Through the paper and the pain
Non occorrono lunghi anni per
cimentare, in una persona,
l’avversione verso un determinato oggetto: sia essa
l’espressione del nemico
vittorioso sul campo di battaglia, il tic snervante di
un’altra nazione, seduta
sistematicamente all’altro capo del tavolo durante le
riunioni europee, o, più
banalmente, un rumore insistente, talvolta bastano pochi secondi per
radicare
nella nostra mente quest’impressione di odio viscerale
talmente a fondo, da non
riuscire più a liberarcene.
Ludwig lo aveva recentemente provato
sulla propria pelle,
segnata dal profilo lucido e biancastro di numerose cicatrici in via di
guarigione: la Seconda Guerra Mondiale si era appena conclusa da un
anno,
periodo di tempo che l’aveva visto impegnato tanto quanto lo
era stato nelle
trincee e nel fango in precedenza. Il tedesco non aveva esattamente
quello che
potremo definire una considerevole quantità di tempo per
rimuginare sulle
ultime sconfitte subite: il suo popolo richiedeva
un’attenzione costante, fragile
com’era alla stregua di un convalescente ancora segnato dalla
malattia. Non
avrebbe sorpreso nessuno, d’altro canto, che una qualsiasi
nazione,
recentemente sconfitta e, per di più, in simili condizioni,
desse, a lungo
andare, segni di un certo nervosismo: eppure, proprio Ludwig notava,
sempre più
stizzito, man mano che passavano i mesi, l’influenza che
esercitava sul suo
umore il minimo cambiamento riportato dall’ambiente che lo
circondava. La
pioggia, in particolare, sembrava tenerlo in suo potere, rendendolo
tanto
intrattabile da determinare l’allontanamento dei suoi
sottoposti durante gran
parte delle giornate autunnali di Francoforte, dove ora risiedeva
–si fa per
dire- stabilmente.
Il suo rumore cadenzato e mormorante
gli riportava alla
memoria le più vive e sgradevoli impressioni del lungo
conflitto, a partire da
quelle vissute in uno dei tanti campi di concentramento in cui aveva
espiato
volontariamente gli ultimi mesi di guerra: ed il fatto che le gocce di
pioggia
scorressero lungo le enormi vetrate della sua spaziosa villetta proprio
nello
stesso identico modo delle lacrime sui volti dei prigionieri, in
tremolanti e
sgomenti angoli, non faceva che accrescere il senso di soffocante
oppressione
che continuava ostinatamente ad asserragliargli il petto.
Il tedesco giaceva mollemente su una
poltrona di pelle,
percependo appena il freddo che essa si accaniva a trasmettergli,
nonostante si
fosse avvolto in una spessa coperta. Dopo aver cercato, invano, di
trovare una
posizione confortevole al suo riposo, si era risolto a stare steso
sulla
schiena, la testa abbandonata contro il duro pomello di legno del
bracciolo che
spuntava da sotto il cuscino della poltrona. Con gli occhi azzurri
socchiusi,
sbirciava regolarmente verso una pila di documenti, che, frusciando
mestamente
su un piccolo tavolino, reclamava la sua piena attenzione. Affari di
stato, cui
la nazione non riusciva, quel pomeriggio, a dedicarsi, inchiodata al
soffice
calore del suo nido di coperte dal ticchettio insistente della fredda
pioggia di
Francoforte e dalla malinconia da essa portata.
Stringendo un lembo della coperta tra
le mani, Ludwig
sprofondò ulteriormente in un pacifico oblio, raggiungendo
quello stato sospeso
tra il sonno e la veglia, che reca tanto conforto e, parimenti,
disperazione ai
febbricitanti nelle notti invernali. Tra i più remoti
recessi della sua
coscienza, il ragazzo si affannava a cercare un’immagine
rassicurante o, per lo
meno, non deprimente quanto i suoi ricordi più recenti: il
sorrisetto vagamente
compiaciuto del fratello Prussia e quello raro e misurato di Kiku erano
guide
sicure verso un riposo di pochi minuti, bastevole a renderlo di nuovo
abbastanza cosciente da permettergli di sfuggire alle spire tenebrose
della sua
malinconia.
Quel giorno, tuttavia, non poteva
fare a meno di pensare a
quel ragazzetto snello che l’aveva ferocemente tradito, ed
all’unico momento in
cui i suoi occhi, dello stesso colore cupo della resina d’una
quercia, si erano
spalancati, inchiodandolo con il fucile in mano su una collina del
Piemonte. La
nebbia era così fitta, così dannatamente
opprimente.
Una forte scampanellata lo
richiamò bruscamente alla realtà,
facendolo rizzare con uno scatto in posizione seduta sulla poltrona.
Respirando
affannosamente per la sorpresa, aspettò che l’uomo
al di là della porta se ne
andasse, o, al contrario, suonasse nuovamente.
Quando il suono metallico del
campanello risuonò nuovamente
nel salotto, nient’affatto attutito dalla sottile
tappezzeria, il tedesco buttò
giù le gambe dalla poltrona con un sospiro, tendendo i
muscoli della schiena
sempre più magra e sottile. Scostata rabbiosamente la
coperta dalle ginocchia,
attraversò rapidamente il breve corridoio che separava il
salotto
dall’ingresso, lisciandosi i capelli all’indietro,
in modo tale da offrire una
vaga parvenza d’ordine.
La maniglia della porta gli trasmise
una fitta di gelo alle
dita intirizzite, che lo svegliò del tutto dal torpore mentre
si sporgeva
cautamente oltre l’uscio.
Un sorriso appena accennato rispose
al suo sguardo vagamente
scocciato e confuso: un ragazzo stava fermo sulla soglia della casa di
Ludwig,
stringendo al petto un grosso involto di carta da pacchi scura quasi
completamente zuppo d’acqua.
-Guten Abend, Herr.
Mi manda l’ufficio postale- disse
il ragazzo, borbottando, poi, a mezza voce il nome di una via centrale
di
Francoforte ove risiedeva l’ufficio menzionato.
Il tedesco lo guardò con
maggiore attenzione: non indossava
una divisa da postino, al contrario, era infagottato in un lungo
giaccone
grigio, da cui spuntavano dei pantaloni alla zuava violacei ed un paio
di
scarponcini da ragazzo. Poteva trattarsi di un fattorino, al massimo di
un
garzone. Germania non poté fare a meno di notare che il
ragazzo non aveva con
sé alcun ombrello, lasciando che la pioggia gli inzuppasse i
vestiti e gli
incollasse i capelli sul collo.
-Potrebbe fare una firma sul
registro, cortesemente?- chiese
con voce gentile, porgendogli una cartelletta zuppa di pioggia.
Ludwig guardò
quest’ultima, facendo saettare lo sguardo dal
giovane al pacco che reggeva sotto braccio. Con un gesto rapido,
quindi, prese
il lapis ed il registro che gli porgeva, e, scarabocchiata una firma
subito
cancellata da alcune gocce di pioggia, si ritirò in casa,
lasciando al ragazzo
appena il tempo di scansare la porta, una volta ceduto il pacco.
La schiena premuta contro il muro, la
nazione aspettò
cautamente nella penombra, finché non riuscì ad
udire il suono dei passi del
garzone allontanarsi lungo il viale, che annetteva la villa alla
caotica città
tedesca. Mentre faceva ritorno all’atmosfera ovattata del
salotto, si rigirò
pensieroso il pacco tra le mani: l’indirizzo del mittente era
stato vergato in
un angolo con una grafia incerta e spigolosa, tanto da rendere inutile
qualsiasi tentativo di decifrazione.
Il tedesco fece per buttarsi sulla
poltrona, ma, all’ultimo,
si bloccò, preferendo sedersi sulla sedia abbandonata dietro
lo scrittoio dalla
sera prima: strappò delicatamente la carta che avvolgeva il
pacco, portando
alla luce un grosso dipinto ad olio privo di cornice.
Ludwig inarcò le
sopracciglia chiare, chiedendosi chi mai
avrebbe potuto inviargli un’opera di così fine
bellezza e per quale motivo.
Pennellate morbide e uniformi avevano delineato sulla tela due figure
femminili
di evidente giovinezza, sedute su un muretto di pietra con le mani
intrecciate
le une tra le altre. L’espressione quieta e serena della
ragazza dai capelli
scuri, in particolare, spinse Ludwig a prendere il dipinto tra le mani
per
poterlo osservare da più vicino. Da dietro
l’intelaiatura del quadro si staccò
una busta bianca, che cadde sulla scrivania attirando lo sguardo del
ragazzo.
Germania posò il dipinto,
sempre più incuriosito, allungando
una mano verso la lettera: la carta della busta era asciutta, riparata,
evidentemente, dal fattorino, che aveva strinto al petto, senza
volerlo, la
parte del pacco in cui era nascosta.
La girò verso una piccola
lampada, unica fonte di luce nella
stanza, rabbrividendo involontariamente alla lettura del mittente. Una
sensazione di gelo gli serrò la bocca dello stomaco,
irradiandosi attraverso
ogni singola vena e capillare.
Herr Feliciano Vargas
Angolo dell’autore
Salve a tutti i lettori. Se siete
giunti fin qui, vuol dire
che il primo capitolo di questa fanfiction non è poi
così orribile come pensavo
(e penso tutt’ora). Mi rendo pienamente conto del fatto che
sia terribilmente
malinconica, sebbene non sia mai mia intenzione scrivere racconti
tristi o
introspettivi (peccato che finisca sempre così); a parte
questo, spero di
avervi –si fa per dire- incuriosito. Credo che richiedere
qualche recensione
e/o critica costruttiva sia, a questo punto, abbastanza scontato. Per
ora
chiudo qui, con la promessa di postare presto il prossimo chap. Grazie
per
l’attenzione! :)
Arianna F. alias Scribak
P.S. Per quello che riguarda la
scelta di Germania di
trascorrere gli ultimi mesi di guerra in un campo di concentramento,
così come
l’allusione ad un suo ultimo incontro con Feliciano durante
il periodo della
Resistenza, sono entrambe riferimenti ad una mia fanfiction non ancora
pubblicata
(per non dire scritta). Mi auguro che non li troviate troppo azzardati.
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