Note iniziali: primo tentativo di scrivere su
questi due adorabili esseri, che amo
alla follia e che mi fanno piangere per quanto sono canon. Abbasso Maya
(per la
quale nutro comunque una certa simpatia) e abbasso anche Franziska,
perché forse negli
episodi seguenti (sono ancora
all’uno) c’è terreno fertile per lei e
Miles. Io questo non lo so, so soltanto
che è impossibile non shippare Phoenix e Miles. Ci sono
troppi indizi per non
farlo, bisogna essere proprio ciechi per non vedere!
Tornando alla storia che
vi apprestate a leggere, sappiate solo che ho immaginato un piccolo
episodio
DOPO la partenza di Maya in cui Miles decide di ringraziare
‘meglio’ Phoenix
per l’aiuto che gli ha dato in tribunale. Non so se mi sono
tenuta o meno IC,
ovviamente mi auguro di sì, ma potrei sbagliarmi. Mi sono
basata molto sull’episodio
4, per scrivere questa one-shot, e in particolare sulla fine, poi
capirete cosa
intendo. Il POV è di Miles~ e con ciò vi auguro
buona lettura! :D
Era
strano pensare come quel
colpo di proiettile si fosse portato con sé ben
più di quello che sarebbe
potuto apparire agli occhi di un qualunque estraneo. E non faceva
differenza,
se si trattava di un poliziotto o di un semplice curioso,
perché esistevano dei
fili che erano stati recisi nel
silenzio più assoluto, fili invisibili di cui nessuno
conosceva l’esistenza. E
nonostante qualcosa gridasse, nella mente e nel cuore di Miles, non
c’era verso
che queste urla potessero raggiungere l’esterno. Non vi era
modo, per quel
gelo, di intaccare le altre persone. Tutto era sempre rimasto dentro la
sua
sfera personale, ma a Miles era andato bene così. Anzi,
benissimo. Perché la
questione era più facilmente gestibile se contenuta entro i
confini di un
singolo individuo; specie se l’individuo in questione era
proprio lui. Eppure…
Edgeworth Miles aveva
avuto come uno spiacevolissimo sentore, quel giorno. Come se per la
prima volta
qualcuno si fosse soffermato a guardarlo, con quel tipo di sguardo che
riusciva
a penetrare qualunque tentativo di difesa, vanificando tutti gli sforzi
compiuti affinché la sua intimità non venisse
violata. Era stata, in principio,
una sensazione molto sgradevole. Essere spogliato delle proprie difese
non era
piacevole, a maggior ragione se a farlo era una testa a porcospino,
prevedibile
in una maniera che quasi lo irritava, che proprio in virtù
del suo scarso
intelletto riusciva a capire cose che persino lui aveva esitato ad
ammettere a
se stesso.
… Era snervante, parecchio
snervante. Così snervante, che quasi Miles non vedeva
l’ora di entrare in
un’aula di tribunale, smontarlo con le sue obiezioni fino a
farlo sudare
copiosamente, solo per vedere la sua impagabile espressione da
sconfitto. Ah,
che pensiero assolutamente gratificante!
Una sensazione di fastidio
lo colse subito dopo quel pensiero, raggelandolo con una
velocità spaventosa.
Non avrebbe potuto farlo, finché…
Quel
grazie mi è proprio rimasto sullo stomaco, eh?
Phoenix Wright aveva fatto
molto per lui, spingendosi fino a un punto che non aveva creduto
neanche che
esistesse, fino a un punto dove lui stesso non aveva osato mettere
piede per
quindici, lunghi anni. Anzi, non era corretto: Phoenix Wright lo aveva accompagnato nel momento in cui lui
aveva deciso di addentrarsi in una terra sconosciuta e che lo
terrorizzava a
morte. Senza la minima esitazione, mentre lui si preparava a confessare
il suo
omicidio, Phoenix Wright aveva cominciato a far ordine nel registro
processuale, ammucchiando pezzi di puzzle che non avrebbero condotto
anima viva
a una conclusione che non fosse il suo verdetto di colpevolezza. E
nonostante
ciò…! Nonostante ciò, con la sua
fortuna sfacciata,
quell’uomo con la testa a punta era riuscito a guardare oltre
ogni cosa,
giungendo alla verità.
… Persino oltre i suoi
stessi incubi, i più intimi e spaventosi.
Come poteva andargli giù
una cosa simile? Quell’uomo era terrificante, semplicemente
terrificante.
Terrificante, come non fosse cambiato affatto, rimanendo lo stesso
ragazzino di
un tempo. Terrificante il modo in cui era stato capace di vedere e
riconoscere
il vecchio Miles, una parte che lui stesso credeva di aver seppellito
chissà
dove, chissà quanti anni fa. Terrificante era stato il
potere dei suoi occhi,
penetranti quanto i suoi capelli, con i quali lo aveva messo a nudo
ancora prima
che potesse dire o fare alcunché.
Terrificante… ma anche, e
soprattutto, irritante. E la cosa
che
lo irritava di più era un sentimento che non aveva motivo di
esistere ancora
dentro di lui, e che nonostante ciò continuava a farsi
strada come un tarlo,
rosicchiandogli la coscienza nei momenti meno consoni della giornata.
Quel
mattino aveva persino lasciato bruciare le sue due fette di pane nel
tostapane,
dicendo così addio alla sua – magra –
colazione. Perché? Perché era stato
improvvisamente assalito da qualcosa che assomigliava in maniera
incredibilmente marcata (e altresì fuorviante) a un senso di
colpa. Il che era
quanto di più ridicolo si potesse concepire, persino
più ridicolo delle lacrime
che il detective Gumshoe che gli aveva praticamente pianto addosso il
giorno in
cui era stato prosciolto da ogni accusa, lì in tribunale.
E non si contavano tutti i
fogli misteriosamente scomparsi dalla sua scrivania. Gli ci era voluto
tutto il
pomeriggio per ammettere che era stato lui
stesso a smarrirli in giro per casa, e diverse ore per
ritrovarne circa la
metà. Il resto – pratiche importantissime e della
massima urgenza, ovviamente –
era ancora dato per disperso. Miles non sapeva se temere per le
pratiche, per
la sua vita o per la sua fedina penale, visto che la tentazione di
strozzare
Phoenix diveniva sempre più forte ogni minuto che passava.
Probabilmente per
tutte e tre, visto che c’era fra esse una sorta di
connessione inquietante, che
formava attorno a lui un altrettanto inquietante triangolo che gli
faceva quasi
venire la pelle d’oca.
Miles sospirò forte, la
disperazione che si faceva largo dentro di lui e la sensazione di
essere in
debito con Wright che si amplificava come un’eco,
assordandolo. Alzò la testa
di scatto, dimenticando di trovarsi sotto la sua scrivania, e sbattendo
di
conseguenza contro essa. Seguì a tal prodezza un ululato di
dolore, sommesso
quanto bastava per non essere udito dai vicini, o almeno
così sperò. Non solo
non aveva trovato neanche lì i suoi stramaledetti fogli, ma
aveva pure sbattuto
la testa! E di chi era colpa? Di chi?
“Wright, io, davvero, non
ti sopporto…” sibilò Miles camminando
carponi finché non poté nuovamente
issarsi in piedi, dolorante. Si voltò verso il grande
orologio da parete della
stanza e vide l’ora: le sette e ventiquattro minuti. Il sole
stava tramontando,
ma vi era ancora un po’ di luce per le strade.
“Io l’ho ringraziato”
mormorò fra sé mentre si massaggiava la nuca
“gli ho detto ‘grazie’, che altro
avrei dovuto fare? Abbracciarlo? Baciarlo? Inchinarmi a lui? Ma per
favore!”
esclamò, inorridendo al sol pensiero. Era ovvio che in
nessun mondo parallelo
avrebbe mai fatto nessuna delle tre cose, quindi non era questo il
punto.
Certo, vista da questa prospettiva, la questione appariva semplice:
aveva detto
‘grazie’, e non poteva aggiungere alcun gesto
d’affetto a quella parola. E
allora, dove stava il problema, esattamente? Perché sentiva
di non aver fatto
qualcosa che poteva essere alla sua portata? Era questo il motivo per
cui si
sentiva tormentato da quegli spiacevolissimi e totalmente fuori luogo
sensi di
colpa?
Miles non era un uomo che
voleva debiti, con nessuno. Almeno in questo lui e Phoenix erano sempre
stati
molto simili. Aveva detto di aver pareggiato i conti per
l’aiuto che lui gli
aveva fornito contro Dee Vasquez, nel famoso processo del
‘Samurai d’Acciaio’,
quindi per Phoenix la faccenda era risolta. Ma Miles sentiva di aver
pareggiato
proprio il resto di niente. Dopotutto, che cosa aveva fatto?
Semplicemente, aveva
contribuito a far giustizia. Era qualcosa per la quale Wright avrebbe
dovuto
sentirsi in debito? Be’, certo, fino a un certo punto poteva
anche starci – era
ancora un incapace, dopotutto – ma lì era stato
diverso. Miles si era
praticamente giocato la sua vita, in quell’aula di tribunale.
Non si trattava
solo di una mera vincita, né di aver fatto giustizia
consegnando alle autorità
un essere spregevole come Von Karma. Phoenix, sì…
gli aveva salvato la vita. Lo
aveva strappato a quell’inferno di menzogne che
quell’uomo gli aveva tessuto
intorno, come una rete. E non solo quelle nuove, ma persino quelle di
quindici
anni fa. Menzogne che tutti avevano dimenticato, tutti…
tranne Miles. Se non
altro, Phoenix Wright si era dimostrato parecchio abile
nell’impicciarsi degli
affari altrui, anche di quelli molto vecchi. Era un merito? A pelle
avrebbe
detto di no, ma il suo giudizio era parecchio combattuto. Gratitudine
da un
fronte, orgoglio da un altro fronte. Doveva liberarsi alla svelta di
uno dei
due fronti, o avrebbe continuato a bruciare i toast la mattina e a
sparpagliare
pratiche random in giro per il suo appartamento. E siccome
l’orgoglio era una
sua specialissima prerogativa a cui rinunciare sarebbe stato
impossibile,
mentre la gratitudine era un fardello supplementare di cui si sarebbe
dovuto
sbarazzare al più presto, non senza una certa
difficoltà, veniva da sé che
l’unica via da battere era quella che prevedeva, per
così dire… una dose
supplementare di ringraziamenti.
“Wright la pagherà per
questo” sentenziò crudo Miles, serrando un pugno
attorno all’aria “oh, se la
pagherà”.
Erano… le sette e
trentotto minuti. Poteva ancora fare una capatina a quel suo ridicolo
studio;
prima si liberava di quei sentimenti invadenti, prima sarebbe potuto
ritornare
alla sua solita vita.
***
Miles
Edgeworth non aveva
la minima idea di dove abitasse Phoenix Wright. Del resto,
perché avrebbe
dovuto averla? Cosa importava, a lui, dell’ubicazione di casa
sua? Proprio
niente, per l’appunto. Quindi Wright avrebbe fatto molto
meglio a farsi trovare
nel suo studio, anche se l’ora era piuttosto tarda. Non aveva
voglia di tornare
un altro giorno, semmai doveva essere lui,
disimpegnato com’era, a venirlo a trovare nel suo ufficio,
non viceversa. Era lui quello che
aveva un sacco di tempo
libero per bighellonare in giro, lui e lui soltanto. Ma lui
non soffriva di problemi di coscienza, quindi
perché avrebbe
dovuto farlo? Era Miles quello che li aveva, non lui. Un altro punto a
sfavore
di quell’imbecille.
Senza rendersene conto si
ritrovò ben presto di fronte allo studio legale
‘Wright & Co.’ e, a quel
punto, uno strano sorriso tagliente comparve sulla sua bocca, a
metà, forse,
fra il sarcastico e il soddisfatto. Un’altra
particolarità di quel Wright era
infatti quella di far nascere in lui delle sensazioni…
particolari, se così poteva
definirle. Piacevoli, in un certo senso. Soddisfacenti. Sì,
dopotutto Miles si
divertiva molto di più in tribunale quando a fronteggiarlo
c’era quella testa
di porcospino, questo doveva riconoscerlo. Ma non
gliel’avrebbe mai detto,
anche perché non era sicuro che Wright l’avrebbe
considerato un complimento.
Alzò gli occhi, e con
sollievo vide che alcune finestre erano accese. Alcune, certo, ma quale
era la
sua? E soprattutto, era davvero sicuro che si trattasse del suo
ufficio? Era la
prima volta che ci veniva. Non rimaneva che una cosa da fare…
“Secondo piano, terzo
piano, quinto piano, settimo piano…” Ok, aveva
quattro possibilità: se
l’ufficio di Wright non si trovava a nessuno di questi piani
illuminati, allora
lui non c’era. Semplice e lineare come ragionamento, forse
anche troppo. Ma
Miles non indugiò oltre in quei pensieri e si
incamminò a passo spedito verso
il portone. Fu quando vi arrivò davanti che notò,
alla sua destra, la lista con
i nomi dei codomini, tra i quali ovviamente campeggiava ben visibile il
nome
dello studio legale di Wright.
“… Giusto, esiste il
citofono” borbottò Miles, ma quando il suo dito fu
in procinto di premere il
pulsante, qualcosa lo bloccò. Fu come una piccola scossa
che, partendo dai
piedi, si era appena ripercossa su tutto il suo corpo. In principio ne
rimase
semplicemente stordito, limitandosi a barcollare un po’ come
se d’un tratto
avesse perso l’equilibrio. Ma poi si rese conto che la scossa
stava cominciando
a vibrare in una maniera molto strana, che non poteva essere ricondotta
alla
semplice vergogna. Era un movimento che non dipendeva assolutamente da
lui.
Miles sbiancò di colpo e fece un passo indietro,
terrorizzato. Perse del tutto
l’equilibrio e cadde per terra, e a quel punto la
sentì chiaramente: quella era
una scossa di terremoto. L’ultimo pensiero lucido che fece,
prima di
abbandonarsi al panico, fu che la colpa fosse proprio di Wright. Si
rannicchiò
su se stesso, chiudendo gli occhi con violenza e cercando di formare un
blocco
composito con tutto il corpo. Vulnerabile,
gridava ogni fibra e ogni terminazione nervosa dei suoi muscoli.
Sentì il
respiro che gli si mozzava nella gola, strozzando il cuore stesso che
per la
paura era salito fin lassù. Gli venne da vomitare, ma non lo
fece; strinse i
denti e, semplicemente, aspettò che finisse.
Era così stretto su se
stesso, così appallottolato, così teso, che
quando una mano gli si poggiò sulle
spalle neanche se ne accorse. Alle sue orecchie giunse vago un brusio
ovattato,
che non riusciva a prendere forma. Sembravano… parole? E
chiamavano il suo
nome?
“Edgeworth!” gridò di
colpo una voce, facendolo sussultare violentemente. Miles si
voltò di scatto,
con gli occhi sgranati dal terrore e il colorito di un morto, e vide a
poca
distanza da lui il viso turbato di una persona a lui fin troppo
familiare.
“Wright!” disse con una
vocetta stridula, probabilmente data dall’ansia ancora
repressa dentro di lui.
Senza pensarci gli afferrò il polso e glielo strinse
convulsamente,
biascicando: “T-terremoto, il terremoto…”
Wright lo guardò con la
fronte aggrottata, prima di lasciarsi andare a un sospiro.
“Edgeworth… il
terremoto è finito da un pezzo”.
E perché lui stava
tremando ancora? Riuscì a malapena a guardarsi intorno, ed
effettivamente vide
che la città sembrava immobile. Le persone stesse, quelle
poche che c’erano in
giro, adesso si erano scambiate occhiate incerte e lentamente avevano
ricominciato a camminare, guardinghe.
Pian piano, il cuore
ritornò al suo posto dentro la cassa toracica e i muscoli
tesi si rilassarono.
La mano che aveva stretto forte il polso di Phoenix Wright dapprima si
ritirò
lentamente e poi, quando Miles si accorse di quello che aveva fatto,
con la
velocità di un’anguilla. La sua faccia divenne di
un colorito molto simile a
quello di una pesca, mentre Wright continuava a guardarlo con
un’espressione
perplessa.
“Edgeworth, che ci fai tu…
qui?” gli chiese infine, mentre lui rifiutava il suo aiuto
per alzarsi.
“Wright, non farti strane
idee” esordì Miles con il suo tono più
distaccato, per quanto glielo consentisse
ciò che era appena avvenuto “non sono venuto qui per te”.
“Ah… capisco” disse lui,
con una voce da cui traspariva un vago senso di incertezza.
“Sono qui” continuò lui
“per me stesso”.
Ci fu un momento di
silenzio, nel quale Wright tacque, grattandosi la nuca.
“E… cosa dovresti fare per
te stesso nei paraggi del mio ufficio legale?”
Bene,
o la va o la spacca.
Miles Edgeworth, ancora un
po’ barcollante, tese una mano a Wright come se volesse
accoltellarlo allo
stomaco. E lui, dal canto suo, si scansò proprio come se
Edgeworth lo stesse
per accoltellare allo stomaco.
“Ehm, Edgeworth, cosa
stai…”
Gli tornarono in mente le
parole che il detective Gumshoe aveva pronunciato quel fatidico giorno
in
tribunale. Parole per modo di dire: semmai, quella specie di urlo
scimmiesco
che in teoria avrebbe dovuto esprimere gioia e letizia ma che a lui
aveva
trasmesso semplicemente un senso di primitività assoluta.
“Wright!” gridò,
allungandogli ostinato la mano “GRAZIE!” e fu come
se avesse appena vomitato
qualcosa di spiacevole.
Phoenix balzò
all’indietro. “Per cosa…?”
“Per… il tribunale!”
continuò Miles imperterrito, tendendo quella mano che ormai
assomigliava più a
una minaccia che a un gesto di pace.
“Ah, il tribunale… ma non
mi avevi già ringraziato?”
“Non è abbastanza! E
stringimi la mano, Wright. Non capisci l’enorme sforzo che
sto compiendo per
tendertela? Per quanto ancora intendi fuggirla?”
“Ah, devo stringerla?
Pensavo che volessi farmi del male, Edgeworth”
commentò Wright perplesso “ehm,
va bene…” e gliela strinse, anche se non ne
sembrava molto convinto.
“Bene! Grazie!”
“P-prego!”
Il silenzio scese sui due
uomini. Miles stava ansimando, praticamente, e questo sembrava turbare
Wright,
che gli si appropinquò un po’ di più.
“Edgeworth, sei sicuro di star bene? Mi
sembri… agitato, ecco”.
“Come mai sei qui,
Wright?” gli chiese invece Miles, a bruciapelo “Che
strana coincidenza, che tu
sia sceso proprio quando sono arrivato io”.
“Perché ho sentito il
terremoto e ti ho visto dalla finestra mentre ti accartocciavi su te
stesso
come una pallina di carta, Edgeworth” rispose lui, inarcando
un sopracciglio
“sei davvero venuto qui solo per… stringermi la
mano?”
“Hai dimenticato il
‘grazie’, Wright” lo rimbeccò
severamente Miles, prima di voltarsi dall’altra
parte e infilare le mani nell’impermeabile che si era portato
addosso per una
ragione non ben definita, forse proprio per poter infilare le mani in
tasca. Il
detective Gumshoe gli stava trasmettendo delle pessime abitudini, per
colpa
delle sue visite continue.
“Te ne vai?”
“Non ho altro da dirti,
quindi… direi di sì”.
“Ah” non lo guardò in
faccia, ma gli parve di scorgere una nota di delusione nella sua voce
“capisco.
Allora… be’, come stai?”
“Ma se ti ho appena detto
che non altro da dirti!” sbottò Miles voltandosi
di scatto “Lo fai apposta?”
“Ma è normale che ti
chieda come stai dopo quello che è successo, no?!”
tentò di difendersi Phoenix,
arretrando.
“Bene! Sto bene, grazie!
Ora sto bene!”
“… Ora?”
Si era appena tradito,
ottimo! “L-lascia stare…! Ci si vede, Wright, in
tribunale. Preparati!” E
pronunciate queste parole, Miles se ne andò a passo spedito,
le mani serrate a
pugno dentro le tasche dell’impermeabile e la sensazione di
avere il volto il
fiamme per una serie di ragioni a cui non voleva dare né un
nome né una definizione.
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