Logan non può certo dirsi sorpreso del loro arrivo
Logan non può
certo dirsi sorpreso del loro arrivo. O incuriosito dalle intenzioni
che possono avere nei suoi confronti. Si è sempre fatto
vanto di saper annusare nell'aria le seccature con largo anticipo e
diamine se sentiva già la puzza ancor prima che
quei due mettessero piede nel bar.
Nemmeno dà loro
il tempo di parlare, quindi, che già li ha mandati a farsi
fottere. O fottersi vicendevolmente, se preferiscono. Pare di sì.
Non che lui stia ancora ascoltando quel che si dicono dei tizi di cui
giusto sa il nome, eh.
Manco li avesse
osservati nello specchio dietro al bancone, avendo la vaga sensazione
che lo sbarbatello dagli occhioni blu gli stesse scivolando dentro
senza nemmeno avergli offerto un paio di whisky prima... Manco avesse
notato il leggero sollievo del suo degno compare, l'inarcarsi delle
sue sopracciglia in un 'Oh, be'. Passiamo al prossimo.' quasi lui non
contasse nulla.
Assolutamente non ha
sentito il beffardo “Okay. Nella mia camera o nella tua?”
sussurrato da quello con la giacca di pelle ed la polo sbottonata su
una serie di cicatrici che potrebbero, forse, raccontare una storia
alquanto interessante se a Logan gliene fregasse qualcosa. (e no, non
ha davvero sbirciato, ha solo una grande immaginazione). Neppure
ha udito l'altrettanto sardonica e telegrafica risposta dell'altro
“Nella mia.” Soprattutto non ha mai aggiunto,
voltandosi appena ma fingendo di star il cestino delle arachidi –
e com'è che non si trovavano mai, quando uno ne ha bisogno? -
un asciutto e serissimo “Posso guardare?”
No, si è
semplicemente assicurato che avessero sloggiato sul serio. Poi ha
alzato il dito per ordinare un altro bicchiere ed è finita lì.
Logan, perciò,
può dirsi piuttosto sorpreso di trovarsi nei corridoi di un
hotel fatiscente a cercare la porta di una camera che apparentemente
non esiste. D'altronde, quando uno va a dar retta alle vocine nella
testa dopo essersi scolato ettolitri d'alcool un po' se la cerca la
fregatura. Che le vocine abbiano un suadente accento britannico non è
una giustificazione.
'James?'
Parla del diavolo ed ecco che spuntano le corna e se finora non aveva
una buona ragione per esser lì, spaccare la faccia al telepate
per aver osato scavare tanto a fondo lo è appena
diventata. Quel nome non dev'essere pronunciato con tanta
leggerezza. Anzi, dovrebbe essere proprio taciuto. Dimenticato. James
Howlett non esiste più. Non è mai esistito. 'Logan,
quindi? Dicevamo? Ah, camera 528. Sì, il numero è
esatto. Prova a passare nuovo davanti alla 526. Dovresti trovarla
ora. Scusami, Erik non desiderava essere disturbato quindi mi son
trovato costretto...' “Senti,
Chucky, di certi dettagli ne faccio volentieri a meno.”
Borbotta, incurante delle occhiate che riceve dai presenti. “...
'sta cazzo di camera 528 non l'ho vista e non son qui per farmi
prendere per il culo.” 'Strano,
avrei detto il contrario. Ritenta e sarai più fortunato.'
Mormora, ridendo. Se ce l'avesse di fronte già l'avrebbe
strozzato, il che è soltanto un incentivo a trovarlo più
in fretta.
Effettivamente, ora, al
posto del muro di poco fa c'è davvero la porta della 528.
L'ennesimo trucco
di un mutante con
troppo potere e poco cervello che non lo lascia mica sbalordito. No,
affatto. Ha aperto le labbra per sbadigliare, ma nel frattempo ha
avuto un crampo alla mandibola. Ecco. Ci starebbe bene un bel sigaro,
adesso. La porta si apre, rivelando una stanza piuttosto squallida
ed anonima. Non fosse per una mappa piena di foto e nomi, tra cui il
suo. Quasi vorrebbe far qualche domanda al riguardo, piuttosto
incuriosito dalle intenzioni che 'sti due possono avere nei suoi
confronti. Charles, però, interrompe immediatamente suoi
pensieri.
“Gradisci
un bel toscano, Logan?” No, gradirebbe lui steso sul
marciapiede sottostante. O sbattuto contro il muro. Può sempre
rimediare. Il professore fa in tempo a spostarsi per lasciarlo
entrare che, in un lampo, viene afferrato per il colletto della
camicia e sollevato a ridosso della prima parete disponibile. Una
mano si stringe intorno al collo, strozzandolo. “Devi smetterla
di entrarmi nella testa, bastardo.” Ringhia rabbioso,
sollevando un pugno e preparandosi a colpirlo dritto sul volto.
Ad un soffio da quel
naso che avrebbe così volentieri fatto a pezzi, tuttavia, il
suo braccio viene bloccato dalla stretta di Lensherr.
“Se
sei venuto per unirti a noi o anche solo per stare a guardare, bene.
Se no, quella è la porta.” Con un rapido movimento del
polso gli avvicina una lama alla gola. “Pensi di farmi
paura, forse?” Sarebbe facile liberarsi e scaraventarlo
dall'altro lato della stanza, eppure si limita ad usare un millesimo
della sua forza e l'atterra con una gomitata. Sa di averli seguiti
più che altro per noia, per rompere la monotonia delle sue
giornate. Anche se, certo, non lo ammetterebbe mai. Quindi perché
mettere subito fine ad una bella scazzottata? Preferisce
divertirsi un po' a spese di Erik, fargli credere di avere qualche
chance contro di lui prima di metterlo fuori gioco. Peccato non abbia
messo in conto che la caduta, inaspettatamente, non ha compromesso il
controllo che l'uomo ha sul coltello e che perciò lui lo possa
attaccare su più fronti. Logan è veloce ed agile quanto
basta per evitare le sue nocche, i suoi fendenti, mentre rotola sul
pavimento nel tentativo di sovrastarlo. Si strusciano l'uno contro
l'altro molto più di quanto non sia necessario, avvicinandosi
fino a quasi ad annusarsi... Mordendosi, graffiandosi... Per poi
continuare imperterriti la loro lotta.
Charles li osserva
affascinato, senza intervenire. Né fisicamente – ci
tiene alla sua incolumità, evidentemente – né
ricorrendo ai propri talenti naturali. A quanto pare il messaggio gli
è arrivato comunque, sebbene il suo naso sia ancora
intatto. Dovrebbe esserne soddisfatto, ma non lo è. Non del
tutto. Dovrebbe slacciare i pantaloni del suo avversario,
prenderlo per le palle fino a fargli dimenticare il proprio nome ma
indugia. Specie nell'attimo in cui nota che il loro unico spettatore
s'è già annoiato e sta tirando fuori un mazzo di carte
dal cassetto del comodino. “Logan, ti prego di perdonarmi.
Non sono mai entrato nella tua testa, ma avrei dovuto ignorare ciò
che la tua mente proiettava verso la mia invece di approfittarmene
così biecamente.” Benché la formulazione della
frase sia fosse delle migliori, il tono lo fa sembrare sinceramente
dispiaciuto. Potrebbe quasi credergli. Accettare le sue scuse.
“Erik,
ti ringrazio di avermi difeso. Avrei potuto fermarlo io stesso”
Aggiunge, portandosi due dita alla tempia per rendere l'idea “se
avessi voluto, ma non posso certo dare per scontato che tu intuisca
sempre i miei propositi.”
I due litiganti si bloccano.
Improvvisamente si sentono come i due contendenti alla mano della
gentil donzella che, dopo aver dato prova della loro maschia
prestanza, vengono vergognosamente smontati dall'indifferenza –
quando non dall'aperto disprezzo – di lei.
Il che è
assurdo, almeno per quanto riguarda Logan: lui se ne strabatte il
cazzo di Charles.
“Se
ne avete ancora per molto, comunque, vedrò d'intrattenermi con
un solitario.” S'appresta a liberare il suo letto dagli
scacchi, prima di venir prontamente fermato da Erik e dal suo tuffo
acrobatico sul materasso. Tuffo che Charles, personalmente, non ha
visto ma che dev'esserci senz'altro stato: non c'è altra
spiegazione sul come sia potuto essere di fronte a lui nel giro di
pochi secondi. Tuffo sicuramente aggraziato ed abilmente calcolato,
come ogni movimento di Erik d'altronde, giacché i pezzi sulla
scacchiera scivolano dalle loro posizioni senza però cadere
rovinosamente a terra. Non che gli sarebbe dispiaciuto vederlo
chinarsi a raccoglierli, in effetti. “Non pensarci neanche.
Ancora mi devi la rivincita, non dimenticartene.” Lo avverte,
sorridendo. “Credevo fossi tu ad essertene dimenticato,
visto che sembravi divertiti tanto con il nostro nuovo amico.”
Ribatte l'altro, ricambiando il sorriso. “Ehi, io non sono
il 'nuovo amico' di nessuno.” Borbotta Logan, accomodandosi sul
letto accanto al loro. “Quindi vedete di dirmi che cazzo
volete da me, che non ho in programma di farmi mandare a puttane
l'intera giornata per sentire le vostre quattro stronzate.”
“Nulla
che non si possa discutere durante una partita di scacchi.”
Risponde Charles, con estrema calma. “Sappiamo di cosa sei
capace, Logan. Sappiamo che puoi essere molto più di ciò
che sei ora, se soltanto lo volessi. Non migliore, per carità.
Lungi da me giudicarti, conoscendoci appena. Credo, però, che
sarebbe meraviglioso se mettessi il tuo talento al servizio di una
giusta causa...”
Senza distrarsi per un
attimo dalle proprie mosse, Charles gli svela il suo utopico disegno
di creare una scuola dove i mutanti imparare ad accettarsi, a far
tesoro della marcia in più che Madre Natura ha loro concesso e
a vivere in pacifica coesistenza con il resto del mondo.
Che per questo nobile
fine sia necessario che si nascondano è alquanto
contraddittorio, ma Logan evita di farglielo notare. Ha come
l'impressione che, ben presto, sarà la vita stessa a piegare
l'idealismo del Prof e a mostrargli chiaramente i limiti del suo
ragionamento.
Erik, invece, è
più realista. O cinico. Apprezza il progetto a lungo termine
di Charles, certo, ma crede che piuttosto dovrebbero dare ai mutanti
le armi e la conoscenza per difendersi da chi li opprime. E si sa:
qual miglior difesa dell'attacco?
Non fa segreto che, ad
ogni modo, per lui la priorità sia liberarsi del Dr. Schmidt
– Sebastian Shaw, lo corregge Charles, come se quel nome
dovesse significare qualcosa per Logan - e dalla minaccia che egli
costituisce. Certo, non si aspetta che debba fottergliene qualcosa
della sua vendetta personale ma gradirebbe il suo aiuto.
Sono visioni
contrastanti, che un giorno potrebbero dividerli, ma che per ora li
completano a vicenda. Sono i due lati della medaglia. I due pezzi di
un puzzle che s'incastrano a meraviglia l'uno contro l'altro e
chiunque s'accorgerebbe che nessun altra combinazione sarebbe
altrettanto perfetta.
Una combinazione in cui
lui, chiaramente, è di troppo.
L'intruso in quel gioco
di sguardi, di dita che accarezzano lascivamente cavalli ed alfieri e
di torri che spazzano via ogni pezzo che incontrino sul loro cammino.
Dire che Charles ha anche tentato di coinvolgerlo, lasciando aperto
uno spiraglio nella propria mente. Cosicché, se solo lo avesse
voluto, avrebbe potuto sbirciare e vedere ciò che stava
realmente accadendo. Mani che si aggrappano ai vestiti, cercando
di strapparli letteralmente via. Labbra che s'inseguono, trovandosi
in baci fugaci per poi perdersi a baciare ogni centimetro di pelle
scoperta. Denti che si conficcano, famelici, nella carne fino a
sentire il sapore metallico del sangue. Fino a lasciare il segno
tangibile del possesso di quel corpo. Sul collo. Sulle spalle,
buttando a terra camice e maglioni. Sui fianchi, mentre si liberano
dei pantaloni. Sulla coscia, facendo scivolare via boxer e slip
nell'attesa di una dimostrazione ben più concreta. A cui lui,
però, non assisterà.
Si allontana, chiudendo
la porta a quegli strascichi di piacere del telepate che minacciano
di mozzargli il fiato.
Torna ad osservare,
sbadigliando, un'interminabile partita di scacchi.
Sente salirgli un moto
di nausea, ora, per l'aver anche solo concepito dei pensieri tanto
contorti, melodrammatici e smielati.
Specie quando il
nocciolo della situazione si può esprimere in due parole: deve
sloggiare. Se non intende partecipare e nemmeno fare da spettatore,
be', allora... Meglio che finisca di fumare il suo sigaro e se ne
vada. Alla svelta.
Senza farsi disturbare
troppo dall'inconcludenza e dall'insensatezza di questa giornata. Non
è affar suo, in fondo.
Si rende conto di poter
tornare utile sia a Charles sia ad Erik. Sa che magari potrebbe dare
un senso non solo alla giornata ma alla sua stessa esistenza.
Renderla qualcosa di più che non il trascinarsi da un bar
all'altro. O che potrebbe evitare di finire per essere il soldato
ideale di qualche esercito, comprato dai soldi necessari per
accaparrarsi una riserva inesauribile d'alcool. Sa che potrebbe
trovare una famiglia, nei suoi futuri compagni. Ciò
nonostante, non può restare. Può giusto illuderli che
li seguirà ancora per qualche ora, ma sanno tutti e tre che
non accadrà.
Non qui. Non oggi.
Ci tiene troppo alla
sua pellaccia.
Un domani? Chissà,
per amore, potrebbe anche cambiare idea. Sì, come no.
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