AIRPLANES00
êAirplanes in the Empty
Skyê
"Tutte le guerre sono civili perché tutti gli uomini
sono fratelli."
François
Fénelon
Fly
00!Se un Giorno di Pioggia …
“Shane!”
Stava
piovendo, peggio, stava diluviando, così forte da far quasi male, eppure la
piazza era gremita di gente. Quello era un giorno glorioso per l’Impero, il
giorno in cui per il Nemico sarebbe iniziata la fine.
Guerra. Si
andava in guerra. Shane andava in guerra.
Una stonata
marcia militare veniva trasmessa dagli altoparlanti; ogni tanto si inceppava,
ma nessuno ci faceva caso. Erano tutti presi a sventolare bandierine insulse e
ad acclamare i soldati.
Erano così
tanti, pronti ad andare alla guerra, ma lui ne cercava solo uno, però era tutto
così stranamente sfocato e non riusciva a distinguerli. Logico, pioveva. Tutta
colpa di quell’acqua che cadeva dal cielo così violenta, che gli picchiava in
testa e sulle spalle così forte, e che lo inzuppava così tanto.
Ad Avalon City
pioveva sempre e, quando non pioveva, il cielo era cupo, oscurato da pesanti
nuvoloni grigi e malsani fumi di scarico. Faceva una gran tristezza.
Invece, quelle
lacrime copiose che gli stavano solcando il volto, quelle non sapeva proprio da
dove fossero uscite. Non avrebbe dovuto piangere. Perché non ce n’era
motivo,no? La guerra… la guerra… era necessaria, no?
La pomposa
musichetta finì. Il discorso del
Governatore stava per iniziare.
“Popolo di
Avalon, oggi è un grande giorno”
Tirò su con il naso, continuando invano a
cercare con gli occhi zuppi di pioggia e lacrime in mezzo alle schiere di
soldati.
Non è una
bella cosa, la guerra.
“Il destino ha
voluto che le nostre armi si levassero contro l’arroganza di coloro che
vogliono privarci di ciò che è nostro per diritto”
Perché la sera
ci sarebbero stati solo buio e silenzio.
“Ma tutto ciò
avrà presto fine: la supremazia del nostro glorioso Impero sarà provata dal
coraggio dei nostri prodi combattenti, disposti a compiere anche il sommo
sacrificio per la causa!”
Perché forse
non avrebbe mai più sentito quel ragazzo insopportabile parlare di fate,
cavalieri e inventarsi storie incredibili solo per vederlo sorridere.
Perché forse,
ma solo forse, ben inteso, gli sarebbe mancato un pochino quell’idiota dalla
testa troppo vuota e il cuore troppo pieno.
I soldati
sfilavano, seri, impettiti e indifferenti nelle loro divise verde foresta. Solo
uno sorrideva arrogante e spavaldo, i corti capelli rossicci scuriti dalla pioggia
battente.
“Shane!” gridò
ancora il bambino, ma la sua debole voce andò persa tra mille altri richiami
simili.
“Siatene
fieri.” concluse solenne il Governatore, la cui voce stridula, amplificata da
quello strumento di nuova concezione chiamato altoparlante, sovrastò le
esclamazioni della folla.
Lanciò
un’occhiata di puro odio verso la tribuna, sotto la quale i pezzi grossi
dell’Impero si godevano lo spettacolo dei battaglioni sfilare. Ci sono persone
che piangono e quello spaventapasseri parla di gloria, si disse il ragazzino.
Forse era troppo piccolo per comprendere i giochi dei politici, ma una cosa gli
era fin troppo chiara: quella gente gli aveva portato via tutto.
Prima i suoi
genitori, ora Shane: era rimasto completamente solo, perso. E la colpa era solo del Governatore.
Lo odiava,
detestava con tutta l’anima quell’ometto viscido che blaterava di coraggio,
sacrificio e robe simili dall’alto del suo bel palco riparato e comodo mentre
gli altri sotto la pioggia battente salutavano per l’ultima volta i propri
cari.
La marcia
zoppicante ricominciò e, attraverso la cortina d’acqua grigia, apparvero le
sagome sgraziate di alcune enormi aeronavi da guerra, dondolanti come tristi
ubriachi di ritorno da una notte di follie, che attraccarono all’aeroporto
della città. I soldati, dopo un ultimo rigido saluto militare alla tribuna
d’onore, si imbarcarono salendo velocemente lungo le passerelle d’acciaio al
ritmo cadenzato della musica.
La cerimonia
terminò. Poco a poco la folla si disperse per riprendere le proprie attività
–in guerra non c’era tempo per i sentimentalismi- e, alla fine, nella grande
piazza principale rimase solo una minuscola figura che, in ginocchio nel fango,
piangeva come e più del cielo tetro. In mano stringeva un medaglione a forma di
pentacolo, come se fosse stato la sua unica ancora di salvezza.
—!–
“Arthur-san?”
Toc, toc, toc.
Qualcuno
stava bussando piano alla porta
“Capitano?
Abbiamo quasi raggiunto il porto, signore. Se potesse venire sul ponte…”
Il
pirata aprì pigramente un occhio, pentendosene però subito. Un fastidiosissimo
raggio di sole, filtrando attraverso le tende leggere, lo colpiva dritto in
viso, quasi accecandolo.
Strano
che non avesse chiuso tutto la sera prima. Solitamente prima di andare a letto
tirava le tende pesanti in modo che la stanza fosse immersa nel buio più
totale. Invece questa volta no: l’elegante cabina era immersa nella calda luce
dorata - e tremendamente – fastidiosa del Sole.
Come
se già quello non bastasse a dare abbastanza noie, gli faceva male la schiena,
il cuscino era molto più duro e scomodo di quanto sarebbe dovuto essere e aveva
anche un certo freddo.
“Arthur-san?
- continuò la stessa voce di prima. - Non vorrei essere scortese, ma stiamo
tutti aspettando voi.”
Questa
volta era un po’ più alta e i colpi alla porta un po’ più insistenti.
Alzò
con cautela la testa, socchiudendo gli occhi per ricacciare indietro la
sensazione di stordimento e un misto di vaghi ricordi annebbiati e pieni di
pioggia. Si guardò intorno un po’ spaesato, cercando di capire cosa ci fosse di
sbagliato. Gli ci volle un po’ più del dovuto, ma alla fine se ne accorse: si
era addormentato alla scrivania, col duro legno stagionato come cuscino –
questo spiegava il mal di schiena - e una bottiglia di rum mezza vuota in mano
– e questo spiegava perché ci vedeva doppio.
“My God...”
ringhiò a denti stretti, passandosi una mano sul viso nel vano tentativo di
schiarirsi le idee. “What a massive
hangover…”
Si
alzò, un po’ traballante, dalla sedia, con tutta l’intenzione di andare ad
aprire prima che quel bussare fintamente gentile gli facesse saltare
definitivamente i nervi, fermandosi però davanti al grande specchio intarsiato
per darsi una sistemata veloce: dio, era ridotto da far pena!
Lasciò
un attimo perdere lo scocciatore, per meglio osservare con aria cupa il proprio
riflesso. Si chiese come diavolo avesse fatto a ridursi così: i corti capelli
biondo cenere erano talmente arruffati e intrattabili da dargli l’aspetto
tragicomico da pagliaccio triste, accentuato dal trucco nero - che la sera
prima era certo di non avere - che colando gli aveva rigato le guance. Guardò
con orrore gli occhi rossi e un po’ vacui, solitamente così luminosi ed
espressivi, ora solo gonfi di pianto; doveva aver frignato come una fontana la
sera prima. Colpa del rum, accidenti!
Non
era possibile - e neppure dignitoso - che il capitano di una tra le più temute
ciurme di pirati non reggesse mezza bottiglia di rum!
Santissimo
cielo, non aveva addosso altro che i pantaloni strappati e macchiati, un fiocco
di un rivoltante rosa caramella legato al collo e un solo stivale! Più che
ovvio che avesse freddo – ed era totalmente ridicolo!
Si
fiondò sull’armadio, pescando a caso una camicia stropicciata e un paio di
pantaloni teoricamente puliti.
Al
di là della porta della sua cabina, riprese l’irritante toc toc.
Ringhiò
un poco amichevole “I’m coming!” seguito da un altrettanto poco elegante invito
ad aspettare senza scassare le scatole, che tanto lui era il capitano e nulla
si muoveva senza il suo consenso e la sua presenza, e a levarsi dai piedi;
dunque si infilò nel suo bagno personale – la sua carica offriva indubbi
vantaggi.
Dopo
una buona mezz’ora a mollo nell’acqua tiepida, e dieci minuti con la testa
sotto un getto gelido, era tornato a ragionare più o meno chiaramente e, cosa
non meno importante, non sembrava più un non-morto appena scappato dalla tomba.
Ecco, adesso si sentiva in grado di affrontare una nuova giornata.
“Siamo
quasi arrivati al porto di Soave, capitano!” questa volta il tono della voce
oltre la porta era più alto e la patina di pacata cortesia era quasi sparita.
“Vi attendiamo tutti per pianificare l’attacco”
Rimase
in bilico su una gamba, mentre stava cercando di infilarsi i pantaloni,
fissando la porta con due occhi da pesce lesso che non ha ancora capito che
fine ha fatto.
L’assalto
al Palazzo del Podestà di Soave! Non poteva esserselo scordato! Misericordia
era stata una sua idea! Dopo quel colpo avrebbe finalmente potuto abbandonare
la pirateria, ricomprarsi la casa di famiglia ad Avalon e anche i suoi compagni
avrebbero avuto di che vivere!
Finì
di rivestirsi in fretta e furia, raccattò armi e soprabito e, borbottando
qualcosa riguardo alla gente che non sa aspettare, si diresse al ponte di
comando, dove gli altri lo attendevano già armati e pronti alla battaglia.
–!—
Soave
era la più grande e ricca delle Repubbliche Meridionali. Costruita interamente
sull’acqua, era un luogo davvero splendido: palazzi dalle forme delicate ed
eleganti si alternavano a templi e sedi di compagnie mercantili, in un
susseguirsi ininterrotto di meraviglie, una festa per gli occhi e per l’anima,
come dicevano tutti coloro che avevano avuto l’immensa fortuna di visitare la
città.
Peccato
che Arthur non avesse di certo il tempo per ammirare il paesaggio offertogli.
Mancava pochissimo all’assalto e, cosa abbastanza insolita, non si sentiva per
niente tranquillo; c’era qualcosa, una specie di presentimento, che lo rendeva
teso come una corda di violino.
Il
piano di base era semplice, quindi le possibilità che qualcosa potesse andare
storto minime: mimetizzandosi tra le centinaia di aeronavi mercantili si
sarebbero avvicinati il più possibile al Palazzo per poi, passando dai tetti,
raggiungere le stanze del Podestà, rimanendo inosservati. Quindi, a rigor di
logica, non c’era motivo di essere agitati.
Perfino
i tetti a Soave erano un’opera d’arte, un insieme caotico di guglie, torrette,
cupole e quant’altro l’ingegno umano avesse mai prodotto in campo
architettonico, che, con il calare del sole, divenivano un groviglio di ombre
perfette per nascondersi. E
questo valeva anche per il Palazzo del Podestà, teoricamente il luogo più
protetto e sorvegliato della città, se non si teneva conto dell’assenza di
guardie sui balconcini.
E
in effetti la prima parte del piano filò liscia come l’olio. I pirati non
ebbero quasi nessuna difficoltà a
raggiungere e introdursi nel grande edificio col favore delle tenebre.
Da
una piccola finestra in cima a una delle torrette più discrete, un gruppo di
loro scivolò silenzioso in quello che doveva essere un corridoio secondario del
Palazzo, completamente deserto. Il capitano, sceso per primo, osservò la
situazione: come aveva previsto, quella doveva essere la zona più tranquilla, e
meno controllata, dell’edificio. Dalle carte che aveva studiato, se non
sbagliava, si trovavano nei pressi dell’archivio; tutti incartamenti inutili,
per loro.
Da
lì si sarebbero potuti dividere, addentrandosi sempre di più, fino ad arrivare
alle stanze davvero importanti, quelle piene di danari, gioielli e tesori.
Avrebbero ripulito tutto il Palazzo, e quel colpo sarebbe passato alla storia.
E poi si sarebbero concessi una bella vita di rendita.
“Se
non vi dispiace, vorrei occuparmi io delle guardie” disse in tono basso ed
affilato Kiku, accarezzando il fodero di seta della sua fidata katana.
“Miku-chan ha voglia di giocare” aggiunse l’orientale con un sorriso storto,
per poi scomparire tra le ombre invisibile e silenzioso come uno spettro, senza
nemmeno aspettare un cenno di assenso del suo capitano. Poco male, tanto
seguivano sempre quello schema.
Era
un tipo davvero bizzarro, quel Kiku. L’orientale si era imbarcato qualche anno
prima come cartografo di bordo assieme ad un non meglio specificato parente, un
ragazzino estremamente esuberante di nome Kim. Erano entrambi abilissimi
combattenti, perfino troppo bravi per essere dei semplici tecnici in effetti,
ma nessuno aveva mai fatto loro domande in proposito.
Lasciati
andare Kiku e il resto della ciurmaglia, Arthur si diresse verso i piani
inferiori, a passo veloce e sicuro, ma senza correre per non fare troppo
rumore.
Ad
eccezione di qualche sparuta guardia che faceva il solito giro di ronda
interno, l’enorme dimora di appena due piani si poteva considerare
completamente deserta, come del resto era logico aspettarsi dopo il tramonto,
in una notte che prometteva tempesta, e il giovane capitano non incontrò alcuna
difficoltà a passare inosservato. Da un certo punto di vista gli dispiaceva
quasi di non aver incontrato resistenza, ma d’altra parte ne aveva già
abbastanza di seccature senza che ci si mettessero di mezzo anche le guardie –
o peggio qualche serva armata di padella.
I
corridoi del Palazzo erano estremamente spaziosi, con ampie finestre ad arco e
soffitti affrescati immersi in una penombra ingannevolmente rassicurante.
In
quanto capitano, Arthur aveva il privilegio di scegliere per sé gli oggetti più
belli, e soprattutto il diritto ad affrontare l’avversario più forte: in questo
caso particolare il nipote del Podestà in persona, su cui giravano certe storie
che davano i brividi. Si diceva che sua signoria Veneziano avesse poteri
tremendi, che fosse in grado di manovrare i corpi altrui come fossero stati
marionette e che le sue capacità di combattente andassero oltre ogni
immaginazione. Personalmente Arthur riteneva quelle voci un po’ esagerate, se
non addirittura inaffidabili: c’erano troppe cose che non quadravano, ad
esempio il fatto che nessuno avesse visto di persona il prodigioso guerriero in
azione.
Alle
stanze private del Podestà si accedeva tramite un ingresso ad arco con pesanti
porte di legno dorato. Il pirata le aprì con un forte calcio, rivelando una
grande stanza riccamente arredata, immersa nelle tenebre. L’unica fonte di
luce, se tale si poteva definire, erano le ampie finestre spalancate sulla
piazza principale della città. Arthur si guardò attorno con circospezione,
attento a scorgere anche il minimo movimento; tutte quelle tende erano perfette
per nascondersi e sapeva per esperienza che non si era mai troppo cauti.
All’improvviso
un altro lampo illuminò la stanza, rivelando una strana figura che subito
catturò l’attenzione del capitano: c’era qualcuno rannicchiato in un angolo tra
una specchiera barocca e la parete, un ragazzo non più grande di quindici anni
che, tremando come un animale braccato, cercava di farsi il più piccolo
possibile nel vano tentativo di scomparire tra gli ingombranti abiti bianchi e
oro.
A
quel ridicolo spettacolo, Arthur si lasciò scappare una risata di scherno. A
giudicare dagli abiti indossati, quel patetico esserino altri non doveva essere
che il famoso nipote del Podestà, di sicuro un po’ diverso dai ritratti
ufficiali in cui era rappresentato in veste di prode condottiero. Assolutamente
pietoso! Quelli che avevano messo in giro le voci non dovevano avere molto
chiaro il concetto di spietato guerriero!
Si
avvicinò a lui a grandi passi con il suo miglior sorriso da predatore stampato
in faccia e, tenendogli la spada puntata contro per precauzione, gli intimò di
alzarsi. “Come with me, now!” ordinò
in tono aspro. “Tuo nonno mi pagherà bene per riaverti indietro tutto intero,
anche se, really, non ne capisco il
motivo! You are so weak!”
Il
ragazzo si alzò lentamente rimanendo sempre appiattito contro il muro.
“Non
voglio” pigolò tra un singhiozzo e l’altro scuotendo violentemente il capo.
“Piove… mi bagnerò… ci sono i tuoni! Non voglio uscire!”
A
sentire quelle parole da vigliacco il capitano perse gran parte della sua, già
scarsa, pazienza: quella patetica creatura gli stava sottraendo tempo prezioso!
“Come on!” ringhiò afferrando
saldamente il moretto per un braccio e trascinandolo senza troppi complimenti
verso la porta, mentre questi si dibatteva come un pesce nella rete, per di più
gridando come un matto.
“E
smettila di strillare, mi dai sui nervi!” gli sibilò di nuovo contro.
Non
era certamente la prima volta che Arthur faceva prigioniero qualcuno ma,
sinceramente, non aveva mai visto nessuno tanto fuori di sé dalla paura o
almeno nessuno aveva reagito a quel modo: il ragazzo piangeva senza il minimo
ritegno tirando dalla parte opposta per liberarsi, e chiamava aiuto con tutto
il fiato che aveva. Non sapeva, povero piccolo idiota, che a quell’ora Kiku
doveva aver già messo fuori combattimento gran parte delle guardie e che quindi
tutta quella resistenza molesta era completamente inutile – oltre che
fastidiosa. Gli faceva quasi pena.
Tanto
aveva cercato di divincolarsi che alla fine i lacci della camicia si erano
sciolti lasciando intravedere un bel ciondolo d’argento smaltato scintillante
alla luce spettrale dei lampi; la preziosa croce finemente lavorata eppure
deliziosamente semplice catturò subito l’attenzione del pirata che, da brava
gazza ladra qual era, non resistette alla tentazione di appropriarsene. Allungò
una mano repentina, afferrando il monile. Non l’avesse mai fatto!
Il
ragazzo cacciò un grido acutissimo, un suono talmente penetrante da stordire
Arthur per qualche istante.
“What the hell …!” esclamò per poi
zittirsi di colpo: senza che quasi se ne fosse accorto qualcuno si era
frapposto tra lui e il moretto dalla voce da sirena antinebbia, un tizio enorme
dall’aria ben poco conciliante.
Il
gigantesco combattente portava la divisa nera e oro delle guardie di palazzo e,
a giudicare dalla gran quantità di medaglie e alamari, doveva esserne il
capitano o qualcosa di simile. Una cosa in particolare però catturò
l’attenzione del giovane pirata: la familiare croce smaltata che
scintillava allettante al collo della
guardia, identica a quella del piccolo vigliacco.
Allora
i gioielli erano due, quindi doppio guadagno e chissà quali altre luccicanti
meraviglie aspettavano solo di finire nelle sue tasche … bastava solo liberarsi
del bestione.
Più
facile a dirsi che a farsi, maledizione: quel tizio pareva solido come una
quercia e altrettanto difficile da abbattere!
“Vi
consiglio di lasciare immediatamente sua signoria, mein herr” gli ordinò il gigante con un tono che non ammetteva
repliche.
Con
uno scatto stizzito, Arthur lasciò andare il braccio della sua preda, prendendo
le distanze dal tizio appena arrivato.
Quello
dal suo canto fece cenno al ragazzo di allontanarsi, non prima però di avergli
messo in mano un piccolo pugnale di quelli che solitamente si portano nascosti
sotto gli abiti. Arthur si mise
immediatamente in guardia: doveva terminare il duello, riprendersi la preda e
scappare, prima che quella specie di armadio vivente riuscisse ad acchiapparlo,
altrimenti… beh, non sarebbe stato per nulla piacevole.
Senza
indugiare ulteriormente, si lanciò all’attacco approfittando della distrazione
del proprio avversario e, un po’ per un colpo di fortuna un po’ grazie alle
interminabili lezioni di scherma con i due orientali, riuscì a lasciare una
lunga linea scarlatta sulla schiena della guardia. Non sarà stato molto leale
ma al momento l’etichetta era l’ultimo dei suoi pensieri. E poi lui era un
pirata, e i pirati giocano sporco, lo si sa.
La
guardia emise un rantolo di dolore.
“Ludwig!”
gridò il moretto. “State attento, per carità!”
Arthur
osservò il ragazzino tentare di correre in soccorso del guastafeste, prima di
essere fermato di nuovo con un cenno di quest’ultimo. Non doveva avergli fatto
troppo male, visto che si reggeva ancora bene in piedi. Probabilmente gli aveva
fatto solo un indecoroso graffietto. Quel dannato armadio doveva essere fatto
d’acciaio! Solitamente nessuno restava in piedi dopo un fendente del genere,
era un colpo segreto da assassino che non lasciava scampo, damn it!
E
poi quel malefico ragazzino continuava pigolare: erano così fastidiosi quei
piccoli, acuti lamenti! Gli impedivano di ragionare chiaramente e, come se non
bastasse, più il mostriciattolo si lamentava, più il suo enorme cane da guardia
ci dava dentro con quella maledetta frusta.
Doveva
esserci uno stretto legame tra il nipotino del Podestà e l’armadio ambulante:
forse erano molto amici e, a giudicare dallo strillo di prima, il ragazzo
teneva più alla sua preziosa croce che non alla propria vita.
Da
un certo punto di vista Arthur si trovò ad invidiarli entrambi; doveva essere
bello poter affidare la propria vita a qualcuno e allo stesso tempo che quella
persona si fidasse ciecamente di te.
Improvvisamente
avvertì un dolore fortissimo, quasi insopportabile al fianco e, abbassando lo
sguardo, vide con misto di rabbia e paura l’elsa ingioiellata del pugnale
luccicare tra le pieghe della camicia: quel piccolo infame, vedendo il proprio
amico in pericolo, aveva raccolto quel poco coraggio che possedeva e aveva lanciato
l’arma – probabilmente alla cieca- facendo centro. Accidenti a lui, mica era
valido!
Non
era di sicuro la prima volta che rimaneva ferito in battaglia, ma questa volta
era mille, no un milione di volte peggio: non tanto il dolore fisico - con
quello aveva dovuto imparare a convivere tanto tempo addietro - comunque
terribile, quanto l’umiliazione di essere stato colpito a tradimento da un
vigliacco che non aveva neppure il coraggio di mettere due parole una dietro
l’altra! Quel maledetto ragazzino se ne stava lì imbambolato balbettando frasi
senza senso, manco fosse stato lui quello pugnalato! Maledizione! Maledizione!
Si
sentì invadere da un’ondata di rabbia.
“Bloody hell!” ringhiò, estraendosi la
lama dalla ferita. “you will pay it, little monster!”
Tentò
di muovere un passo ma cadde in ginocchio con una mano premuta sul fianco e
l’altra sulle labbra per trattenere un grido. Cazzo, era una situazione quasi
comica, in fondo: il famoso Capitano Kirkland era stato messo fuori servizio da
un incompetente che probabilmente non sapeva neppure da che parte si impugna
una spada! Che razza di perversa ironia!
Strinse
i denti fin quasi a farsi male, mentre alzava gli occhi pieni di collera verso
gli altri due.
Senza
un motivo apparente, anche il ragazzino ora era a terra, inerte come una
bambola di stracci. Il suo povero cuoricino da mammoletta cresciuta sotto una
campana di vetro non doveva aver retto alla vista e il suo enorme amico era
corso immediatamente al suo fianco premuroso come un’infermiera – o una madre -
sollevandolo delicatamente quasi avesse avuto paura di romperlo. Diavolo,
adesso sì che le aveva viste tutte!
Avvertì
una specie di fitta al petto a quella vista disgustosa - no, non si trattava di
gelosia. Era tutta colpa di quel maledetto pugnale, forse il mostriciattolo ci
aveva messo del veleno - vedendo con quanta dolcezza l’inflessibile guardia si
prendeva cura del suo piccolo amico.
Nessuno
si era mai preoccupato per Arthur a quel modo, a parte le creature mistiche che
solo lui era in grado di vedere, e delle volte neppure loro. Era temuto dai
suoi numerosi nemici, rispettato dai propri compagni ma solo per la carica che
aveva strappato con le unghie e coi denti al proprio predecessore; ma a nessuno
importava veramente di lui da molto - troppo - tempo.
Detestava
i nobili e la cosiddetta gente normale perché vedeva in essi ciò che un destino
crudele gli aveva impedito di essere. A sei anni aveva dovuto imparare a
combattere per sopravvivere nei vicoli malfamati di Avalon City; gli era
toccato fare il tagliaborse per avere di che tirare avanti e, santissimo cielo,
quegli spaventapasseri eleganti non avevano la minima idea di quanto una vita
simile possa far crescere velocemente (almeno in apparenza) qualcuno!
“Voi
non uscirete vivo di qui,mein herr.”
Ringhiò l’enorme guardia strappando Arthur dalle proprie insensate riflessioni
“Ciò che avete tentato di fare a sua signoria è imperdonabile.” Quello che
spaventò non poco il giovane capitano fu il freddo odio di cui erano intrise
quelle poche parole: erano definitive, una sentenza inappellabile; non era di
sicuro la prima minaccia di morte ricevuta ma, santo cielo, quel tizio dava i
brividi!
E
poi, lo sapeva per esperienza diretta, non c’era nemico più testardo e
pericoloso di chi si batteva per proteggere una persona cara: non ti mollava
finché non eri stecchito, ovvero molto, molto presto nel suo caso.
Arthur
recuperò a fatica la propria spada poi tentò – in vano- di mettersi in guardia:
se proprio doveva finire lì, sarebbe stata una fine degna di lui!
“Non
farla tanto lunga, bestione” ribatté il capitano sarcastico “non è mica colpa
mia se il tuo protetto è un inutile buono a nulla!” se ne avesse avuto la forza
sarebbe scoppiato in una sprezzante risata: quella era davvero una situazione
grottesca.
Forse
non era stata una buona idea provocarlo, si disse Arthur; sarà stato un effetto
ottico dovuto ai lampi che si susseguivano praticamente ininterrottamente,
fatto stava che attorno alla figura già imponente della guardia aleggiava una
spettrale aura simile ad un fuoco fatuo.
Per
la prima volta in anni di onorata pirateria, il capitano Kirkland ebbe davvero
paura: ridotto in quello stato era praticamente impossibile che riuscisse a
difendersi, figurarsi tentare un contrattacco.
Nel
frattempo il gigante gli si era avvicinato silenzioso come uno spettro fino a
torreggiare su di lui, la letale frusta pronta a calare sulla sua misera
figura.
Arthur
si sentiva come un patetico insetto intrappolato in una ragnatela: solo,
impotente e indifeso come mai in vita sua e la cosa lo faceva infuriare
terribilmente. Se c’era una cosa che non tollerava era la debolezza,
soprattutto in sé stesso: non c’è dignità nella resa, era il suo credo.
“Arrendetevi,
pirata, e forse vi finirò velocemente: non voglio che sua signoria assista alla
vostra dipartita.” intimò la guardia, la voce marziale intrisa di gelida furia:
quel tizio davvero sapeva come far tremare la gente!
Quindi
farlo infuriare serviva solo a peggiorare la situazione, si rese conto il
capitano: l’unica cosa da fare era cercare di guadagnare tempo nella speranza
che qualcuno venisse a dargli una mano.
“Ma
che bravo cane da guardia!” esclamò Arthur tentando di darsi un’aria sprezzante
“Molto zelante da parte tua, ma vorrei capire che ci guadagni a fare da balia a
quel piccolo vigliacco!” si fermò qualche istante a riprendere fiato: il fianco
gli faceva un male del diavolo e cercare di non darlo a vedere non migliorava
di sicuro le cose.
“Non
osate offendere sua signoria o ve ne pentirete!”
Oh!
Aveva fatto centro, quindi!
Eccolo
lì il modo per distrarre il mastino: parlare male del suo prezioso
amichetto pareva fargli perdere le
staffe, perciò …
“Pentirmene,
dici? Voi militari siete così stupidi! Ci sono cose peggiori della morte,
bestione: quelli come te non sanno cosa vuol dire patire l’inferno in terra
ogni singolo giorno della tua vita, sapere che la tua unica opportunità di
sopravvivere è ingannare e rubare e che la tua esistenza potrebbe finire in un
vicolo con un coltello piantato nella schiena! E sai qual è il bello: a nessuno
importerebbe un dannato accidente!” gli veniva quasi da ridere: stava per
essere ammazzato come un cane e l’unica cosa che riusciva a fare era blaterare
a vuoto! Che roba!
Quegli
emeriti idioti dei suoi compagni avrebbero fatto meglio a farsi vivi,
altrimenti qua sarebbe finita male, molto, molto male.
Il
giovane capitano serrò gli occhi preparandosi a ricevere il colpo di grazia …
che non arrivò mai.
Riaprì
lentamente gli occhi, stupito di essere ancora vivo – dolorante, malridotto ma
innegabilmente vivo- e ciò che vide lo lasciò assolutamente senza parole: il
ragazzo, che nel frattempo si era ripreso, si era frapposto tra lui e la
guardia! Forse non era poi tanto vigliacco come credeva.
“Fermatevi,
per carità!” gridò il moretto, la voce già acuta resa ancor più stridula dal
pianto “Non voglio che nessuno si faccia male per colpa mia! Sono stanco di
vedere le persone soffrire! Basta!”
Arthur
non poteva credere alle proprie orecchie: santo cielo, quel ragazzo lo stava
difendendo!
“Perché
non possiamo vivere in pace, senza odio o vendette?” singhiozzò ancora il
piccolo nobile, senza curarsi delle espressioni stupite dipinte sia sul viso
del proprio amico, che su quello del pirata.
Per
la seconda volta in quella strana serata Arthur avvertì ancora quella bizzarra
sensazione, come di una specie di stretta al petto che si allentava: c’era
qualcosa nelle richieste accorate di quel ragazzo che lo faceva sentire … beh,
strano.
“Cercate
di essere ragionevole” perfino l’inflessibile guardia di palazzo sembrava non
esserne immune “questo avanzo di galera non merita la vostra pietà, se lo
lasciate andare continuerà con le sue azioni criminali.”
“Non
mi importa! Lasciatelo andare e basta! Io … io … è un ordine!”
Wow!
Questo sì che era inaspettato!
L’enorme
guardia lasciò cadere a terra la frusta quasi fosse stata rovente e, sempre con
quell’aria da mamma lupa pronta a saltarti alla gola, si fece da parte: molto
probabilmente temeva che il proprio avversario tentasse qualche tiro mancino e,
sinceramente, ne aveva tutte le ragioni. Mai fidarsi di un pirata, soprattutto
se questi aveva le spalle al muro.
In
effetti ad Arthur vennero in mente un centinaio di modi diversi, tutti molto
poco cavallereschi, per portare a termine la propria missione: avrebbe potuto
approfittare di un attimo di distrazione per prendere in ostaggio il ragazzino
e garantirsi così di poter lasciare la città in tutta sicurezza o magari prima
pretendere oro e gioielli, e poi un lasciapassare per andarsene con la propria
nave e tutto il resto. Con il prezioso nipotino nelle sue mani, non gli sarebbe
stato negato nulla, sicuro come l’inferno! Ma mettere in pratica un piano del
genere non era affatto semplice. Ci voleva forza e agilità, per non parlare di
una buona dose di fortuna; in pratica era fuori questione o forse -
“Andatevene”
la voce aspra e marziale dell’imponente guardia strappò il giovane capitano
dalle proprie sconclusionate macchinazioni . “Ci sono state abbastanza
ingiustizie per questa notte.”
“What?!” domandò Arthur stupito. “Non
vorresti vendicarti perché ho tentato di rapire il tuo amico? Sono ferito, una
preda facile… I don’t understand…”
“Nein, non sarebbe leale nei confronti di
entrambi. Fosse per me, vi eliminerei senza pensarci due volte ma sua signoria
ha intercesso per voi. È una persona meravigliosa, in grado di fare miracoli:
ritenetevi fortunato, pirata, la pietà è
merce rara da queste parti ma lui non sembra darci molto valore. ”
I
gelidi occhi azzurri della guardia furono attraversati per un attimo da un
lampo di tenerezza. “Vi auguro di trovare anche voi qualcuno che illumini la
vostra cupa esistenza. Non sta a me decidere della vostra vita. E ora lasciate
questo luogo prima che cambi idea. Dal balcone farete prima.”
Il
giovane pirata non sapeva cosa rispondere. Era la prima volta che qualcuno
dimostrava un minimo di umanità nei suoi confronti e non aveva la minima idea
di come reagire. Forse avrebbe dovuto ringraziare, o una roba del genere.
Tacque invece, per salvare almeno la faccia, fece un piccolo cenno del capo
prima di balzare oltre il parapetto ornato di fiori rampicanti.
Riuscì
in qualche modo ad atterrare più o meno intero, attutendo la caduta con un paio
di capriole. Si rimise in piedi a fatica, premendo la mano sulla ferita.
Pioveva a dirotto. Due secondi la fuori, ed era già fradicio. Guardò verso l’alto sperando di
vedere la Queen Bess galleggiare pigramente sopra il palazzo
in attesa del proprio capitano. Invece trovò la vecchia nave malconcia che
stava veleggiando lontano: i suoi compagni non l’avevano aspettato e
probabilmente avevano preso l’occasione per liberarsi di lui.
“Maledetti
pirati traditori!” ringhiò amareggiato, attraversando a passi incerti la piazza
deserta. Teoricamente era ancora un pirata pure lui quindi si stava offendendo
da solo, ma al momento non glie ne importava meno di niente.
Aveva
rischiato mille volte la pelle per tirare fuori dai casini quella banda di
ingrati, e quelli come ricambiavano? Abbandonandolo lì a crepare da solo!
Proprio
vero: mai fidarsi di un pirata, ti tradirà alla prima occasione.
Soave
sotto la pioggia era lo spettacolo più malinconico che Arthur avesse mai visto.
L’acqua gocciolava lentamente lungo i visi di pietra delle statue e la città,
solitamente brulicante di traffici come un formicaio, sembrava disabitata. Il
buio della notte, i vicoli stretti e deserti, la pioggia che scrosciava
incessante, rendevano quasi spettrale la città. Non un’anima viva si vedeva,
dando l’impressione di essere precipitati in un luogo abbandonato e senza vita.
Del resto sarebbe stato folle andarsene in
giro con un tempo simile, ma da un certo punto di vista quella per Arthur era
una fortuna: un pirata ferito che barcollava come una marionetta mal manovrata
avrebbe attirato l’attenzione delle forze dell’ordine, il che significava
finire in un’umida cella a marcire con muffa e ragni come unica compagnia.
Decisamente una prospettiva molto poco attraente.
Erano
anni che il giovane non si sentiva tanto male, sia fisicamente che
psicologicamente: stanco, abbattuto, debole e solo come un cane abbandonato.
Anche le creature magiche, che lo seguivano ovunque proteggendolo con i loro
poteri, erano misteriosamente scomparse. In effetti, era da quando la nave
aveva passato i confini della Repubblica di Soave che non si facevano vive…
probabilmente si erano stancate di accompagnarsi ad una penosa imitazione di
pirata acido e incattivito come una strega di mille anni…
Con
il dolore che si propagava malignamente dal fianco fino a martellargli nella
testa, si sorprese a pensare che nessuno sano di mente gli sarebbe stato
accanto di sua spontanea volontà, neppure i suoi compagni. E, sinceramente, non
avevano torto…
“E
così questa è la fine”
Sospirò,
lasciandosi scivolare lungo un muro scrostato fino a sedersi scomposto sulle pietre grigie e viscide di pioggia. “Mi
aspettavo qualcosa di più… epico…”
Si
sentiva vuoto, come se oltre al sangue che lentamente ma inesorabilmente stava
scorrendo via stesse perdendo la sua stessa essenza. O forse era sempre stato
vuoto come una statua di cera, ma solo in quel momento se ne rendeva conto.
Poggiò
la testa contro il muro. Stava diventando sempre più pesante.
Dicevano
che negli ultimi attimi di vita si riesca ad intravedere il senso della propria
esistenza… Balle!
Arthur
Kirkland vide solamente un portico smangiato dalla salsedine, e un rigagnolo
d’acqua che lentamente si tingeva di scarlatto.
APPUNTI DI VIAGGIO
Buonasera a tutti!
Dopo
lunghe e travagliate vicende rieccomi a voi con questo folle progetto:
una Alternative ad ambientazione Steampunk in collaborazione con la mia
carissima socia in affari Prof, che ringrazio fin da ora per la sua
professionalità e pazienza.
Per
quanto riguarda la lunghezza posso dirvi che sarà una vicenda
complessa e articolata che andrà avanti per un bel po'.
Gli aggiornamenti saranno purtroppo abbastanza irregolari ma posso garantirvi che ogni tanto ci faremo vive...
Grazie da principio a chi commenterà, preferirà o semplicemente apprezzerà in silenzio!
BaciBaci!
See ya soon!
S.
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