Anima compagna
Storia vincitrice del contest "Nel nome del custode" indetto da Ss904, conquistando anche il Premio Principato.
Nome Autore: Ely79
Titolo: Anima compagna
Genere: Introspettivo, Malinconico
Rating: Verde
Avvertimenti: One-shot
Frase Scelta: Passiamo
metà della vita a deridere ciò in cui altri credono, e
l'altra metà a credere in ciò che altri deridono.
Data Scelta e Angelo assegnato: Sei nato il 05/04/1979
Il tuo angelo custode è Elemiah. Fa parte del Coro dei Serafini
Si colloca da 16° al 20° dell'Ariete
Il suo elemento è Fuoco
La sua qualità. Modera gli eccessi e riporta alla realtà
le persone troppo evanescenti e slegate dai valori più
importanti della vita. Permette di ricoprire con successo importanti
cariche, assicurando benessere materiale e spirituale.
Note Autore: Ho voluto
intendere l’angelo nel senso più comunemente noto del
termine. Non gli ho dato un aspetto, perché credo sia più
in linea con quest’idea.
Introduzione: Un uomo che ha
dimenticato la strada, abbagliato da luci fasulle ed abbaglianti, cerca
conforto in una fuga precipitosa. Non sa che quella fuga è parte
di un disegno.
Ero arrivato ad un punto tale per cui ogni cosa mi infastidiva. Parole,
luci, suoni, odori. Perfino il ticchettare leggero dei tasti mi
disgustava. Mi bastava pigiarne uno per cancellare anche il più
prorompente desiderio di scrittura. L’editore disse
scherzosamente che si trattava di una fase di rigetto del successo, che
ne aveva visti tanti nelle mie condizioni, che non dovevo preoccuparmi.
Era davvero convinto che prendermi per i fondelli a quel modo servisse
a stimolare la mia vena creativa. In realtà
l’affossò ancora di più e mi ritrovai preda di un
io sconosciuto.
Passavo da un salotto televisivo ad uno radiofonico, ripetendo
identiche risposte ad identiche domande. Sembrava quasi che le persone
non sapessero far altro che cambiare faccia, ma non i propri
interrogativi sui miei lavori. Non m’importava. Fintanto che il
conto in banca seguitava a salire, le copertine dei giornali ad
accumularsi, a me andava bene. Bastava non pensare più. Non
agire più. Non scrivere più.
Loro – chiunque fossero – non immaginavano nemmeno quanto
fossero ridicoli ai miei occhi. Pensavano di conoscermi, di sapere cosa
ci fosse nella dettaglio delle mie trame, dei miei pensieri e di quelli
dei personaggi che avevo creato. Erano convinti di essere nella mia
testa. E per questo erano sicuri di sapere ogni cosa.
Loro non sapevano niente. Si beavano di visioni e patetici contorcimenti mentali che esistevano solo nelle loro teste.
Ridicoli.
Stupidi.
Ancor più ridicolo era il fatto che ciò che io non immaginavo da tempo, loro lo pagavano.
Pagavano per avere dei sogni.
E io avevo disimparato a sognare.
***
La strada si è smarrita ed il mondo è capovolto.
Vorresti camminare, per potertene andare.
Vorresti andartene, per poter capire.
Vorresti capire, per poter tornare sulla tua via.
Aspettavo che lo domandassi. Cominciavo a chiedermi quando avresti invocato il mio aiuto.
***
“DVKEV?”, domandò via messaggio il mio agente.
Strinsi le labbra, artigliando il cellulare con un moto di stizza.
Impicciarsi dei miei affari faceva parte del suo mestiere, ma non in
quel momento.
“TE LO FARÒ SAPERE QUANDO SARÒ ARRIVATO”, digitai svelto, irritato dalla sua fissa di comporre anche le frasi più banali con quel linguaggio astruso.
Ero fuori di me, eppure conservavo un minimo di rispetto per ciò che mi aveva dato da vivere.
Per tutto il tragitto non feci altro che imprecare e collezionare
infrazioni. In un autogrill litigai persino con una donna che mi aveva
riconosciuto sul retro di uno dei miei romanzi e mi aveva chiesto un
autografo. Avevo sempre provato una profonda repulsione verso i libri
venduti in quei locali. Li avevo sempre trovati meno allettanti dei
loro analoghi esposti sulle scansie delle librerie, rifiuti
dell’autentico circuito letterario. Quelli che avevo scritto io
non facevano differenza. Anzi, era peggio: mi facevano ribrezzo, ne
disconoscevo la paternità.
«Mi ha preso per un fenomeno da baraccone?» urlai, fuori di me.
La lite che seguì coinvolse anche il marito di quella donna ed
un paio di inservienti dell’autogrill. Non mi buttarono fuori di
peso solo perché ero un volto noto, ma credo l’avrebbero
fatto molto volentieri. Furono più gentili di me, che continuai
ad insultarli anche dopo essermene andato.
In chilometri e chilometri di strada il paesaggio mutò decine di
volte. I colori, le forme, la luce. Era sufficiente svoltare una curva
e le vie di una città diventavano campi arati, la facciata di un
municipio la siepe di un giardino, le strisce dell’autostrada il
profilo delle montagne. Me ne accorsi a stento.
Avevo perso interesse per ciò che mi circondava. Persino
l’adagio dei vecchi, che attribuiva alle campagne un potere
rilassante, era svuotato di senso. Bianco, verde, blu, rosso. Per me,
il mondo era solo grigio.
***
Hai distolto gli occhi.
Hai chiuso il tuo cuore.
Incatenato i sogni.
In te arde un fuoco
che non t’appartiene, ma è giusto che la tua mano si
scotti a quella fiamma. Fa parte del tuo percorso.
Ti servirà a ritrovare il punto sull’orizzonte del tuo
spirito. Non temere, ti indicherò dove volgere lo sguardo.
***
La casa era piccola. Nulla più di due locali e il bagno,
piazzati in cima ad una ripida salita. Niente a che vedere con il mio
appartamento, un attico di cui non ricordavo il numero esatto di
stanze. Avevo poi finito di arredarlo? Forse. In quel momento, mi resi
conto che faticavo persino a ricordare di che colore fosse la porta
d’ingresso. Era la casa che raccontava chi ero diventato dopo
anni di impegno e dedizione. E di contratti sempre più
remunerativi, di lettori trepidanti fuori delle librerie, di recensioni
che portavano i miei libri in cima alle classifiche. Era la casa che
avrebbe dovuto rappresentarmi. Ma era poi così importante?
«Che posto» bofonchiai nervoso, quando mi accorsi che il cellulare non prendeva quasi per niente.
Mancava anche la presa del telefono, della televisione. Insomma, questo
significava solo una cosa: qualunque sistema tecnologicamente avanzato
avessi con me, non avrebbe funzionato, tagliandomi fuori dal mondo
civilizzato.
Avevo sentito di gente che aveva abbandonato la propria vita in nome
della ricerca di radici che – per quanto mi riguardava –
potevano essere essiccate da secoli. Gente che aveva rinnegato tutto
quello che c’era di buono nella modernità. Vivere meglio
non significava necessariamente rinunciare a quelle cose per vivere da
zotici ignoranti. L’idea di non poter controllare
l’andamento delle classifiche, di verificare addebiti ed
accrediti nell’home banking, di ricevere complimenti e richieste
da giornali e trasmissioni, mi atterriva.
Ma non mi stavo allontanando da tutto quello? Non ne avevo abbastanza
di tutta quella falsità vestita di adulazione? Stavo
rimpiangendo il motivo del mio malessere? Della mia ira?
Il cellulare segnalò con veemenza l’esaurimento della
batteria. Ci mancava solo di non poter sfruttare quell’unica
tacca al momento del bisogno.
Stavo per inserire la spina, quando mi fermai. Fissavo i due denti di
metallo, incapace di farli sparire nella placca di plastica. Avevo
avuto la strana impressione che un soffio d’aria mi fosse passato
sul viso.
Mi voltai, scrutando la stanza. Le finestre erano ben chiuse. La porta
era chiusa. I muri non avevano crepe. Non c’erano ventilatori o
condizionatori. Nessun rumore indicava delle presenze. Avrei sentito
persino una mosca nell’altra camera. Ero solo.
***
Molti pensieri offuscano il tuo giudizio.
Valori effimeri ti sfuggono tra le dita.
Vorresti avere il potere di trattenerli.
Lasciali andare.
Lascia che ti sfuggano.
Abbandonali alle loro danze leggere.
Sono fatti perché il mio respiro li allontani dal tuo spirito.
***
Dovevo essere impazzito. Sì, doveva essere per forza così.
Cosa diamine facevo in mezzo alle montagne, in una catapecchia lanciata
in cima ad una stradina tutta buche, col paese più vicino a
dieci minuti di macchina oltre tornanti tanto ripidi da far vomitare un
escursionista esperto? Perché avevo deciso che quel posto
lontano dalla civiltà, dalla quotidiana routine urbana, dovesse
servirmi in qualche modo? Che cosa aveva fatto scattare in me
quell’idea allucinante? C’era solo una cosa di cui avevo
davvero bisogno e non era lì. Mi serviva il mio mondo. La mia
vita di sempre.
Saltai in macchina, incurante del fatto che solo due giorni prima mi
lagnassi proprio di quello che ora anelavo. Misi in moto e, nella somma
delle mie sfortune, dovetti percorrere in retromarcia quella
dannatissima mulattiera. Snervato, in più occasioni pigiai il
piede sull’acceleratore. Volevo anticipare il mio rientro, ma un
coso rossiccio se ne stava sul sasso che sporgeva proprio in mezzo alla
strada, impedendomi di continuare.
«Sparisci» sibilai, aspettandomi che obbedisse.
Quello invece si sollevò sulle zampette posteriori, osservando
l’auto che ronfava a pochi metri da lui. Era uno scoiattolo.
«Ah, è così?» sbottai voltandomi, deciso ad ingranare nuovamente la retro.
Deciso, ma non abbastanza. Tolsi la mano dal cambio e tornai a guardare
l’impertinente bestiola, sperando se ne fosse andata. Pia
illusione: il piccoletto stava laboriosamente rassettando la coda
scarlatta.
Non ebbi tempo per sbuffare o lamentarmi: in un istante la scena era
cambiata ed al posto dello scoiattolo vidi un mucchio di piume brune
che si agitavano stridendo a terra. L’uccello sollevò il
capo. Lo scoiattolo si dibatteva tra i suoi artigli quando
spiccò il volo. In una frazione di secondo pensai si trattasse
di una femmina che stava portando la minuscola preda ai piccoli, per
insegnar loro a cacciare. Invece, prima ancora che potessi iniziare
quel ragionamento, il rapace spalancò di colpo le ali, restando
immobile a mezz’aria, come se l’avessero preso al laccio.
Aprì le zampe e lo scoiattolo cadde nell’erba.
Rimasi pietrificato. Avevo avuto paura, nonostante non avessi corso
alcun pericolo. Quando avevo visto lo scoiattolo liberarsi, avevo
provato una strana sensazione. Non di sollievo, bensì di
conforto. Presi un profondo respiro, tendendo la mano sul sedile
accanto, quasi cercassi quella di una persona amica.
Quando poco dopo arrivai in paese, vidi che il negozietto di alimentari
era aperto. Riempii a stento mezzo sacchetto e tornai da dove ero
venuto: dalla casetta in cima alla sterrata.
***
Il tuo risveglio sarà lento.
Un segno, con questo ho cominciato a parlarti.
Le parole, così come le conosci e le usi, non possono servirmi.
Hai bisogno di un’immagine forte che ti smuova dal torpore, che racconti molto senza dire nulla.
È da un animo intorpidito che comincerà a ridestarsi il respiro della tua vita.
***
A forza di tentare una connessione con una rete inesistente, il
cellulare si spense e decisi di non ricaricare la batteria. Avevo dato
il colpo di grazia alla mia sola speranza di un contatto con la
civiltà, così come la intendevo io. Anche il portatile
ebbe identica sorte.
Nonostante avessi tentato di buttar giù qualche idea, qualche
spunto, la vista della schermata mi aveva procurato un profondo senso
di disagio.
A dirla tutta, la mia era una prova. O per meglio dire, la ricerca di
alcune prove. In primis, che quegli orpelli da cui dipendevo da anni,
non mi fossero poi necessari: in paese la gente si serviva ancora di
telefoni fissi e di fax d’antologia. Perché non dovevo
farcela anche io? In secondo luogo, dopo ciò che era accaduto
sul sentiero, avevo cominciato a provare la bizzarra sensazione di
essere osservato. Il guizzo improvviso delle ali dell’uccello ed
il suo restare immobile mi erano parsi normali, ma con il passare dei
giorni, continuavo a domandarmi il perché di un simile
movimento. L’unica risposta che ero stato in grado di formulare
prevedeva una figura misteriosa, che aveva deciso di prendermi di mira.
Il come ed il perché rimanevano un mistero.
Vicino alla casetta passavano poche persone, eppure, da quel giorno,
avevo avuto costantemente l’impressione di essere seguito. Per
quel motivo, per togliermi ogni possibile dubbio, lasciavo gli oggetti
sparsi per casa, in posizioni precise, in attesa di scorgere tracce di
una mano sconosciuta.
Ero arrivato a voltarmi di scatto, sbattendo un paio di volte negli stipiti delle porte.
La notte mi coricavo con le orecchie tese, pronto a balzare in piedi al
minimo segno di movimento. Al mattino mi svegliavo stravolto. E senza
aver scovato alcun indizio.
«Sto impazzendo» dissi un giorno mentre me ne stavo sotto
la doccia. «E tutto solo per una caccia andata male… di
cui non ero nemmeno la preda! Sto esagerando. Ho visto solo un animale
incapace che si è fatto sfuggire la cena!»
Mentivo. Non ne ero affatto convinto. Qualcosa dentro di me era certo
che si celasse un enigma dietro ciò che avevo visto. Qualcuno mi
stava proteggendo? La vita mi stava dando una seconda chance? Chi mi
voleva male sarebbe stato colpito dal fato? Fantasticherie intriganti e
inconsistenti.
Sedetti sull’unica poltrona del soggiorno, ancora avvolto
nell’accappatoio e negli interrogativi. Nella stanza ogni cosa
era al suo posto. Fuori della finestra il cielo era uno scrosciare di
pioggia e lampi. I due spazi creavano un contrasto inquietante.
«Come la vita» mormorai, sfiorando con le dita il vecchio
taccuino che mi portavo appresso e che avevo poggiato sul tavolino.
A quelle parole, ebbi la consapevolezza di vivere una fase di
passaggio. E di essere accompagnato da una presenza discreta oltre la
mia personale tempesta.
***
Cominci a comprendere.
I pensieri turbinano intorno alla tremula fiammella che porti in petto.
Hai paura, lo percepisco chiaramente.
Il tuo passo si fa incerto, dubiti, ti interroghi.
Ti sono accanto. Non permetterò al vento delle consuetudini di trascinarti via un’altra volta.
***
Pensavo di avere dei grossi problemi. Degli enormi problemi. Ne ero
assolutamente convinto. La cosa peggiore era non capire più
quali fossero. La misteriosa presenza che dicevo di avvertire, il
rigetto verso il mio mondo, la necessità di un contatto con la
gente che non mi conosceva e chiamava per nome,
l’incapacità di sporcare una pagina bianca con pensieri e
immagini. Cosa stavo cercando? Qual’era il tassello che non
trovava posto?
Una volta avevo letto in un libro che si passa metà della vita a
deridere ciò in cui altri credono, e l'altra metà a
credere in ciò che altri deridono. Io mi trovavo in entrambe le
condizioni e non sapevo decidere a quale appartenere. Mi prendevo in
giro perché pensavo che quella fuga precipitosa mi avesse
scombussolato al punto di arrivare a dar retta al farneticare di certi
fricchettoni new age che avevo incrociato per strada e nelle
trasmissioni cui avevo preso parte, e che avevo beatamente bollato come
“squilibrati”. Allo stesso tempo, mi rimproveravo per aver
gettato in fondo ad un cassetto la parte più intima del mio io,
quella grazie alla quale ero stato sospinto verso la mia carriera, cosa
per cui almeno una decina di persone dell’entourage della casa
editrice mi avrebbero dato dello svitato.
Deridere o essere deriso. Entrambe le prospettive mi riempivano d’amarezza.
Altrettanto amara era la sensazione che mi accompagnava. Una melanconia
serpeggiante, che mi costringeva a lunghe ore con lo sguardo perso
sulle montagne, immerso nel silenzio. La mente vagava svuotata e,
talvolta, mi domandavo se non fosse quella, la causa della mia
sofferenza. Ma era poi un vero disturbo? Dopo tutto, il mondo sembrava
più bello e pacifico, allettante.
No. Stava diventando sempre più chiaro: il problema ero io.
Perché ero solo con me stesso, isolato ed incapace di
confrontarmi con il peso che mi affliggeva. Dovevo trovare un modo per
risollevarmi, trovare una certezza, una sola, seppur minuscola ed
inconsistente, su cui poggiare i piedi. Paradossalmente, l’unica
certezza che avevo era di essere nel bel mezzo del dubbio.
Chiedevo aiuto e nessuno mi rispondeva e nonostante ciò, ero convinto di avere addosso gli occhi di qualcuno.
Proprio in quel momento, una rabbia profonda si scatenò
all’improvviso. Quella presenza, tangibile o irreale che fosse,
si stava facendo beffe di me, della mia confusione, della mia
frustrazione.
«Perché non ti fai vedere una buona volta?!» gridai. «Vieni, ridimi in faccia!»
La voce si spense sui prati ingialliti dalla calura.
Entrai in casa, sbattendo la porta.
«Perché non mi dici chi sei?! Cosa vuoi?!» strillai,
camminando in lungo e in largo per le due stanze. «Finiscila di
tormentarmi! Vattene via!»
Avvicinare, scacciare, mostrare, sparire. Che stavo domandando? A chi?
In città sarei sembrato un folle, i vicini di casa avrebbero
chiamato le unità mediche o la polizia per farmi portare
chissà dove, senza curarsi del motivo di tanti strepiti.
Avrebbero addotto una scusa qualsiasi – droga, alcol, esaurimento
nervoso – pur di riconquistare la pace perduta a causa di un
disperato.
Mi ritrovai in ginocchio, la mentre improvvisamente sgombra.
Che stavo facendo?
***
Era un buon dolore.
Ti ha spinto a reagire, ad aprire gli occhi.
Dovevi lasciar uscire l’apatia che aveva soffocato il fuoco dei tuoi sogni.
Sei confuso e ti servirà altro tempo per prendere coscienza di ogni cosa.
Ti aiuterò, non devi temere. Il mio compito è guidarti. La mia mano è nella tua.
***
Girovagavo senza una meta precisa, ben conscio che sarebbe stato molto
difficile perdersi. C’erano pochi percorsi nel bosco,
profondamente incisi nel terreno dal ripetuto passaggio dei montanari.
A volte cominciavo a correre senza motivo o restavo immobile,
trattenendo il respiro fin quasi a svenire. Avrei dovuto temere
d’incontrare un orso affamato - evento tutt’altro che
improbabile, stando a quel che mi avevano raccontato in paese
- piuttosto che farmi prendere dall’ansia per colpa di una
presenza che solo io avvertivo.
«Non sei più abituato a stare solo» mi ripetevo.
«Credi di sentire delle cose, che ci sia qualcuno, ma ti sbagli.
Sei da solo. Da-so-lo» scandivo di continuo, tentando di farmi
coraggio.
In realtà, credo che dietro all’ostinato ripudio
dell’idea della compagnia, si celasse il disperato bisogno di
averne. Non il semplice trambusto che ben conoscevo e che mi nauseava,
non l’immersione in una folla vociante per sentirmi parte di una
comunità. Desideravo una compagnia autentica. E proprio quel
bisogno mi spaventava, perché forse l’avevo chiesta
inconsciamente e l’avevo ottenuta in un momento in cui non ero
pronto ad accettarla.
Era ridicolo. Al mondo la gente non voleva altro che qualcuno al
proprio fianco e non era in grado di trovarlo. Io, a quanto pareva,
l’avevo al mio fianco ma lo sfuggivo.
«Stai dicendo un mare di fesserie» mi rimproverai una sera,
dopo l’ennesima riflessione. «Uno psicologo, ecco cosa ti
ci vuole. Uno psicologo che ti dica che stai avendo un esaurimento
nervoso. Oppure sei in una fase di cambiamento e che è
assolutamente normale per un quarantenne single di desiderare di avere
vicino qualcuno. Ecco sì, dovrebbe consigliarmi di prendere un
cane o un gatto. O un pesce rosso. Insomma, un animale da compagnia,
che allevi questa assurda pazzia».
Sedetti sulla porta della casa, il taccuino su un ginocchio ed una biro
in mano. Ci appuntavo due parole di tanto in tanto, sotto lo sguardo
divertito di chi, scorgendo il biancore delle pagine, mi identificava
subito con uno smemorato cronico. La maggior parte delle pagine era
ancora vuota.
Il filo d’inchiostro seguiva lo scorrere della penna. Erano anni
che non buttavo giù due righe. O per meglio dire, erano anni che
non buttavo giù di due righe di mio pugno. I tasti del portatile
erano ormai diventati la penna, i pixel del video l’inchiostro,
una lastra di plastica luminosa la carta. Sembravano lontanissimi i
tempi in cui riempivo quaderni e fogli di parole. Tanto lontani che
dopo qualche serie di sillabe fui costretto a smettere: il polso mi
faceva male, le dita si intorpidivano, la calligrafia era incerta e
sghemba, eppure il desiderio permaneva. Anzi, si faceva più
intenso, bruciante.
Ripresi a scrivere, sforzandomi di aggiungere una parola in più
rispetto la riga ultimata in precedenza, insistendo quando un muscolo
reclamava una sosta.
D’un tratto, il compiacimento per quelle due paginette
travalicò i confini del mio io. Era come se appartenesse a
qualcun altro. Non ai lettori, all’editore o al mio agente che
presto avrebbero avuto per le mani un mio nuovo lavoro. Era la stessa
festosità che avevo provato agli inizi della mia carriera,
quando ero ancora un signor nessuno. Quando ancora scrivevo
“libri” e non “lavori”.
Guardai attorno, felice ed incupito nel contempo. Non mi capacitavo di
quella parentesi che aveva tagliato in due la mia gioia. Eppure, era la
mia vita quella che stavo osservando.
***
Un passo.
Un altro passo.
La tua mano sfiora l’appiglio.
Quell’aiuto che cercavi è sempre stato dentro di te.
Il mio compito era
indicartelo. Offrire la possibilità alla vampa del tuo talento
di ardere nuovamente, d’illuminare il cammino che avevi smarrito.
***
Non avrei saputo spiegarlo in altro modo. Tu eri lì. Altrimenti,
il tuo nome non mi sarebbe girato in testa nei momenti più
disparati. Quando mi preparavo un caffè, mentre tentavo di
piegare una maglia, allacciandomi le scarpe. Anche in quei momenti in
cui un uomo avrebbe voluto essere solo con i propri pensieri. Sapevo
che c’eri. Ti percepivo. E, per assurdo, in quelle volte provavo
imbarazzo nel saperti al mio fianco. Era così strano per me, per
me che per così tanto tempo ero stato circondato di decine, se
non centinaia, di persone. Una torma composta di facce, voci, odori, di
cui non avevo mai avvertito niente, eccetto l’apporto economico
ed un’apparente gratificazione quando scattavano gli applausi. A
tratti mi sentivo un ingrato; in altri momenti era la rabbia ad
assalirmi. Perché tu riuscivi a farti sentire più di
tutti loro messi insieme? Tu che non possedevi altro che la tua
presenza, il tuo stare lì?
Cercai spesso di darti un volto, di associare a te un’immagine.
Era un bisogno irrazionale, la necessità quasi ossessiva di
poterti identificare con una forma riconoscibile, con una consistenza,
dei colori, dei contorni. Non pensavo che la cosa potesse infastidirti:
dopo tutto, tu stesso trovavi il modo di palesarti. Ma ogni volta eri
qualcun altro. Una persona, un animale, un oggetto, un albero. Perfino
le pietre dei sentieri. Mai lo stesso. A volte ho creduto di
riconoscerti nella mia immagine allo specchio. Sgranavo gli occhi
sorpreso, felice di averti catturato. Era appena il tempo di un batter
di ciglia e l’attimo dopo c’ero solo io a riflettermi nel
vetro.
Uscii e sedetti sul prato, dove ormai una coperta stazionava
stabilmente, in attesa delle mie soste. O meglio, delle nostre soste.
Il sole se ne stava pigramente avvolto da un velo di nubi. Poggiai il
taccuino sul ginocchio e, con molta calma, cercai la penna in tasca.
Ero incerto su quel che avrei voluto buttare giù e pensai di
tornare indietro, rispetto all’ultimo punto.
Strinsi gli occhi su quelle righe fitte, piene di cancellature,
correzioni, postille. Le avevo tracciate con una foga che da tempo non
mi apparteneva più. Mi stupii di me stesso, di quanto avevo
prodotto. Stavo lì da più di quattro mesi, eppure avevo
riempito quelle pagine negli ultimi venti, venticinque giorni. Avevo
scritto di continuo, praticamente anche nel sonno. E la cosa mi
turbò. Nel rileggerle sentivo ripresentarsi la brama di andare
oltre, di ampliare le mie idee, di approfondire ciò che i
personaggi che avevo materializzato stavano provando. Volevo scrivere.
Io dovevo scrivere. Era una necessità fisiologica.
Levai il capo, spaventato e sorpreso.
Non mi guardai intorno, anche se avrei voluto.
Un brivido, sottile e fugace, mi aveva attraversato nell’attimo
in cui avevo realizzato di aver effettuato un’inversione di
marcia. Era un pessimo esempio, ma rendeva fin troppo bene ciò
che provavo in quel preciso istante: stavo prendendo le distanze da
quell’io che mi aveva disgustato negli ultimi anni, lasciandolo
indietro. Non avrei potuto tornare indietro, ero abbastanza onesto da
ammetterlo. Potevo tentare di mettermi su una traccia parallela a
quella originaria, per riprenderne la direzione.
Sì, era così. Non era il mondo con il suo turbinare da
falena impazzita ad avermi incattivito. Era la persona in cui mi ero
trasformato, a non piacermi. Io non mi piacevo. Ed il perché era
semplice: mi ero dimenticato chi fossi in realtà. Avevo perso
contatto con la parte di me che rappresentava i miei sogni e le mie
speranze. La parte buona di me, quella da salvare.
Sorrisi a qualcuno che non vedevo e dissi una parola che da tempo non avevo avuto occasione o desiderio di pronunciare:
«Grazie».
***
Ti osservo.
Sono al tuo fianco, tenendo una mano sulla tua spalla.
Ho accompagnato i tuoi giorni ed i tuoi pensieri, dissipando le nebbie che ti accecavano.
Il mondo è un luogo imperfetto e una minuscola macchia può corrodere fin nel profondo.
Non ritengo d’averti salvato in eterno, ma d’averti reso parte di ciò che avevi perduto.
***
Una notte mi svegliai. Mi ero addormentato sulla poltrona, immerso nelle mie riflessioni o nell’assenza di esse.
Un mattino ero sceso in paese ed avevo chiamato il mio agente
dall’unico, fumoso, scalcinato bar. Venti minuti di conversazione
urlata, graffiata, spezzettata, arrotolata su sé stessa.
Incomprensibile. Lui era al cellulare, nel cuore pulsante della
metropoli e correva perché stava facendo tardi ad un
appuntamento. Io invece stavo in piedi nel disimpegno fra il bagno e la
dispensa, appiccicato ad un vecchio telefono a parete, di quelli che si
vedono solo nei film, circondato da casse e scatoloni. Il frastuono
della città era filtrato nitido attraverso il ricevitore,
trascinandosi dietro tutto il resto: potevo quasi riconoscere il puzzo
dei gas di scarico delle auto, i riflessi inconsistenti nelle vetrine
che mi passavano davanti, sentivo male dove i passanti mi avrebbero
urtato, le zaffate di profumo delle signore per bene e di spezie degli
ambulanti stranieri. E poi colori fuggenti, palazzi, facce senza
contorni, voci senza parole. Vortici che annientavano ogni cosa per poi
plasmarla in qualcos’altro, qualcosa di diverso ed
irriconoscibile.
Quella conversazione – peraltro senza capo né coda –
mi disturbò e rese inquieto. Cercai di dare un senso agli
spezzoni di dialogo che rammentavo, ed erano davvero pochi. Ma su ogni
sillaba calava impietoso il muro della grande città, il suo
palpitare spasmodico, la sua corsa asfissiante. Tornai al mio rifugio,
una lumaca nel guscio in attesa della pioggia. Dimenticai di mangiare,
preso com’ero dall’ansia che si era impadronita di me. La
frenesia mi strisciava alle spalle, infima e cattiva. Camminai, rimasi
in ascolto, mi appoggiai alle pareti, agli stipiti, cercando di
calmarmi. Alla fine mi sedetti, incerto sul da farsi. E chiusi gli occhi.
Il tuo nome mi costrinse a riaprirli. Lo sentii riecheggiare nella
mente, pronunciato da labbra invisibili. La stanza era illuminata dalla
luna. Dalla finestra lì accanto entrava un filo sottile di
vento. Lieve, appena percettibile. Trascinava con sé lo spunto
languido tipico delle notti di fine settembre, quando l’aria
fredda solleticava le foglie degli alberi.
Non riuscii a muovermi, ero intorpidito. Guardavo la coperta che mi ero
gettato sulle gambe con un misto di timore e sollievo. A tratti avevo
l’impressione di non vedere una parte di me stesso, ma di
un’altra persona. Una persona sconosciuta ed allo stesso tempo
familiare.
Mi sistemai contro i bozzi dello schienale, cercando una posizione
più comoda. Le miei dita sfiorarono qualcosa. Il taccuino era
lì, appoggiato in bilico sul bracciolo, con la biro infilata a
mo’ di segnalibro. La plastica trasparente si frammentava in
lucide schegge bianche. Gli occhi guizzavano nel buio, mettendo a fuoco
a stento le forme vagamente note dei pochi oggetti intorno a me.
Provai una sorta di ansia, di paura. Il buio non mi aveva mai
spaventato, ma quella notte, ebbi per un istante l’impressione
che qualcosa di vivo vi si annidasse. Qualcosa che mi osservava, senza
che io potessi capire da dove e perché. Non volevo credere di
aver perso ogni cosa a causa di una stupida telefonata.
Deglutii a vuoto un paio di volte, prima di decidermi.
«Sei qui?» domandai, facendomi forza.
La mia voce, tutto d’un tratto, parve dissolversi appena uscita
dalle labbra. Attesi. Ero certo, assolutamente certo che fossi
lì. Ed ero altrettanto sicuro che mi avresti risposto.
«Sei qui?» ripetei.
Tentai con ostinazione di percepire una nota, un sibilo, un segno
rivelatore. Cosa dovesse rivelare, poi, mi era oscuro. La tua presenza?
La tua esistenza? Non avrei saputo dire. Tesi l’orecchio,
ascoltando il silenzio. Quello fuori, sui prati, ma soprattutto quello
dentro di me. A poco a poco però, la ricerca spasmodica di una
traccia si acquietò. La quiete mi attraversava, placida come un
lago, le cui acque restavano perennemente immobili. Dopo tutto quel
caos, le grida, la confusione, fu come un balsamo. Il medicamento della
mia anima.
Un attimo dopo, mi riaddormenti.
Avevi risposto, a tuo modo. Ne ero sicuro, perché mi assopii sorridendo.
***
E continuerò a farlo.
Ogni tuo appello riceverà risposta.
Pur se non odi verbo,
conosci il linguaggio. Senti il legame che ci ha sempre unito, il filo
che mai si era spezzato, anche nei momenti in cui il buio ti circondava.
***
«Perché questo suo personaggio non ha un nome? È
stata una scelta al fine di stuzzicare il lettore o un suggerimento
dell’editore?»
Avrei dovuto immaginarlo. Dopo mezz’ora di convenevoli ed elogi
artistici, il giornalista ha deciso di scoprire le carte. So cosa vuole
insinuare. Altri mi hanno fatto notare che, in questo mio ultimo
lavoro, ho fatto delle scelte bizzarre, fuori dal mio stile abituale.
Mi sono valse una marea di critiche ma anche soddisfazioni ed
apprezzamenti sinceri. Tutti l’hanno addebitato
all’editore, quasi che il sottoscritto, dopo una lunga pausa,
abbia perduto le proprie capacità, anziché averle
ritrovate.
Questo ragazzotto – avrà sì e no ventisette anni,
anche se si atteggia a consumato esperto del settore - mi ha voluto
incontrare in questo locale dalle pareti color aragosta ed i tavolini
neri ultramoderni, con la scusa di una conversazione informale.
«Crede davvero che non abbia un nome?» replico tranquillo,
sorseggiando un caffè da una tazzina che vedrei benissimo
esposta al M.O.M.A.
Per un attimo lo vedo spiazzato. Immaginava un’altra risposta.
Fruga tra gli appunti, tenta di ricomporsi. L’essere preso in
contropiede non fa parte dei suoi piani. È inesperto,
supponente, troppo giovane per certe astuzie.
«Non l’ho trovato scritto da nessuna parte» si giustifica, una volta riviste le note.
Mi viene da ridere. Pensa che tutto sia racchiuso in una semplice
parola, che qualche sillaba nasconda una grande verità. Non
dovrei ridere, perché è così. Quello che mi
diverte però è il suo associare un’idea sbagliata a
quella domanda. Un’idea fatta di banconote e
notorietà.
«Ogni lettore è libero di dare il nome che preferisce a
questa figura e non perché l’abbia deciso io.
Semplicemente perché è così che deve essere.
Ognuno di noi ne ha una, non sono tutte uguali. Nel libro prende forme
diverse, a seconda dei bisogni del protagonista. Lo aiuta a ritrovare
la propria rotta» spiego con calma.
«Una specie di angelo custode?»
Sospiro, allungandomi sulla poltroncina di alto design. Non è un
sospiro svogliato o annoiato. È solo un sospiro. Semplicemente,
la poltrona era scomodissima e la posizione in cui mi ero messo mi
stava facendo dolere anche i capelli. Ora va meglio.
«Preferisco anima compagna. Suona più intimo».
«Come nel romanzo».
L’osservazione è di una tale banalità da strapparmi
un sorriso per il modo pomposo con cui l’ha pronunciata. È
il titolo del libro.
«Ovviamente» concordo.
«Quindi, lei… ci crede?»
Il tono mi pare troppo frivolo, leggero. Forse sto travisando.
«A cosa?»
«Crede agli angeli?» bofonchia.
Un guizzo di rabbia mi graffia lo stomaco. Lui non crede.
Inspiro con calma. Lo osservo. Penso che tu mi hai difeso in molte
occasioni, senza che lo potessi immaginare. Ora è il mio turno
di difenderti.
«Sì» ammetto con semplicità, terminando il contenuto nella mia opera d’arte contemporanea.
«E… la sua anima compagna? Ce l’ha un nome?»
Si trattiene a stento dal ridacchiare.
Sorrido di nuovo. Ho capito dove vuole arrivare. Il suo scetticismo lo
sta portando a farmi domande con cui domani mi farà passare per
uno sciroccato. Male. Mi dispiace per lui.
«Sì» ripeto.
«E qual è?» s’informa divertito.
Conosco quell’espressione. La stessa del mio agente quando gli ho
raccontato quel che mi era capitato. Immagina un nome buffo, ridicolo,
che dovrei pronunciare in maniera grandiosa, spacciandolo per qualcosa
di sublime. Io però non ho nulla da inventare. Mi stiracchio e
gli strizzo l’occhio alzandomi.
«Si è fatto tardi e lo spazio a sua disposizione è
terminato. È ora che torni a prendermi il mio tempo».
Saluto cordialmente il giornalista, nonostante le sue proteste. Ho
deciso di non lasciarmi più trascinare da queste conversazioni.
In questi mesi ho parlato con molte persone e so che è
impossibile convincere chi non vuole ascoltare la mia esperienza o
peggio, chi non crede a prescindere. La mia non è una resa. Se
ho potuto cambiare idea io, possono farlo anche loro, ma devono
trovarsi nella situazione giusta per poter arrivare a sentire
l’altro. L’anima compagna.
La fama, il successo, il denaro. Sì, tutte cose che fanno
piacere, non posso negarlo. Quante copie saranno questa volta?
Diecimila? Cinquantamila? Centomila? Nessuna? Se tu lo sai, ti prego,
non farmelo nemmeno intuire. Non m’importa. Spronami quando perdo
il passo, aiutami a tenere i piedi e la mente al loro posto: i primi a
terra, la seconda nei sogni. Ricordami che il mio fantasticare è
prezioso. Hai preso il mio capo fra le mani per indirizzare il mio
sguardo nella giusta prospettiva, non lasciare che mi volga di nuovo su
vedute ingannevoli.
Fammi sentire che ci sei sempre per me, Elemiah.
***
Ci sarò sempre, così come ero presente nel primo attimo della tua vita.
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