;
i miei
compagni di svago divennero sin dall’asilo i libri,
l’unica porta che si apriva
su un mondo fatto su misura per me, dove ogni volta potevo impersonarmi
in
qualcuno di diverso, di accettato da tutti: una volta ero Robin Hood
che
guidava i suoi allegri compagni in scorribande per i boschi, una volta
ero
l’eroina che lottava a fianco di draghi ed elfi contro il
cancro maligno che
minacciava di devastare il mondo, un’altra ancora ero
un’orfanella che cresceva
da sola, imparando a sopravvivere e a disprezzare tutto e tutti. Era,
ed è
tutt’ora, il mio nascondiglio, la dimensione parallela in cui
so sempre di
potermi rifugiare, per qualsiasi cosa; è un po’
come un balsamo con cui curare
lenire tutte le ferite, una sferzata di vita paragonabile alla boccata
d’aria
che ti infiamma i polmoni dopo che hai nuotato a lungo
sott’acqua. Spesso la
uso come una droga, specialmente dopo che parlo con i miei, o meglio,
tento di
parlare, perché la maggior parte delle volte il mio
tentativo si riduce ad un
umiliante monologo con la copertina di un quotidiano aperto sulla
pagina
politica, le mie parole spente che s infrangono contro
l’invalicabile muro
dell’indifferenza, e, cosa ancora peggiore, contro vuote
parole di cortesia,
prive di colore che si amalgamano sulla mia tela, compattandone la
trama.
Questa è una peculiarità dei miei: trattare
tutti, dalla domestica al cane dei
vicini, con affettata cortesia, addirittura quando litigano non
esplodono mai,
limitandosi a sfiorare appena il limite. Benché fin da
piccola affascinata dal
mondo precluso ai più della casta degli avvocati, vedendo il
comportamento dei
miei genitori, la mia determinazione ad entrare a farne parte ha
più volte
vacillato; se diventassi come loro? Se raggiunta la fama, la
popolarità, la
“gloria”, mi riducessi ad essere una loro copia? Ecco a cosa serve
l’autostima: ad avere il
coraggio di andare avanti, sostenuti dalla consapevolezza delle proprie
capacità e poco importa che ciò sia da
egocentrici...almeno non aggiungo al mio
fardello anche quello della debolezza.
A
volte, quando
non posso infuriarmi con nessuno, lo faccio con me stessa; questo
capita quando
prendo un voto inferiore rispetto a quello che mi aspettavo in base
all’impegno
nello studio, quando commetto stupidi errori di distrazione, quando
intorno a
me non vedo che ingiustizie e soffro, quando sono lacerata tra cuore e
mente,
quando non posso dare la colpa che a me. Quando, a dispetto di tutti i
miei
principi più saldi, a dispetto di tutte le parole cariche di
frustrazione che
mi rimbalzano nella mente, mi comporto da stupida,o meglio, il mio
cuore lo fa.
Sì, credo sia lui il mio peggiore antagonista, uno stupido
ma essenziale organo
che inietta sostanze malefiche nel sangue che pompa ininterrottamente
al
cervello, mandando in tilt tutte le mie convinzioni. E lo so che
è l’eredità
lasciataci dalle belle favole a farci credere che sia davvero il cuore
la sede
di ogni emozione, ma non importa, per me è e
rimarrà il più infido compagno. Mi
obbliga a cadere in quel baratro
infinito che è l’affetto e, per quanto mi suoni
falsa questa parola, l’amore.
Perché per quanto mi sforzi, per quanto mi impunti, non
riesco a non voler bene
ai miei genitori, non riesco a non amare questo mondo che tanto
disprezzo, non
riesco nemmeno a non soffrire davanti all’ostilità
degli altri nei miei
confronti. Non riesco a non pensare a tutto questo, non riesco a
smettere di
sputare veleno appena apro bocca, non riesco a smettere di invecchiare
dentro,
un po’ come Dorian Gray, ma almeno lui aveva la sicurezza di
mantenere intatte
le apparenze, mentre io? Io non so quanto a lungo reggerò
con questa lotta
dentro di me, questa continua opposizione che ho paura mi
porterà a diventare
una persona disillusa, che vive di odio e rancore, che si attacca
meschinamente
a quelle poche muffite convinzioni. Perciò non mi rimane che
vomitare tutto su
questa manna chiamata foglio bianco, che accoglie i miei sconclusionati
pensieri senza battere ciglio, senza sconvolgersi per la loro
assurdità e
mancanza di logica, e, soprattutto, che mi fa sentire libera e leggera
ogni
volta che finisco di vuotare la mia anima.
Se siete
arrivati fin qui
sbadigliando, maledicendomi per la mia tendenza ad usare metafore
strampalate,
consigliandomi mentalmente di smetterla di scrivere, grazie.
Se siete
arrivati fin qui senza
accorgervi delle righe che scorrevano, apprezzando anche solo un
pochino il
modo in cui ho cercato di esternare e di mettere nero su bianco dei
sentimenti
(la cosa a mio parere più difficile nello scrivere), se vi
siete ritrovati in
qualche frammento, doppiamente grazie.
Alexia
|