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ATTO IV: LONDRA
› ANNO APPROSSIMATIVO 1985
LA FINE
DEL SOGNO
Erano
trascorsi quasi dieci giorni dal mio arrivo in quella città
così simile a
Londra, e ancora non ero stato in grado di ritornare alla mia epoca in
nessun
modo.
Nel tempo passato con quello
Stephen, avevo parzialmente imparato a conoscerlo per quello che era e
non per
quello che credevo che fosse, e, sebbene tra noi ci fossero ancora
delle
incomprensioni e dei momenti in cui pensava che io straparlassi,
sembrava stesse cominciando a rendersi conto che, seppur in
un’altra
vita, in un altro tempo o in un’altra dimensione, ci
conoscevamo più di quanto
lui volesse ammettere a se stesso. Era ancora scettico,
però, esattamente come
la prima mattina in cui ci eravamo ritrovati a fare colazione insieme;
eravamo
usciti come aveva annunciato lui, poi, incontrandoci con un certo
Dawson
Morrison, un vecchio avvocato che un tempo aveva lavorato per la
famiglia O’Neal.
Aveva blaterato per ore ed ore con Stephen senza che io capissi un
accidenti di
niente.
Io ero stato costretto a seguirlo solo
perché non si
fidava a lasciarmi
solo in casa - e a ragione, avrei detto -, e di spostare la data per
incontrare
quel tipo neanche a parlarne. Così ero rimasto seduto su una
poltrona ad
ascoltarli ciarlare senza potermi però muovere, quasi fossi
stato un bambino di
tre anni o un detenuto agli arresti domiciliari. Quando tutto era
finito, avevo
ringraziato l’Onnipotente per l’aver fatto
terminare quello strazio,
guadagnandoci un’occhiataccia da Stephen prima che mi
guidasse al Cafè in cui
andava sempre a pranzare. E a distanza di dieci giorni,
durante i quali non erano mancate nuove minacce, ci trovavamo ancora
una volta
lì per far colazione. La bella insegna che recitava
Illusions, dreams and
farplane [1]
era spenta, ma riusciva comunque ad attirare
talmente tanti clienti
grazie ai
suoi colori sgargianti che quasi me ne meravigliavo.
Seduti a quello che avevo scoperto
essere il solito tavolo di Stephen, scrutavamo entrambi il
menù in silenzio,
non volendo impelagarci momentaneamente in nessun tipo di discussione.
Fuori
aveva ricominciato a nevicare, e candidi fiocchi cadevano ad imbiancare
le
strade e i marciapiedi, cogliendo impreparate le persone che non
avevano ancora
trovato riparo. In quel Cafè dal gusto un po’
retrò si stava decisamente bene,
invece, e l’atmosfera creata dal chiacchiericcio degli altri
clienti e il
calore che si diffondeva nel locale erano confortanti.
«Cosa vi porto oggi,
Steve?»
Janet, la giovane cameriera che lavorava all’Illusion fino
alle cinque del pomeriggio, si era accostata al
nostro tavolo e sorrideva raggiante, stringendo a sé penna e
blocchetto mentre
fissava Stephen con occhi sognanti. Avevo capito sin dal primo sguardo
che
stravedeva per lui, ma il diretto interessato sembrava non averci fatto
caso o
non curarsene affatto. Con dispiacere della ragazza, c’era da
aggiungere.
Stephen alzò piano gli occhi
dal
menù e guardò me prima di spostarsi verso di lei,
sorridendo appena in risposta
per pura e semplice cortesia. «Per me il solito»,
disse, guardando nuovamente
me subito dopo. «Tu cosa prendi?» mi chiese, e mi
affrettai ad abbassare ancora
una volta gli occhi sul menù per dare una scorsa alle
cibarie.
«Credo che prenderò
la specialità
della casa», annunciai, al che Janet si abbassò un
po’ verso di me, ma solo
dopo aver controllato attentamente che il capo non guardasse.
«Detto fra noi, quella roba fa
schifo», bisbigliò, nascondendosi la bocca
con una mano per far sì che
non la notassero. «Ti consiglio il bacon o le uova
strapazzate. Sono
decisamente più commestibili».
Mi accigliai, ma mi sforzai di
abbozzare un sorriso. «Vada per le uova, allora»,
rettificai, e lei si strinse
contro i piccoli seni il blocco per gli appunti, accennando con il capo
ad un
saluto e facendo a Stephen quello che mi sembrò un
occhiolino.
Sebbene una minuscola parte di me
si stesse rodendo il fegato di gelosia ingiustificata, mi lasciai
sfuggire uno
sbuffo ilare. «Tra voi non è successo niente o fai
solo finta per non farla
finire nei guai?» domandai con il tono più
distratto che riuscii a trovare, ma
ne uscì solo una pessima imitazione. Sembrava più
il rimprovero di una moglie
al marito che aveva appena guardato il sedere
d’un’altra donna.
Sollevando un sopracciglio e
sistemando come se nulla fosse il colletto del giaccone che indossava -
si era
rifiutato di toglierlo anche se l’interno del Cafè
era piuttosto caldo -,
Stephen mi rivolse il primo sorriso malizioso e sarcastico che gli
avessi visto
da quando avevo messo piede in quell’universo parallelo.
«Perché non provi a
indovinarlo con i tuoi poteri, ciarlatano?»
rimbeccò, tornando a studiarsi
tranquillo il menù sebbene non ce ne fosse per niente
bisogno. Un modo come un
altro per dirmi di tenere la bocca chiusa, supposi. Forse - anzi,
sicuramente,
mi corressi - quelle mie scenate che puzzavano un po’ di
gelosia erano fuori
luogo.
Janet tornò una quindicina di
minuti dopo con tutto ciò che avevamo ordinato, compresi due
bei caffè amari
che offrivano come omaggio ad ogni cliente. Posò dinanzi a
noi le rispettive
pietanze, salutandoci ammiccante prima di scattare verso due tavoli
più in là,
dove una coppietta la stava richiamando con una mano. Nuovamente soli,
o almeno
per così dire, io e Stephen ci concentrammo solo sul nostro
cibo, evitando
ancora una volta qualsiasi tipo di conversazione.
Fu una colazione noiosa e
silenziosa, quella. Non parlammo nemmeno di come avremmo potuto agire
riguardo
a Margaret, come se quella, per il momento, dovesse restare una
questione
arginata. Eppure il tempo passava e noi non facevamo nessun progresso,
mentre
lei continuava a mandare i suoi messaggi enigmatici e le sue
convocazioni per
Stephen, alle quali lui non presenziava mai. Io ero ancora
dell’idea di
raccontare tutto alla polizia, specialmente da quando avevano tentato
di
sparargli e in seguito di investirlo - era successo quasi sei giorni
addietro -,
ma quello stupido era convinto che così facendo avremmo solo
peggiorato la
situazione. Non ero naturalmente d’accordo e cercavo di
fargli cambiare idea da
ormai dieci giorni, senza però ottenere nessun risultato
considerevole. E più
aspettavamo, più quelle sensazioni negative che
imperversavano nel mio animo
continuavano. Davanti ai miei occhi, ormai sempre più
spesso, scorrevano
frammenti di visioni che mi mostravano solo scene confuse e sfocate,
come se si
trattasse di una vecchia pellicola che non sarebbe mai più
tornata nitida come
un tempo. E più quelle visioni si presentavano,
più la mia ossessione di porre
fine a quella storia aumentava, spingendomi a divenire sempre
più pressante nei
confronti di Stephen.
Dopo aver finito di mangiare,
sorseggiai il caffè con una certa ansia, facendo saettare
gli occhi a destra e
a manca con fare guardingo, quasi mi aspettassi di veder piombare in
quel Cafè
un qualche pericolo per l’incolumità di quello che
era ormai diventato il mio
protetto. In altri momenti sarebbe stato divertente passare del tempo
con Steve
- il mio
Steve, rettificai -, ma la situazione in cui io e quel sosia
ci
eravamo ritrovati non era di certo una delle migliori.
«Se hai finito, possiamo
andare», disse
Stephen di punto in bianco, controllando il proprio orologio.
«Oggi faccio
volontariato in ospedale e non posso arrivare in ritardo».
Ingollai un altro sorso di
caffè,
sollevando al tempo stesso un sopracciglio per rendere palese il mio
scetticismo. «Fai volontariato?» gli domandai,
lasciando trasparire dalla mia
voce anche un pizzico di ammirazione. «Pensavo che, con tutti
i soldi che avessi,
te ne stessi tutto il giorno seduto su una poltrona in ufficio a
dirigere
chissà quale grande azienda».
Steve sbuffò ilare,
alzandosi in piedi mentre afferrava al tempo stesso il portafoglio
dalla tasca
interna del giaccone. «Diamine, mi sembra di sentir parlare
mio padre, pace
all’anima sua», constatò sarcastico.
«Lavorare in ospedale, anche se
occasionalmente, mi fa sentire... bene.
In un ufficio appassirei senza
aver mai
fatto qualcosa per chi ne ha davvero bisogno».
Per quanto morissi dalla voglia di
farlo, lui non mi permise di aprir bocca, quando terminò;
lasciò sul tavolo i
soldi per pagare il conto, allontanandosi dal tavolino che avevamo
occupato
fino a quel momento per avviarsi verso l’uscita, senza farmi
cenno di seguirlo
né tanto meno richiamandomi per impormi di darmi una mossa.
Non seppi perché lo
fece, ma quello di cui fui certo fu ben altro: l’ospedale,
per Stephen, era
tutta la sua vita. E lo costatai anche quando ci ritrovammo dinanzi
all’edificio stesso - di una maestosità tale da
renderlo impressionante, con
quel grande giardino e gli alberi sempre verdi innevati -, dove lui
sembrò così
diverso dallo Stephen che avevo visto fino a quel momento. Assegnato al
reparto
di pediatria, quando si ritrovava in compagnia dei bambini sembrava
diventare
una persona completamente diversa: rideva con loro, scherzava, cercava
di tener
alto il morale giocando o mostrando semplici trucchi di prestigio,
incantando
loro e anche me. Sally, una bambina sordomuta di quasi otto anni,
sembrava essere
quella che più si era legata a lui. Stephen aveva imparato
il linguaggio dei
segni per parlarle e capirla, instaurando con lei un rapporto speciale
e
profondo che andava avanti da due anni, ormai. La considerava come una
sorellina da proteggere, e più lo vedevo muovere le mani e
parlare a gesti, in
quel momento, più non riuscivo a capacitarmi di quel suo
lato che pareva dolce
e sensibile. Forse con il mio Steve crederlo sarebbe stato
più facile.
Come gli altri volontari, passai le
restanti ore ad occuparmi a mia volta dei bambini,
raccontando
loro storie fantastiche o grandi classici della letteratura. Mi
inoltrai con
loro nel tetro castello della Bestia, e seguendo i passi di Belle
riuscimmo a
spezzare l’incantesimo che gravava sul principe; ci
immergemmo negli oceani più
profondi, vivendo la tragica storia di una giovane sirenetta innamorata
di un
umano; cademmo insieme ad Alice nella tana del Bianconiglio, bevendo il
the dal
Cappellaio Matto e fuggendo dalle guardie di carta della regina di
cuori,
spaventati dalla consapevolezza che lei volesse tagliarci la testa;
solcammo i
mari alla ricerca del misterioso tesoro, intonando canzoni piratesche
insieme
al giovane Jim; volammo oltre i cieli di Londra, librandoci nelle
correnti in
compagnia di Peter Pan, che ci scortò all’Isola
che non c’è dove conoscemmo
pirati, indiani e bimbi sperduti [2]
; e più
raccontavo, più le espressioni allegre, stupite, spaventate
e divertite dei
bambini mi facevano sentire un piacevole calore all’altezza
del cuore. Stephen
si era persino preso volontariamente l’incarico di farmi da
interprete per la
piccola Sally, i cui occhi luminosi ed estasiati mentre narravo tramite
Steve
erano valsi più di mille parole.
Mi dispiacque quando arrivò
il momento di lasciare l’ospedale. Non mi ero più
sentito così utile da quando
avevo smesso di giocare a baseball, e la cosa mi rendeva felice come
non lo ero
più stato da tanto. E forse fu proprio quel sorrisetto
inebetito che era
spuntato sulle mie labbra a richiamare l’attenzione di
Stephen, che mi
picchiettò distratto una spalla come se volesse riportarmi
alla realtà.
Ci eravamo allontanati
dall’ospedale solo di una ventina di metri, e intorno a noi
si vedeva il vasto
giardino che lo circondava, con i suoi alberi spogli e i cespugli ormai
innevati che a primavera sarebbero stati un sicuro spettacolo.
«Te la sei
cavata bene», mi disse Stephen quando tornai con i piedi per
terra. «Ci sapevi
davvero fare, con i bambini. Hai moglie e figli, a casa?»
Avrei risposto alla leggera se il
mio cervello non avesse riattivato gli ingranaggi, facendomi capire per
bene il
senso di quella frase. Mi affrettai dunque ad agitare entrambe le mani
in
risposta, guardandolo stralunato. «Assolutamente
no!» esclamai, nemmeno avesse
appena detto un’eresia. E fu vedendo la sua espressione
accigliata che cercai
di fare pace con la mia boccaccia, provando a riformulare correttamente
la
risposta. «Nay, non ho famiglia», dissi in tono
più calmo. «Però mi sono sempre
piaciuti i bambini».
«Quindi non
c’è nessuno che aspetta
il tuo ritorno?» mi chiese ancora, e nell’osservare
quei suoi occhi verdi -
così profondi, scintillanti e immoti - fui quasi tentato di
rispondere
semplicemente «Ci sei tu». Fortunatamente per me,
però, mi trattenni, sebbene
la voglia di farlo scorresse come fuoco vivo nelle mie vene.
«Non è
importante», tagliai
lì il
discorso, affrettando il passo per uscire il prima possibile da quel
giardino.
Attraversai il cancello senza attendere che Stephen mi seguisse,
cosicché fu
costretto a correre per raggiungermi, scalpicciando sulla ghiaia del
vialetto.
Mi si accostò quando ci
ritrovammo
entrambi fra le strade di quella bizzarra città
così simile a Londra. «Perché
parli in questo modo?»
Perché? Semplice: pur
preoccupandosi per me, probabilmente Steve non avrebbe provato la
stessa ansia
che avrei provato io se fosse sparito per giorni interi. Forse era
stupido, ma
continuavo ad aspettarmi che Steve si comportasse come un amante
premuroso
anziché come un amico fidato. Dio, mi facevo
pietà da solo per quel lato del
mio carattere. «Se te lo dicessi, non mi guarderesti
più con gli stessi occhi
di adesso».
«Potresti provarci comunque,
Juggernaut».
Gli attimi di silenzio che
passarono dal momento in cui lui pronunciò quella semplice
frase parvero
interminabili. Fermo e spaesato in mezzo al marciapiede, a ridosso di
un paio
di villette dai giardini coperti da un manto di neve, non ebbi il
coraggio di
voltarmi verso Stephen per guardarlo negli occhi, ma incredulo gli
chiesi: «Come
mi hai chiamato?»
Percepii distintamente la tensione
impadronirsi dei muscoli del suo corpo, come se ognuno di essi,
tendendosi fino
allo spasimo, fosse divenuto teso come una corda di violino e avesse
provocato
un suono stridulo che mi permise di sentirli. «Jonathan. Come
altro avrei
dovuto chiamarti?»
ribatté, ma il suo tono sembrava incerto, come se nemmeno
lui si fosse reso
conto delle sue stesse parole. Era mai possibile che in
realtà la mia mente
avesse fantasticato, e che quel tono fosse dovuto allo stupore del mio
quesito?
Avevo forse immaginato tutto, dunque? La testa mi doleva ad ogni
congettura, e
continuare a pensarci non giovava come avevo creduto. Forse la
soluzione più
semplice era che stavo pian piano impazzendo.
Abbassai le palpebre e mi portai
entrambe le mani al capo per massaggiarmi le tempie con due dita,
traendo un
lungo sospiro. «Niente, niente. Lascia stare», gli
dissi semplicemente,
troncando così quella conversazione senza che Stephen
replicasse o cercasse di
far pressione per costringermi a parlare.
Arrivammo dinanzi al cancello della
sua villetta alle otto passate, con il sole che era ormai tramontato da
un bel
pezzo. Le uniche luci provenivano dalla lampadina sotto il portico di
Stephen e
dai lampioni disposti strategicamente su entrambi i marciapiedi che
portavano
alle case, ma non bastavano ad illuminare perfettamente la zona
circostante,
rendendola fredda e tetra più di quanto non lo sembrasse
già. Era come se ogni
ombra, suono o fruscio venisse irrimediabilmente stravolto, facendomi
sentire
come un bambino che ha paura di vedere se ci sono mostri sotto il
letto. Avrei
voluto cercare in quello Stephen la rassicurazione che mi occorreva,
però
sapevo che non avrei potuto farlo proprio perché lui non era
il mio Steve.
L’aveva ampiamente dimostrato appena poche ore addietro.
Una volta aperto il cancello,
attraversammo il vialetto lasciando profondi solchi nella neve che lo
ricopriva
come una sottile lastra di ghiaccio, e io ringraziai di aver indossato
le
scarpe adatte. Le mie solite nike sarebbero servite veramente a poco,
lì. Stephen
spalancò la porta di casa e premette
l’interruttore, ed entrambi venimmo subito
investiti dalla morbida e confortante luce arancione
dell’ingresso, per quanto
ci avesse accecati a causa di tutto quel tempo passato nella
semioscurità. Mi
liberai del cappotto rabbrividendo, sfregando fra loro le mani mentre
con la
coda dell’occhio seguivo i movimenti di Stephen, diretto
verso il soggiorno
come suo solito; affrettai il passo per raggiungerlo, ma lo
trovai impalato a pochi metri da una delle poltrone e mi accigliai.
Facendo qualche passo avanti, mi
apprestai a chiedergli che cosa avesse, ma venni preceduto da una calda
voce
femminile che esordì con un: «Ce ne hai messo di
tempo per tornare a casa,
Steve».
Non compresi subito da dove
provenisse quella voce dalla cadenza così sensuale e
smielata, vedendo poi una
fluente chioma fulva fare capolino dallo schienale della poltrona
rivolta verso
il caminetto. Il viso che mi ritrovai ad osservare apparteneva alla
donna più
bella che avessi mai visto: non aveva quella bellezza tipica delle top
model o delle ragazze di
Play-Boy che ero abituato ad osservare, bensì quella delle
donne d’altri tempi
giovani e colte, di quelle che per apparire splendide non avevano
bisogno di
trucchi pesanti, ma solo di un velo di rossetto sulle labbra morbide e
piene; i
capelli, legati in un’alta crocchia composta, erano di un
rosso acceso, simile
a quello delle foglie d’autunno o degl’ultimi
bagliori d’un sole morente. Ma
erano gli occhi ad attirare maggiormente l’attenzione:
d’un marrone così scuro
d’apparire quasi nero, quegl’occhi nascondevano nei
loro recessi un qualcosa
d’indefinito e spaventoso, ma al tempo stesso così
profondo ed ammaliante da
lasciare sconcertati.
Stephen, che non sembrava esserne
rimasto abbagliato quanto me e se ne stava in disparte,
serrò le labbra in una
linea sottile al dir di quella donna. «Margaret»,
cominciò pacato, mettendomi
così al corrente di chi ella fosse. «Chi ti ha
dato il permesso di entrare in
casa mia? Ma, soprattutto, come
sei entrata e cosa
ti ha spinto a
presentarti di persona?»
La risata di quella donna fu come
acqua cristallina precipitata a valle dalla più alta
sorgente rocciosa, uno
scampanellio piacevole e terrificante. «Non credi sia ovvio,
mio piccolo Steve?»
lo schernì. «Le lancette corrono, tic
tac».
«Esci immediatamente da
qui», le
ordinò Stephen, e, mentre li ascoltavo, non potevo fare a
meno di darmi dello
stupido per non aver previsto quell’incursione. I miei
pensieri sui sentimenti
che provavo per Steve mi avevano offuscato la mente, e non mi avevano
permesso
di rendermi conto in tempo del pericolo imminente. Ero stato un
perfetto
idiota.
Fu proprio in quel mentre che
quella donna parve accorgersi anche della mia presenza, perdendo di
poco
d’occhio Stephen per voltarsi verso di me e sbattere le
lunghe e graziose
ciglia scure, rivelando la sua palese perplessità.
«E tu chi saresti, di
grazia?» mi domandò con cortese stupore, sebbene
non avesse mancato di far
trasparire dalla sua voce una nota educata. Beh, su quel punto era una
vera
signora.
La guardai incerto, facendo
scorrere lo sguardo dai suoi occhi di pece a quelli verdi di Stephen,
quasi
stessi chiedendo il suo permesso per risponderle. Quella donna mi
trasmetteva
una strana sensazione, la stessa che avevo provato nello sfiorare la
maniglia
della mia macchina. Era come se Margaret fosse avvolta da
un’aura oscura che
offuscava tutto il resto, facendo sì che mi sentissi
inquieto come se avessi a
che fare con uno psicopatico pronto ad accoltellarmi. Decisi
però di togliermi
il dente e risponderle per le rime, ma Stephen alzò un
braccio e fece un cenno
nella mia direzione, zittendomi. «Non occorre che tu sappia
chi è», le sbottò
contro, e io stornai bruscamente lo sguardo verso di lui.
«Non ho bisogno che sia tu a
parlare
per me, Steve»,
replicai secco, enfatizzando il suo nome e
venendo così
fulminato da una sua occhiataccia.
«Sta’ zitto e vedi
di tirarti
fuori da questa storia».
«Ci sono dentro fino al collo,
invece».
«Tu non c’entri
niente, adesso fa’
silenzio».
«Discordia fra le file,
Steve?»
esordì sarcasticamente Margaret, intromettendosi senza
remore nella nostra
discussione. «Se tu e il tuo amichetto avete
finito di
chiacchierare,
direi che potremo passare alle cose serie... non credi anche
tu?»
La rapidità con cui Stephen
distolse lo sguardo da me per puntarlo verso di lei fu impressionante.
Fece poi
due passi nella sua direzione, incombendo sulla sua esile figura come
un
titano. «Io e te non abbiamo nulla di cui parlare,
Margaret».
«Ah, no?» fece lei,
portandosi due
dita alle labbra per accarezzarsi distratta quello inferiore, il viso
rivolto
in alto per far sì che i suoi occhi incrociassero quelli del
suo interlocutore.
Non potevo vederla con precisione, ma mi sembrava che quelle polle
scure
scintillassero di un qualcosa che sfociava quasi nella follia.
«Mi risulta che
tu abbia ricevuto la cortese visita dei miei legali, non è
così?»
«Non so di cosa tu stia
parlando»,
ribatté fermamente lui.
«Certo che lo sai, caro
Stephen».
Il tono pacato con cui aveva parlato fino a quel momento stava
scomparendo pian
piano, lasciando spazio ad una cadenza piuttosto irritata.
«Ma hai deciso di
ignorare deliberatamente la cosa, chiudendoti nella piccola utopia che
ti sei
creato. Adesso però è tempo di saldare il
conto... la partita sta per
concludersi».
Non seppi perché, ma il modo
in
cui proferì quelle ultime parole fu capace di farmi
rabbrividire da capo a
piedi più del freddo pungente proveniente da fuori,
rizzandomi i peli sulla
pelle. Provai quindi a richiamare Stephen per farlo indietreggiare, ma
né lui
né Margaret sembrarono prestarmi attenzione. Era come se si
trovassero entrambi
in un mondo costruito appositamente per loro, un mondo fatto di
inganni,
intrighi e pianificazioni di mosse, quasi stessero entrambi giocando
una pericolosa
partita a scacchi. Però non mi arresi, avvicinandomi io
stesso per strattonare
Stephen, incassando le colorite imprecazioni che rivolse al mio
indirizzo
mentre tenevo lo sguardo fisso su Margaret. «Le converrebbe
fare quanto detto
poco fa e lasciare questa casa, signorina», cercai di
persuaderla, tentando di
essere il più cortese possibile e di evitare al tempo stesso
di fare in modo
che il senso di inquietudine dentro di me scemasse.
Il sorriso che Margaret mi
rivolse, però, fu solo capace di far divampare ancora una
volta quella
sensazione, come se fosse un fuoco addormentato sotto le ceneri. La
vidi
scostarsi dal viso qualche ciuffo ribelle di capelli rossi che era
sfuggito
alla crocchia, sistemandosi la borsetta sottobraccio e lisciandosi il
bel
vestito nero che indossava. «Dunque è
così, caro Stephen?» chiese, scostando lo
sguardo verso di lui così lentamente da risultare snervante.
«Tu e il tuo
amichetto volete che me ne vada a mani vuote, senza nemmeno che mi sia
presa
una piccola fetta di ciò che mi spetta?»
Quella sua costatazione
strappò a
Stephen un’amara risata. «Qui non
c’è niente per te, Margaret. Quel pezzo di
carta a cui aneli così disperatamente resterà
qui. Per quel che mi riguarda,
puoi anche andare a fare in culo».
Nel sentirlo, un mesto sospiro
sfuggì dalle labbra di Margaret, e, dopo aver stretto a
sé la piccola pouchette
e abbassato le palpebre dalle lunghe ciglia, guardò
nuovamente Stephen
con quei suoi profondi occhi neri. «Sappi che mi ci hai
costretta tu», asserì,
infilando una mano nella borsetta per tirar fuori una pistola con una
destrezza
unica, con la stessa abilità con cui un prestigiatore tirava
fuori un coniglio
dal cilindro. Una calibro 22, una vera arma per signore, apparve quasi
per
magia nelle mani di Margaret, che divaricò le gambe
come se si stesse
preparando a far fuoco.
Io e Stephen indietreggiamo e
trattenemmo esclamazioni di stupore e terrore,
tenendola
d’occhio con una sincronia che quasi mi parve impossibile.
«Metta giù la pistola,»
la esortai, alzando lentamente le mani per rivolgere i palmi verso di
lei, come
se volessi spingerla ad abbassare la canna, pericolosamente puntata su
di me. «Non
è necessario, mi creda».
«Che intenzioni hai,
Margaret?»
domandò invece Stephen, con un’ombra di
preoccupazione nella voce sommessa. E
come dargli torto? Ero terrorizzato anch’io.
Lei, però, non parve dare
ascolto
a nessuno dei due, facendo saettare lo sguardo dall’uno
all’altro con fare
stralunato. «Mi ci hai costretta tu»,
ripeté, e nonostante la sua espressione
la sua voce suonò piatta e incolore. «Sei stato tu
a dire che avrei dovuto
strappare il contratto dalle tue fredde dita, ed è
esattamente ciò che ho
intenzione di fare», puntò la pistola contro di
lui. «Scacco matto, Stephen.
Fine della partita».
Nel silenzio in cui la casa era
immersa, la detonazione risultò assordante. Il susseguirsi
degli eventi sembrò
quasi come vedere un film a rallentatore: vidi il proiettile sputato
fuori
dalla canna fumante della pistola; il sorriso sardonico e folle dipinto
sulle
labbra di Margaret; Stephen che tentava di scartare di lato per evitare
il
colpo, gettandomi a terra con uno spintone mentre mi urlava qualcosa di
disarticolato. Tutto parve finito, ma cantai vittoria troppo presto: un
altro
sparo risuonò cupo alle nostre orecchie, seguito dalla voce
suadente di
Margaret.
Nella momentanea sordità,
riuscii a
sentirla a malapena, ma non furono le sue parole ad attirare la mia
attenzione,
bensì il modo in cui Stephen si premeva una mano sul petto,
senza fiato.
Quella stessa mano se la portò poi dinanzi al viso,
osservando il sangue che la
macchiava come se non se ne capacitasse. E anch’io mi
rifiutai
di credere a ciò che stavo osservando con completo orrore,
terrorizzato.
«Steve!»
urlai con tutto il fiato
che avevo in gola, così tanto da infiammarmi le corde
vocali, vedendo gli occhi
sbarrati di Stephen fissarmi per un’ultima volta prima che
lui cadesse riverso
al suolo. Boccheggiante e stravolto dal dolore, ebbi appena il tempo di
voltarmi di scatto in direzione di Margaret prima che il mio mondo si
riducesse
unicamente alla bocca della sua pistola.
[1] Anche
se il nome sembra del tutto casuale -
farplane è ad esempio il modo in cui viene chiamato
l’Oltremondo in Final
Fantasy X -, sarà possibile capirlo solo dopo aver finito di
leggere l’intera
storia, o almeno quella è l’intenzione.
[2] Le
opere
prese in considerazione, in ordine come sono state citate, sono le
seguenti:
“La Bella e la Bestia” di Jeanne-Marie Leprince
(1757) ; “La sirenetta” di Hans
Christian Andersen (1836) ; Alice in Wonderland” di Lewis
Carrol (1865) ;
“L’isola del tesoro” di Robert Louis
Stevenson (1883) e “Peter Pan” di James
Matthew Barrie (1902).
Ognuna delle storie
citate ha la trama originale non riveduta dalla Walt Disney.
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Farai felici milioni di
scrittori.
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