Le femmine non si
toccano
« Le femmine non si toccano, Jake ».
Lo sapevo a memoria, mamma me lo ripeteva ogni giorno. Ed io mi
arrabbiavo tantissimo perché non era giusto.
Perché Rachel poteva spingermi se tagliavo i capelli alle
sue stupide bambole?
Perché Rebecca poteva darmi i pizzichi sulle braccia quando
disegnavo su quel quaderno col lucchetto che nascondeva ogni giorno in
un posto diverso?
Perché quando io reagivo la mamma doveva sgridare sempre me?
« Perché tu sei un ometto e le ragazze non vanno
sfiorate nemmeno con un dito », mi spiegava.
Secondo me, forse la verità era che lei mi voleva meno bene
di quanto ne volesse a loro. Ma non glielo dicevo. Perché io
veramente non capivo quella cosa
o perché la ripetesse continuamente.
Anzi no, ero proprio sicuro
che la verità fosse quella.
Altrimenti davvero non aveva senso quello che diceva. Genoveffa e Anastasia
erano più grandi di me, quasi sempre erano più
cattive e soprattutto, quando litigavamo, mi facevano molto
più male di quanto io ne facevo a loro. Quindi
perché non potevo toccarle?!
Quella era l’unica cosa che mi faceva passare la voglia di
sorridere.
Non lo capivo, mi arrabbiavo e mettevo il broncio. Andavo a nascondermi
ogni giorno in un mobile diverso della cucina.
Poi va beh, sì, come sempre, la mamma veniva subito dopo a
cercarmi. E non capivo come faceva, ma mi trovava sempre. Apriva
l’anta, mi sorrideva, mi tirava fuori e mi stringeva forte
forte, immergendomi la faccia nei suoi lunghi capelli morbidi, che
profumavano sempre di buono. Io scalciavo sempre perché,
ehi, mica poteva fregarmi così? Allora lei – altra
cosa che non capivo – tirava fuori da una tasca del grembiule
da cucina una caramella, solo per me. E tutto passava.
Forse la mamma era magica. O forse lo erano le sue caramelle. Ma a me
passava sempre tutto.
O almeno questo succedeva quando ero piccolo. Ma non adesso, no. Adesso
ero cresciuto e, cavoli! Avevo quasi otto anni, io!
E quel giorno la spinta di quell’antipatica di Rachel proprio
non mi era andata giù. Così l’avevo
spinta anch’io. Due volte. Lei ovviamente aveva chiamato la
mamma – brutta spia – e io ero stato sgridato. E
allora ero stato lì, a dovermi subire ancora sempre la
stessa ramanzina.
Non lo avevo capito, mi ero arrabbiato e avevo messo il broncio.
Però col
cavolo che mi andavo a nascondere stavolta!
Non ci pensavo proprio a farmi fregare come un mocciosetto, con un
abbraccio e una caramella e tutto passava. Non mi avrebbero fregato
così. E non era vero quello che diceva Rebecca, che avevo
smesso di farlo solo perché non entravo più nei
mobili. Avevo smesso di farlo perché ero grande adesso!
Così ero corso fuori. Non ero scappato, ero solo corso
fuori.
La mamma mi aveva gridato dietro ma io non mi ero voltato,
così lei si era messa a ridere. Mi ero arrabbiato ancora di
più ed ero corso via anche dal giardino. Erano tutte
così antipatiche
quando facevano così.
Cavolo! Allora ecco
perché! Non mi diceva sempre quella cosa stupida
perché voleva più bene alle gemelle che a me,
diceva sempre quella cosa stupida perché era una femmina
anche lei!
Era ovvio, perché non ci avevo pensato prima? Le femmine
erano tutte uguali e a me stavano antipatiche tutte, nessuna esclusa.
Sì, anche la mamma.
Scalciai un sasso e alzando gli occhi vidi il mare, ero arrivato in
spiaggia. Forse se mi avessero cercato, lì mi avrebbero
trovato subito, ma me ne fregai. Anzi, se la mamma mandava una di
quelle due lucertole
a cercarmi era anche meglio. Stavolta le avrei spinte sul serio, e
forse avrei assestato anche un paio di pizzichi al momento giusto,
senza genitori intorno. Gliel’avrei fatta vedere io.
Così cominciai a fantasticare sul loro arrivo, sulla mia
rivincita e sui loro ridicoli piagnucolii e quasi non mi accorsi di
quello strano verso.
Smisi di calciare i sassolini per capire che rumore fosse. Era proprio
una roba strana, come qualcosa che squittiva. Mi venne da sorridere
all’idea che potesse essere un topo, finalmente qualcosa con
cui divertirsi! Mi piegai un po’ sulle ginocchia e cominciai
a camminare piano verso i tronchi bianchi. Raccolsi un rametto
abbandonato e nella mia testa quello diventò immediatamente
una lunga freccia appuntita, ed io un indiano a caccia.
Lo squittio veniva da dietro il tronco bianco più grande di
tutti, lo raggiunsi, mi accovacciai dietro le enormi radici e mi
preparai all’attacco.
Uno … due … e tr..
La cosa lì dietro singhiozzò. Un momento, i topi
non singhiozzavano. Ma allora cosa c’era lì
dietro? Mi alzai in piedi e feci il giro del tronco lentamente.
Accovacciata contro il legno bianco, di spalle, con le ginocchia al
petto e la fronte poggiata sulle braccia, c’era una bambina.
No! Un’altra femmina no!
Sbuffai e pensai di andarmene, ma quella singhiozzò ancora
più forte. Possibile che sapessero fare solo questo le
femmine? Lamentarsi!
Aveva le braccia pallide, troppo pallide per essere una della riserva. Per un momento
i capelli lunghi e scompigliati non mi fecero vedere altro, poi
alzò la testa dalle braccia.
Non si era ancora accorta di me, così allungai un
po’ il collo per vederle la faccia. Stava piangendo, aveva le
guance e la punta del naso rossi, ma per il resto era pallidissima.
Perfino la bocca era chiara, rosa chiaro, tutta bagnata di lacrime. Le
uniche cose scure che aveva erano i capelli e gli occhi. Se li asciugò con una mano.
Erano proprio grandi, accidenti! Gli occhi più grandi che
avessi mai visto. Scuri come quelli della mamma, ma più
belli. Con tutte quelle lacrime, così bagnati, mi sembravano
liquidi. Mi ricordavano proprio tanto la cioccolata calda che mi
preparava zia Sue in inverno.
Io la conoscevo quella ragazzina! Era l’unica con quegli
occhi così
e tanto pallida, me la ricordavo. Era la figlia di Charlie e quasi ogni
estate veniva a trovarlo per un po’. Sì,
però non l’anno scorso. Mi ricordavo che avevo
chiesto di lei, ma Charlie aveva sbuffato ed era sprofondato nel divano
di casa mia.
Non lo dicevo a nessuno – perché altrimenti che
figura ci avrei fatto? – ma mi piaceva giocare con lei. Non
era come le altre femmine. Non era antipatica e cattiva come le gemelle dell’orrore,
e non era nemmeno noiosa e ingiusta come la mamma. Okay, forse era
troppo timida, ma almeno non si tirava indietro se c’era da
sporcarsi il vestito nel fango!
Ero contento che fosse tornata, ma chissà perché
stava piangendo. Volevo chiederglielo ma … oh,
com’è che si chiamava? Mi ricordavo qualcosa di
strano, un nome veramente molto, molto strano. Ma non
strano nel senso di brutto, anzi, mi pareva che fosse anche bello
… Bella! Ecco come si chiamava!
Che poi che razza di nome era? E tra l’altro qualsiasi
ragazzina avrebbe fatto la scema con un nome così, invece
lei non lo aveva mai fatto. E poi … le stava anche bene.
Oh mamma mia, ma che cosa cavolo
stavo dicendo?! A furia di stare con le femmine stavo diventando scemo
anch’io. Non che avessi mai pensato che Bella fosse il tipo
di femmina scema, ma … Oh,
basta!
« Ciao » dissi, e mi avvicinai di un passo.
Lei si spaventò tantissimo e mi fissò per qualche
secondo, con quegli occhi grandi e lucidi tutti spalancati. Mi sa che
non aveva capito chi ero.
Forse sono tutte
un po’ sceme, le femmine.
Poi però si ricordò di me, perché gli
occhi le tornarono normali e abbassò le spalle, dopo lo
spavento. Tirò su col naso e con una mano sporca di terreno
si asciugò le lacrime e un po’ di moccio sotto il
naso.
« Ciao » mi rispose, e a me sembrò una
ranocchietta.
« Perché stai piangendo? »
« Sono caduta »
Si girò e mi fece vedere il ginocchio. C’erano un
po’ di graffi, uno più lungo e profondo degli
altri dal quale usciva del sangue.
E piangeva per quello? Io mi riducevo sempre molto, ma molto, ma
mooolto peggio di lei e non piangevo mai. Bah, le femmine.
« Ti fa male? »
« Non tantissimo »
Spalancai gli occhi. « E allora che hai da piangere?!
»
Bella piegò le sopracciglia, le tremolò il labbro
di sotto e ricominciò a piangere più forte di
prima. Oh, ma che bravo! La mamma sarebbe stata proprio fiera di me!
Anche se, ehi, chi se ne fregava della mamma, io non volevo che Bella
piangesse.
Mi faceva tenerezza e poi, anche se non ricordavo più il
perché, mi venne in mente che mi piaceva farle spuntare il
sorriso. Così mi avvicinai un pochino. Cosa dovevo fare?
Di solito la mamma mi abbracciava sempre quando mi facevo male. Anche
se non ce n’era bisogno perché io non piangevo.
Dovevo abbracciare anch’io Bella? Forse …
…
«Le femmine non si toccano, Jake» …
Bleah! E chi voleva farlo! Io no di certo.
Però … però Bella non era come le
altre femmine. E poi piangeva così tanto. E poi io volevo davvero consolarla
…
« Non lo dire a Charlie, per favore » disse
improvvisamente.
« E perché dovrei farlo? »
« E che ne so! »
Ecco, qualcosa come le altre femmine ce l’aveva. A volte
poteva essere antipatica anche lei.
« Per favore » aggiunse dolce e puntò
quegli occhi così grandi nei miei « Lui mi porta
sempre in ospedale e io non voglio »
« Non glielo dico. Non sono mica una spia come Rachel
»
« Che? »
« Niente » sbuffai.
La guardai ancora e pensai che forse era arrivato davvero il momento di
fare qualcosa. Mi tirai su il bordo del pantalone e le feci vedere il
ginocchio dove avevo la mia cicatrice più grande. Ne andavo
fierissimo, Quil era invidiosissimo dei miei dodici punti e aveva
tentato per mesi in tutti i modi di farsene una così anche
lui, ma non era per quello che gliela mostrai.
« La vedi questa? Dodici punti » sorrisi
soddisfatto « me la sono fatta su quegli scogli
laggiù. Però ho continuato a tuffarmi con i miei
amici per il resto della giornata »
Bella mi guardò senza capire e tirò ancora su col
naso. Almeno aveva smesso di piangere, però forse era
davvero un po’ stupida come le altre femmine. Però
… cavoli … con quegli occhioni così e
con quella pelle pallida era la femmina più carina che
avessi visto. Molto di più di tutte le altre della riserva.
Woh! Frena, frena. Da
quando le femmine sono
carine?!
Forse il sole di quel giorno e la spinta di Rachel mi avevano frullato
il cervello.
« Bella, ci devi mettere l’acqua sopra.
Così se la pulisci non si fa quella roba bianca e poi se ci
togli un po’ di sangue Charlie non si spaventa e non ti porta
all’ospedale »
Gli occhi lucidi di Bella tremarono appena. Poi si passò
ancora il polso sotto il naso sporco e si alzò. La portai a
riva e quando l’acqua fredda ci bagnò i piedi solo
a lei vennero i brividi. Ridacchiai.
Poi mi guardò ancora come per chiedermi se fossi sicuro, con
i capelli tutti scompigliati che sotto il sole diventavano un
po’ rossicci, le guance ancora rosse e quegli occhioni grandi
e bagnati. Forse davvero, ma davvero, ma proprio davvero ero
diventato tutto scemo, però volevo prenderle la mano.
…
«Perché tu sei un ometto, e le ragazze non vanno
sfiorate nemmeno con un dito» …
Lo sapevo che le femmine non si toccavano, la mamma me lo ripeteva
tutti i giorni. Ma la mamma non mi aveva mai detto di non toccare le
ragazze così,
come io volevo toccare con la mia mano quella di Bella.
Insomma, a me le femmine mi facevano arrabbiare e basta, ma non Bella.
Io me ne fregavo tantissimo quando Rebecca si faceva male, anzi la
prendevo anche in giro se si metteva a frignare. Però
Rebecca quando piangeva non era come Bella. Gli occhi di Rebecca non
erano così
grandi e di cioccolata, e i suoi capelli non profumavano di buono.
Mi chiesi se anche due estati fa, l’ultima volta che era
venuta a Forks, Bella aveva avuto sempre gli stessi capelli, gli stessi
occhi e la stessa espressione. Io mica me la ricordavo così.
Non ricordavo affatto che le mani mi sudavano se mi guardava così. E
non ricordavo nemmeno di essere mai arrossito per quegli occhi così.
Forse era meglio se guardavo da un’altra parte,
perché mi sentivo come quando la mamma scopriva con una sola
occhiata che le stavo dicendo una bugia. Anche Bella ci poteva
riuscire? Avevo proprio paura di sì.
No, ecco, questo bastava: Bella era proprio diversa. Bella non
era una femmina
come tutte le altre e a me non importava più né
di fare la figura dello scemo, né di andare contro quello
che la mamma mi ripeteva da sempre. Insomma, ma che cavolo! Stavolta si
sbagliava e avrei fatto quello che dicevo io!
Così la toccai. Le presi la mano nella mia e non fu mica
tanto grave! Tanto casino per niente. Non successe esattamente nulla,
né la fine del mondo né fulmini e saette.
Almeno fin quando non sorrise.
Le sue dita strinsero forte le mie e sorrise. Quegli occhi grandi così
scintillarono e mi ricordai perché mi piaceva farla
sorridere.
Mi sentivo soddisfatto ma soprattutto mi sentivo felice. Bella non
piangeva più, le guance non erano più rosse di
pianto ed io – proprio io,
accidenti! – avevo fatto tutto questo.
« Dai, Bells » e le avevo anche trovato un
soprannome!
Sorrise ancora di più, ma chiese comunque «
Farà male? »
« Un po’ brucia »
Mi aspettavo che si tirasse indietro, invece Bella strinse
più forte la mia mano e poi, senza pensarci ancora sopra,
prese dell’acqua e iniziò a sciacquare il
ginocchio. Dopo poco il sangue era sparito del tutto e il graffio era
meno profondo di quanto ci fosse sembrato.
« Grazie, Jake » trillò felice.
Mi lasciò la mano, cominciò a correre sulla riva
dove i sassolini non potevano farci male ai piedi e mi sfidò
a prenderla. Partii carico come un razzo, più felice di lei.
Avevo disobbedito alla mamma, ma cosa importava? Anzi, quando sarei
tornato a casa le avrei spiegato che si sbagliava di grosso, sulle
femmine.
17 luglio, Bells. Era il
17 luglio. Dieci anni che ti amo.