la fine è solo l'inizio
La fine è solo l’inizio.
Di un’altra scocciatura.
Aveva lasciato il suo vecchio lavoro per riconquistare quella
tranquillità che gli era stata tolta con l’inganno. Voleva
una vita normale, calma, senza problemi. Aveva così scelto un
lavoro che non lo impegnava troppo e soprattutto non lo metteva in una
posizione di rilievo. Se l’era pianificata per bene, la sua vita.
E cosa si era ritrovato?
Un normale lavoro come fattorino, tranquillo e poco
impegnativo…se non si teneva conto del fatto che i suoi clienti
erano tutti degli svitati.
“Buongiorno, Yasu, Karakura Delivery.”
Il suo primo cliente era stato il vecchio Hideki, che vecchio non era,
avendo a malapena sessant’anni. Eppure tutti lo conoscevano come
il vecchio Hideki.
Perché era sempre stato lì, sulla sua cassa di legno
accanto al suo banco al mercato. I più anziani si ricordavano
del bambino seduto sulla cassa, quello che si dimenava e urlava per
attirare clienti. I più giovani gli stavano alla larga,
ricordandosi delle occhiate torve che avevano ricevuto quando si erano
avvicinati troppo.
Il vecchio Hideki era sempre stato lì, da quando era solo il
figlio di un pescivendolo. Negli anni, a detta di tutti, non si era mai
mosso dalla sua cassa. Aveva fatto una sola eccezione, vent’anni
prima, quando il sindaco aveva deciso di spostare il mercato in
periferia per costruire un centro commerciale in pieno centro. Quella
volta il vecchio Hideki aveva sorpreso tutti, lasciando la sua cassa e
posizionandosi davanti all’entrata del mercato. Per quattro
giorni era rimasto lì e per tre giorni a chiunque gli domandasse
cosa stesse facendo lì impalato aveva risposto: - Questo
è il mio mercato. Non lo avranno. -
Il terzo giorno, davanti all’entrata del mercato vi erano tutti coloro che vi lavoravano.
Il quarto giorno anche i clienti si erano uniti alla muta protesta.
Il sindaco aveva rinunciato al suo progetto e il vecchio Hideki era
divenuto il padrone del mercato. O aveva solo confermato il suo titolo.
Probabilmente il vecchio Hideki non era neanche il vero padrone del mercato, ma per tutti era così.
Era rispettato, o si faceva rispettare, ed era conscio della sua
posizione e della sua reputazione, o era solo una convinzione nata
dalla pura arroganza.
Lui era il vecchio Hideki, il padrone del mercato. C’era sempre
stato, seduto sulla sua cassa, e sempre ci sarebbe stato, o almeno
così pensavano tutti.
Eppure, ogni tanto, si sentiva il vecchio Hideki borbottare.
-Non ci sono sempre stato né ci sarò sempre. -
La sua seconda cliente era stata la signorina Yuu, una rispettabile
donna sulla trentina. Piuttosto riservata, viveva in un appartamento in
centro, dinanzi al parco. Apparentemente era una donna come
un’altra, forse un po’ fredda e distaccata. Yasu doveva
ammettere di averla trovata persino attraente i primi tempi, ma la sua
voglia al pensiero di iniziare una relazione rasentava lo zero.
Aveva così rinunciato al corteggiamento, ma si era riservato il piacere di osservarla con più attenzione.
L’avrebbe definita una persona ammirevole e gentile quanto
riservata e taciturna. A vedere il suo appartamento, spazioso e ben
arredato, si poteva azzardare che avesse anche un buon lavoro.
All’inizio per Yasu era piacevole andare da lei per una consegna,
soprattutto se il cliente precedente era stato il vecchio Hideki.
Poi un giorno l’aveva notato.
E aveva avuto bisogno di altre tre o quattro visite per confermare i suoi sospetti.
Era successo un giorno di primavera, quelle tipiche giornate calde e
serene in cui gli uffici si svuotano e i parchi si riempiono. Davanti
alla casa della signorina Yuu, nello specifico, il parco era pieno
di bambini. Yasu lo sapeva bene, ne aveva dovuti scansare un bel
po’ per poter raggiungere l’entrata del condominio, per
fermarvisi davanti e sistemare il pacco tra le sue braccia. In quel
momento si era guardato attorno e l’aveva vista. La signorina
Yuu, nel suo appartamento, appoggiata alla finestra, lo sguardo fisso
sul parco.
Inizialmente Yasu non ci aveva fatto caso, ma, uscendo
dall’appartamento e guardando in alto verso la sua finestra,
l’aveva vista nuovamente appoggiata al vetro intenta ad osservare
il parco.
E così fu anche i giorni seguenti, fino alla fine dell’estate.
La signorina Yuu era sempre appoggiata alla finestra, lo sguardo rivolto in basso verso il parco pieno di bambini.
Yasu aveva ipotizzato fosse malata e per questo impossibilitata ad
uscire, nonostante lo desiderasse, ma col tempo in lui era sorto il
sospetto che la signorina Yuu fosse sana e stesse solamente osservando
i bambini.
I suoi sospetti erano stati confermati dall’atteggiamento della
donna: ogni qualvolta sentiva lo strillo di un bambino si girava di
scatto verso la finestra e per qualche secondo rimaneva a fissarla.
Yasu aspettava davanti a lei, col pacco in mano e lo sguardo fisso
sulle mani della donna che stringevano con forza il tessuto della sua
maglia.
La signorina Yuu era ossessionata dai bambini, questo era il verdetto di Yasu.
Una donna rispettabile e distaccata con il pallino per i marmocchietti.
La sua “ossessione” lo aveva inquietato per qualche anno,
visto che la signorina Yuu pareva essere solita fissare i bambini
dall’alto del suo appartamento. Forse aveva addirittura scelto la
propria abitazione in modo da poterli osservare meglio.
Col tempo, però, Yasu si era accorto che quello sguardo freddo nascondeva qualcosa.
Tristezza.
I successivi clienti erano una coppia. Se la signorina Yuu sembrava
avere qualche strana fissazione, questi erano un vero e proprio caso
umano.
Akio e Haruka, entrambi impiegati, vivevano in un modesto appartamento
vicino al centro e i loro vicini di casa non erano mai gli stessi per
più di un anno. Tutti si trasferivano a causa delle urla
provenienti dal numero 64.
Yasu, quando i colleghi glielo avevano raccontato, aveva pensato ad una
delle solite coppie problematiche formate da due giovani ancora troppo
infantili per tenere su una relazione senza lanciarsi piatti o
bicchieri.
Alla sua prima consegna, però, si era dovuto ricredere.
I vicini non si erano trasferiti a causa dei continui urli della
coppia, bensì per colpa delle sole grida del marito. E costui
non era manesco o sadico, semplicemente non sapeva tenere un tono di
voce normale.
Lo sapeva bene Yasu, visto che alla prima consegna si era sentito
urlare in faccia un –che cazzo vuoi?- da un omaccione ancora in
pigiama.
E quando se ne stava andando, felice di aver terminato la consegna,
aveva sentito lo stesso uomo urlare che non capiva come mai quei
“rompicoglioni” del servizio consegne scegliessero sempre
il momento adatto per “rompere il cazzo”.
Un ragazzo d’oro, aveva pensato Yasu, per poi chiedersi quale
santa donna era riuscita a sposarlo e a non lasciarlo dopo
un’ora. Probabilmente era sorda.
La sua supposizione, tuttavia, era errata.
Alla sua seconda consegna venne accolto da un –Desidera?-
pronunciato da una donna minuta evidentemente incinta. Ed evidentemente
apatica.
Dalla stanza accanto era giunto un –chi cazzo è?- molto
simile ad un ringhio. La donna, Haruka, non aveva neanche risposto, si
era limitata a volgere lo sguardo per pochi secondi verso il punto da
cui proveniva la voce.
Quella volta Yasu era riuscito a terminare la consegna senza farsi
sbattere la porta in faccia, ma allontanandosi sentì comunque
Akio urlare qualcosa riguardante “quei figli di troia dei
fattorini”.
Con le successive consegne, che Yasu effettuava sempre con ben poca
gioia, la situazione divenne un po’ più chiara, grazie
anche all’aiuto molto particolare di Akio che, essendo solito
sfogarsi urlando quanto i suoi capi fossero dei “pezzi di merda
stratosferici”, comunicava anche a mezzo quartiere buona parte
della sua vita.
A quanto Yasu aveva sentito Akio era un modesto impiegato in una di
quelle grandi compagnie e si trovava proprio a metà della
gerarchia. O meglio “in una posizione di merda”,
soprattutto se vuoi diventare dirigente o addirittura presidente. Non
era certo se gli piacesse sognare molto in grande o avesse solo
desiderio di potere. Con il suo carattere, secondo Yasu, non sarebbe
certo andato molto lontano.
Haruka, invece, era un’enigma. Taciturna e riservata, il suo viso
era una maschera di cera: non trapelava nessuna emozione. E, per la
felicità del fattorino, era molto più educata di Akio.
Era un’impiegata anche lei e come il marito lavorava in una
grande compagnia. A differenza di Akio, però, pareva essere
molto più brava ed avere una posizione più alta. Yasu lo
aveva dedotto dopo aver sentito il marito urlare qualcosa riguardo il
dare una lezione a “quegli stronzetti dei piani alti” ed
ottenere un posto più in alto rispetto alla moglie,
“perché io devo essere al comando”.
Ciò che stupiva Yasu era come quei due erano finiti insieme.
A volte litigavano, o meglio, il marito urlava e la moglie lo ignorava, innervosendolo ancora di più.
Altre volte, invece, si guardavano e basta, come se si stessero studiando.
Vi erano anche rare volte in cui il marito ronzava continuamente
attorno alla moglie per assicurarsi che stesse bene e non si
affaticasse, arrivando persino a prendere lui i pacchi che il fattorino
portava.
Uno impulsivo e facilmente irritabile, l’altra distaccata e perfino apatica. Gli opposti si attraggono veramente.
Ad osservarli bene era come se fossero l’uno irrimediabilmente
incuriosito dall’altra e viceversa; lui aveva quello che lei non
aveva e lei aveva quello che lui non aveva. Uno strano tipo di
relazione, non smetteva mai di constatare Yasu.
E poi c’era il terzo inquilino dell’appartamento 64. Per
ora era una pancia molto gonfia il cui nome era scritto su un post-it
attaccato sul frigorifero.
Kuchirou o Kiyoko.
Qualsiasi nome e sesso avesse avuto, quel bambino era già
compatito fin da prima della sua nascita dal fattorino della Karakura
Delivery.
Il quinto cliente era l’avvocato Hayato, uno squalo decisamente
più sgradevole di quel delizioso marito quale era Akio.
Il signor Hayato aveva quarant’anni, era un avvocato famoso e
viveva in pieno centro in uno di quegli appartamenti lussuosi.
La prima volta Yasu non era rimasto stupito dal lusso, né dal
completo elegante che l’avvocato pareva essere solito usare come
abbigliamento da casa, bensì era rimasto basito nel vedere un
sorriso storto delinearsi sul volto dell’uomo quando si era
presentato. In quel momento il fattorino si era sentito la
quasi-vittima di un serial killer nascosto dietro l’elegante e
lussuosa facciata di avvocato, proprio come in un telefilm.
A quanto pareva, però, quel sorriso storto ed inquietante era un
modo per essere accogliente. Probabilmente era solo frutto di anni
passati a fingere davanti ad una scettica giuria ed ad un giudice
ancora meno convinto. E doveva saper fingere bene, il signor Hayato,
vista la sua posizione.
Era un avvocato in vista a Karakura, uno di quei volti ricorrenti sulle prime pagine dei giornali.
Sotto la sua foto, che solitamente lo ritraeva accanto a qualche
cliente benestante, il suo nome veniva sostituito con Hayato il
“guerriero senza pietà”, il solito soprannome idiota
che i giornalisti si inventano per mitizzare un po’ il
protagonista del loro articolo.
Per quanto il suo soprannome fosse stupido, però, era
perfettamente adatto. Il signor Hayato era sempre in una continua lotta
per la vittoria e non si fermava davanti a nulla. Il suo cliente poteva
anche essere un assassino: lui lo avrebbe difeso fino alla fine, non
perché aveva a cuore la sua situazione, ma solo perché
voleva vincere.
Ogni volta che Yasu effettuava una consegna, il signor Hayato era al
telefono o aveva in mano un blocco di fascicoli. Non smetteva mai di
lavorare, o “lottare”, neanche quando era nella sua
lussuosa casa.
A volte, mentre aspettava che la chiamata terminasse, Yasu lo guardava. Lo fissava a lungo.
E quel guerriero senza pietà diventava uno schiavo disperato.
I suoi successivi clienti erano la signorina Noriko e la piccola Hitomi.
In realtà la cliente era solamente la signorina Noriko e Hitomi
non faceva neanche parte della sua famiglia. Yasu, però,
l’aveva etichettata come “arredo domestico”: ad ogni
consegna la vedeva sempre nel giardino della donna, non vi era stato
giorno in cui non aveva visto una gracile bambina aggirarsi per il
cortile.
La signorina Noriko la lasciava fare, troppo impegnata a pensare al
lavoro per occuparsi anche di un marmocchio nel giardino. La donna era
infatti l’ultima erede della locale famiglia di yakuza,
nonché l’unica ancora in vita.
Senza guardie del corpo né scagnozzi, la signorina Noriko viveva
nella periferia della città in una tradizionale villa
giapponese, quelle dotate di una veranda e di un delizioso giardino.
L’abitazione era piuttosto grande, enorme se si teneva conto del
fatto che a viverci vi erano solo la donna e la sua cameriera.
Quest’ultima aveva aperto la porta a Yasu la prima volta che
questi si era recato alla villa per una consegna. Lo aveva scortato
nella villa fino alla stanza in cui si trovava la signorina Noriko, una
stanza spoglia con solo un tavolo al centro e un altarino contro una
parete. La donna era seduta al tavolo e aveva lo sguardo fisso davanti
a sé, sulla foto del padre posta sull’altarino.
Dietro di lei la porta che dava sulla veranda era aperta: nel cortile
polveroso c’era Hitomi, accucciata per terra, intenta ad
osservare una lucertola morta.
Questo scenario si era poi ripetuto durante le successive consegne: la
signorina Noriko lo attendeva nella stanza vuota, seduta dinanzi al
tavolo ricoperto di fogli e fascicoli, lo sguardo fisso sulla foto.
Dietro di lei Hitomi gironzolava per il giardino, spesso soffermandosi
per molto tempo ad osservare animali o piante morti.
Se il signor Hayato inquietava Yasu con il suo sorriso, queste lo inquietavano anche solo rimanendo immobili.
La signorina Noriko pareva avere una forte devozione nei confronti del
defunto padre, colui che l’aveva istruita affinché
mandasse avanti il casato. Se non fosse stato per lui la donna
probabilmente non si sarebbe ritrovata prigioniera di un mondo
difficile e pericoloso, reso ancora più insostenibile dalla
totale assenza di collaboratori, sottoposti e parenti. La donna pareva
non aver neanche avuto il tempo di trovarsi un marito da tanto il
lavoro la teneva occupata. Non sembrava neanche aver notato un intruso
nel suo giardino.
La piccola Hitomi era la figlia dei vicini di casa e Yasu ne aveva
scoperto il nome sentendo la madre chiamarla da oltre il muro di cinta.
La sua abitazione non doveva essere fornita di giardino, visto che la
bambina pareva essersi interessata al cortile della villa solo
perché le permetteva di poter osservare gli animali morti da
vicino, a volte stuzzicarli anche con un bastoncino. Yasu rimaneva ogni
volta inquietato dall’atteggiamento distaccato e dallo sguardo
rapito della bambina dinanzi ad un animale morto. All’inizio
l’aveva vista osservarli, ma col tempo aveva notato che ad Hitomi
non bastava guardarli, doveva anche giocarci. Una strana passione per
una bambina.
Una volta, vedendola giocare con una lucertola morta, Yasu aveva fatto
notare alla signorina Noriko che probabilmente era poco igienico e
pericoloso. La donna l’aveva bellamente ignorato.
Alla consegna successiva, furtivamente, il fattorino si era addentrato
nel giardino mentre la padrona di casa era intenta a firmare un plico
di documenti allegato al pacco. Yasu era riuscito ad avvicinarsi ad
Hitomi, ma, per quanto la chiamasse, lei non si era mai voltata.
In qualche strano modo erano simili quelle due: se non si parlava di
lavoro o di animali morti, non ti avrebbero ascoltato. Per loro
esisteva solo quello.
Durante le recenti consegne, però, Yasu aveva notato che Hitomi
non era sempre in giardino e la signorina Noriko, invece di fissare la
foto del padre, osservava il giardino oltre la veranda.
Il casato rischiava la bancarotta e una visita in tribunale, gli avevano detto i colleghi.
Fu durante le ultime consegne che Yasu sentì la signorina Noriko
parlare per la prima volta. Aveva terminato la consegna, si era chiuso
la porta alle spalle lasciando la donna sola con la cameriera ed era
pronto ad avviarsi verso la porta quando aveva udito una voce flebile.
-Perché vogliono condannare anni di lavoro e di fatiche? –
L’ottavo cliente era Makoto.
Non si sapeva se era maschio o femmina, né quanti anni aveva.
Non usciva di casa da una decina d’anni, a quanto pareva, e
viveva in un appartamento minuscolo nella periferia della città.
Yasu non aveva mai visto Makoto. I pacchi che consegnava li infilava in
un’apertura quadrata ai piedi della porta, una specie di
passaggio per cani. Se c’erano fogli da firmare li faceva
scivolare sotto la porta per poi vederli rispuntare firmati qualche
minuto dopo. La signorina Noriko e Hitomi lo spaventavano, ma Makoto
gli dava i brividi.
Non sapeva chi era né com’era. Aveva solo notato,
guardando il foglio delle consegne, che Makoto ordinava solo oggetti
elettronici, per la maggior parte videogiochi, anche erotici.
Yasu lo aveva etichettato come hikikomori.
Doveva essere uno di quei giovani che si chiudevano letteralmente in
casa e non uscivano più, immergendosi nel mondo virtuale,
decisamente più appagante di quello reale, ai loro occhi.
Magari non si chiamava neanche Makoto.
Magari era solo un nome fittizio come uno dei tanti nickname che doveva avere.
Tante identità quante le partite di un videogioco. Bastava cambiare nome.
Al fattorino quelle cose non piacevano, a furia di cambiare identità si perdeva la propria.
E forse si diventava Makoto, il buio dentro un appartamento.
Il nono cliente era Kenta.
Un giovane pugile.
Un giovane scemo gorilla.
Alla sua prima consegna, avvenuta in una palestra del centro, Yasu
aveva rischiato di ritrovarsi la sua mascella in frantumi solo
perché Kenta “era così preso dall’allenamento
che si era allargato un po’ troppo”, come aveva detto il
suo allenatore.
Per Yasu la loro concezione di “allargarsi troppo” doveva
essere parecchio diversa, ma non voleva rischiare oltre così si
era accontentato delle scuse da parte del gorilla, che naturalmente
gliele aveva fatte solo sotto comando dell’allenatore.
Quest’ultimo era quello che prendeva i pacchi, Kenta era sempre impegnato ad allenarsi.
Lottava sempre: da solo, contro qualcuno o contro un sacco. Yasu non
aveva mai recapitato un pacco a casa sua, era sempre andato alla sua
palestra. Probabilmente non aveva neanche una casa Kenta, né
sapeva leggere e scrivere, aveva pensato un po’ malignamente il
fattorino.
Non era un mistero come Makoto.
Non aveva una psicologia complessa, né una personalità
particolare: sembrava un grosso gorilla in gabbia. L’allenatore,
il suo padrone, gli dava da mangiare, probabilmente gli forniva anche
un alloggio e lo faceva “giocare” quanto voleva.
Yasu lo vedeva come un animale, senza etica né controllo.
Lottava e basta, per divertirsi, per migliorarsi, per fare felice il
suo allenatore anche.
Il fattorino li vedeva passare, a volte, i suoi avversari sanguinanti o con qualche osso rotto.
Poi guardava lui, un bestione che saltellava felice sulla pedana, pronto a combattere di nuovo.
Il suo decimo e ultimo cliente, nuovo di zecca.
Clinica Kurosaki.
Un luogo famoso in città, anche piuttosto apprezzato.
Pensando ai suoi clienti, Yasu aveva sorriso, credendo di aver finalmente trovato un cliente normale.
Naturalmente si era dovuto ricredere.
Il problema non era stato il ragazzino dai capelli arancioni che gli
aveva aperto la porta, né il fatto che dietro di lui vi era una
bambina dai capelli neri aggrappata alla sua maglia.
Il problema non era neanche il fatto che i genitori erano impegnati in
chissà quale faccenda e lo stavano facendo aspettare.
Ciò che lo turbava era qualcos’altro.
Fin da quando era entrato si era sentito osservato. Poi l’aveva
visto: in fondo alla stanza, in un angolo, seduto su una poltrona vi
era un anziano signore, probabilmente il nonno. Questi l’aveva
fissato sin dal primo momento in cui Yasu era entrato e continuava
imperterrito a scrutarlo con espressione torva anche dopo che erano
passati dieci minuti.
A disagio, il fattorino lo aveva salutato, senza ottenere risposta.
Passati altri cinque interminabili minuti, finalmente un uomo era
arrivato e aveva permesso a Yasu di terminare il suo lavoro e fuggire
dallo sguardo inquisitore del vecchio.
Quando la porta della clinica Kurosaki si era chiusa dietro di lui, Yasu aveva tirato un sospiro di sollievo.
Se ne stava andando tranquillo quando un brivido gli aveva percorso la schiena.
Si era voltato e lo aveva visto.
Il vecchio signor Kurosaki era alla finestra e lo stava fissando.
Alla sera Yasu arrivava a casa e si buttava sul divano.
Ancora con la divisa da lavoro addosso rimaneva sdraiato a fissare il soffitto.
Un giorno era finito e un altro sarebbe arrivato.
I suoi casi umani lo attendevano, e parevano aumentare ogni volta che acquisiva un nuovo cliente.
Li temeva, li scrutava, li giudicava.
Eppure…
C’era qualcosa in loro, qualcosa di familiare.
Quando ci pensava si alzava e si sedeva sul divano per poi guardarsi attorno.
Ecco che nell’atrio appariva il vecchio Hideki, seduto su
una scatola accanto alla porta. In salotto, la signorina Yuu si
appoggiava alla finestra e guardava fuori, mentre accanto a lui sul
divano si sedeva il signor Hayato, cellulare e fascicoli in mano. In
cucina Akio ronzava attorno ad Haruka, stuzzicandola e osservandola. Al
tavolo, seduta malamente su una sedia, Hitomi si divertiva a
dissezionare la verdura a mani nude, osservata dalla signorina Noriko,
che occupava il posto vicino al suo. La porta dello sgabuzzino si
apriva di poco rivelando uno spicchio di buio e forse un pezzo di
Makoto. In bagno Kenta si bendava i polsi e le braccia, tutto contento
come un bambino.
Yasu li vedeva apparire, muoversi e scomparire.
E la solitudine, per qualche secondo, non era più un problema.
***
Mi sono divertita ad immaginare la vita degli Espada dopo la loro
morte. Ho segnalato l'OOC pensando che, per quanto fossero sempre le
stesse persone, gli Espada da umani avrebbero cambiato aspetti del loro
carattere, divenendo soprattutto meno crudeli e violenti. Ero incerta
se mettere l'avvertimento "what if?", ma pensando che alla fine non
andavo a modificare la storia originale ho preferito non metterlo. Ho
invece inserito la voce "nuovo personaggio" poiché, per quanto
si tratti degli Espada, sono nuove identità.
Qui potete trovare la lista da cui ho preso i nomi.
That's all.
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