Norway

di Silvar tales
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Norway




Abitavamo qui, in questo piccolo paese dimenticato da Dio e dal mondo.
In quest'angolo di pianeta spazzato da venti e da onde, in questa cittadina artica circondata dalla tundra.
Le strade erano piene di gente, e anche di bambini e vecchi imbacuccati in enormi giacconi a vento. Di bestie ne abbondava, in mare, per terra, in cielo.
Lepri dal manto bianco, mandrie di renne, merluzzi ammucchiati nelle reti dei pescatori.
Non era quello il punto.
Di apparenti forme vitali ce n'erano, anche troppe per i suoi gusti.
Era la forza, la serenità, la speranza che era assente nei loro occhi, nei loro gesti.
Compievano gli stessi rituali, senza carpirne più il significato.
Mangiavano, facevano figli, camminavano per stare al mondo.
La vita continuava in costante attesa di qualcosa che non poteva più arrivare.
La vita non aveva più niente in serbo per loro, niente di più del silenzio, dei prati variopinti d'estate, ricoperti di un deprimente monocolore d'inverno.
Niente più che sprazzi colorati, giochi di luce nel costante buio del cielo invernale, quasi come scherzassero sulle loro aspettative, quasi come ricordassero loro quanto bella fosse una luce più grande.
Una luce che tardava sempre troppo a ricomparire.
Tromsø era il nome di un qualunque raggruppamento di case norvegese, con l'unica differenza di essere situato a trecento chilometri a settentrione del circolo polare artico.
“Deidara, cosa fai ancora lì alla finestra?” 
Non lo sentivo, e lui non si preoccupava di alzare la voce.
Mi lasciavo desiderare, e non gli rispondevo.
Guardavo il cielo.
Cosa c'era di male a sperare che arrivasse finalmente l'alba?
L'uomo non riesce ad abituarsi alla notte eterna.
Le immagini, l'allegria delle case e la varietà dei vestiti cercavano di supplire il colore che mancava al grigio di quelle lunghe giornate.
Trasportai il mio corpo fino ai fornelli, ignorando il ragazzo adagiato comodamente sul divano che mi seguiva con lo sguardo.
Girai pigramente la manopola, innervosendomi all'istante per la mancata accensione della fiamma.
“Sasori, c'è un problema qui o cosa...?” 
Odiavo quando qualcuno mi osservava penare senza muovere un muscolo.
“Usa i fiammiferi”.
Lo sapeva che ero negato con i fiammiferi.
“Non puoi venire a darmi una mano?”
Domandai con i nervi a fior di pelle cercando di tenere ferma la voce, dopo averne consumati inutilmente cinque ed essermi scottato un dito.
Sasori si alzò dal divano sbuffando.
“Non sai neanche... o santo cielo...”
“Guarda che era per lei signorino che facevo il the. Sai benissimo che a me non piace neppure”.
In un mezzo secondo aveva già acceso il fornello, altrettanto velocemente se n'era tornato nella posizione di prima. Come poteva starsene lì seduto, a guardare la vita che gli passava davanti? “Chissà poi cosa stessi facendo di tanto importante...”
Dissi in un sussurro, mentre versavo l'acqua del rubinetto in un pentolino.
“Ah...” Gemetti quasi, quando uno spruzzo s'infranse sul bordo del contenitore, bagnandomi la mano che ritrassi d'istinto, rischiando di creare un altro disastro.
Quell'acqua era gelata da morire.
Gelata, fredda, sterile, come ogni cosa in quella maledetta buca.
“Cazzo...”
Girai velocemente la manopola nel verso opposto per aprire al massimo l'acqua calda, ma quella continuava imperterrita ad essere ghiaccio liquido.
Lanciai una muta maledizione, rifugiandomi nella nostra camera.
Nel nostro nido comune.
Mi accovacciai incrociando le braccia e premendole sulla pancia, evitando un conato di vomito.
Sforzandomi di non lasciare sfuggire neanche una lacrima, ingoiandole semmai per poi sputarle.
Non stavo bene e non lo sarei mai stato, finché i miei occhi non avrebbero ritrovato la luce rassicurante del sole. Finché il mio corpo intirizzito e sterile non si sarebbe liberato da quel perenne gelo.
Non riuscivo a scuoterlo via dalla superficie della pelle, si era attaccato e mi corrodeva dall'interno, diventava parte di me e mi consumava, e io non potevo fare nulla per contrastare la mia discesa.
Era la stessa sensazione di quando Sasori, appena arrivati qui, nel mio primo inverno a questa latitudine quando ancora avevo voglia di giocare, mi mise due sci ai piedi e mi fece provare il brivido di volare giù dalla collina.
Era lo stesso ora, stavo scivolando giù senza adrenalina.
Dov'era finita l'altra parte di me?
Era sprofondata nella sua terra, in una terra dove nemmeno i morti potevano scavare la loro fossa. Permafrost.
Nonostante tutto, mi trovavo qui di mia volontà. Per un mio stupido capriccio.
Per la mia stupida paura di vivere senza amore.


*




“...”
“Deidara, stai dormendo?”
Aprii gli occhi e vidi buio intorno a me.
Sentivo la sua presenza sotto le coperte, e uno strano senso di restrizione.
Respiravo a fatica, mi sentivo soffocare dal cuscino e dall'orlo del panno.
Lui era accanto a me, intrecciava i miei capelli con le sue dita.
Mi accarezzava la fronte come per saggiarne la temperatura.
“...stavo”.
Risposi sarcastico cercando di alzarmi a sedere, venendo puntualmente respinto da una sua mano.
“Hai freddo?”
Annuii, benché mi sentissi bollire incastrato sotto quella montagna a strati.
Mi abbracciò.
Illuso, come se quelle due braccia strette al mio torace potessero colmare il gelo che sentivo, come se quell'abbraccio potesse essere luminoso, almeno un po', come la luce che il sole emetteva.
Avevo un caldo tremendo, con il suo corpo seminudo attaccato alla pelle delle mie cosce.
Lui mi spogliava, mi metteva le mani in mezzo alle gambe.
La mia erezione tardava.
Ero privo di qualsiasi inibizione, di qualsiasi voglia erotica.
Non capiva di come quel groviglio di coperte e di corpi sudati non potesse riscaldarmi.
Sentivo brividi dentro di me, sotto la superficie cutanea.
Quasi non sopportavo la sua vicinanza, perché sapevo che dentro anche lui era brinato e vuoto, e i suoi occhi non trovavano più la luce per brillare.
Solo quella di una scarna lampadina.
Mi mossi, cominciai a ritmare il movimento del bacino, finché non sentii il mio corpo volerla fare finita con quella danza.
Solo poche gocce, e tutto finiva.
Solo pochi attimi.
Mi girai su un fianco, fuggendo dalla vicinanza dei nostri corpi, dal sudore delle nostre pelli a contatto. Ancora quella sensazione di vomito che mi saliva alla gola.
“Lasciati abbracciare”.
“No”.
“Perché no?”
“Ho caldo”.
Sospirò, come sospira una madre stanca dei capricci del bimbo.
“Deidara ti prego. Si è rotta la caldaia, se ti addormenti così scoperto domani avrai la febbre a quarantadue”.
“Si è rotta... Cosa?”
Scostai le coperte in fretta e furia. Adesso me lo diceva?
“E ora dove vai?”
“Ma porca puttana sprecati la prossima volta a dirmelo prima!”
Infilai veloce i vestiti ed uscii dalla camera, notando solo ora che Sasori aveva tenuto la porta aperta per lasciare entrare il calore del camino.
“Lascia perdere Deidara, ci pensiamo domattina!”
“Tanto in questo posto notte o mattina non fa differenza!”
Corsi giù per le scale fino alla lavanderia a pianterreno. Lì, dove il tepore della fiamma non arrivava, la temperatura era pari a quella di una cella frigorifera.
Aprii la porta della stanzina e accesi la luce, accorgendomi solo in quel momento di stare camminando in mezzo all'acqua. Mi inginocchiai velocemente di fianco al punto di sgocciolamento, capendo all'istante che il problema era dovuto a un guasto della pompa.
“Dannazione...”
Sibilai sottovoce prendendo una sedia e arrampicandomi fino alla mensola dove Sasori teneva la cassetta degli attrezzi. L'appoggiai faticosamente sulla sedia stessa ed estrassi un cacciavite a stella della misura giusta per svitare il pannello.
Non appena tolsi quella protezione di metallo l'anfratto interno si svuotò tutto di un colpo sulle mie ginocchia; imprecai per il bruciore che provocò quella cascata di acqua ghiacciata passando attraverso il tessuto poroso dei jeans e incontrando la pelle.
“Cazzo!” In un moto di rabbia, lanciai il pannello rasoterra, non curandomi di far rumore.
Mi alzai in piedi e andai a raccattare uno straccio per asciugare il pavimento.
Tanto non avevo minimamente voglia di dormire, e ancora meno voglia di sorbirmi le prediche di Sasori. Recuperai da sotto il lavandino due pezzi di stoffa lacerati e li gettai malamente sul pavimento, servendomi del manico di una scopa per strofinarli sulle piastrelle ed assorbire così il bagnato.
Un colpo, due colpi, tre colpi.
Con forza, con rabbia, forse con il primo briciolo di vitalità in un mese.
L'acqua veniva assorbita dagli stracci, in parte, e in parte si ammucchiava, amalgamandosi alla polvere e alla sporcizia.
Cercai di aggiustare la caldaia, ma non ero un gran idraulico.
Tutto quello che potevo fare era arginare la perdita, aspettando di chiamarne uno vero, la mattina seguente.


*




Quella che doveva essere l'alba arrivò senza un barlume.
Era un'ora convenzionale, era il mio naturale punto di risveglio, era una posizione delle lancette dell'orologio.
Tutto era, fuorché il rinascere del sole.
Il sole moriva, letteralmente.
Negli ultimi giorni di novembre, tramontava.
Si tuffava nel mare, e tra le onde scavava la tomba per i due mesi d'inverno.
Due mesi che divenivano un'eternità, che pesavano sugli occhi che costantemente cercavano di appendersi a un filo d'oro.
E così, arrivava lei.
Sorvolava le cittadine e i boschi, incantava gli occhi di bestie ed esseri umani, planando talvolta così in basso che pareva si potesse toccare.
Ma rimaneva imprigionata nel cielo, e non faceva altro che affascinare e intimorire, tingendosi dei colori freddi di un fantasma.
La chiamavano aurora boreale, ma per me era solamente una crudele parodia.
Una parodia di quell'alba che avrebbe dovuto pungermi gli occhi e riscaldarmi dalla brina notturna, non aggiungere grigio su nero, e apatia su stanchezza.
In quel periodo tendevo a dimenticare cosa significasse risvegliarsi con il sole.
Dimenticavo cosa significasse sentire vita nel cuore e calore nel corpo.
Eppure, quella notte avevo sognato l'ombra di qualcosa di simile.
Un ricordo di una fetta di luce, una luce divenuta opaca nel tempo, invecchiata e ammuffita, ma pur sempre un raggio di sole.
Raggiunsi il bagno con quella solita aria smorta, che ormai mi portavo appresso già da tempo.
Aprii il rubinetto, senza curarmi di girarlo verso l'acqua calda o l'acqua fredda.
Le gocce gelate sul viso aiutarono a scrollarmi di dosso gli ultimi residui colorati dei sogni.
Qualcosa che era poco più che la personificazione dei miei desideri.
Qualcosa che, paradossalmente, aggiungeva dei metri al baratro depressivo in cui ero caduto.
Depressione.
La malattia di cui ero affetto.
Una parola così inquietante e stramba, che risultava ancora più infondata se pronunciata dalla bocca di uno psicologo.
Era il fatto di non essere più interessato al sesso, a qualsiasi forma di calore fittizio, che mi terrorizzava. Letteralmente.
Dicevano che non avrei superato quest'inverno.
Mi passai con frenesia l'acqua tra i capelli corti, bagnando le tempie e le spalle.
Dicevano che non avrei rivisto l'estate.
Uno, due schiaffi sul viso, e la pioggia mi invase.

Il passaggio sul muschio portava al mare.
Ad una spiaggia bianca come lana, alle urla dei gabbiani che nidificavano.
Lo strato di licheni si alzava e si abbassava come spugna, sotto il peso dei loro passi.
Le loro dita erano intrecciate, e questo bastava a farli sorridere.
Ma non era l'unica matrice.
Il sole di luglio splendeva tenue, in uno dei suoi mancati tuffi.
Si abbassava, fino alla linea dell'orizzonte, e lì rimaneva, dormiente.
Finché non tornava alto nel cielo con l'avanzare del giorno.
Un lungo tramonto, che sottraeva ore alla notte.
Come lo sforzo fisico prende a volte in prestito troppo ossigeno dalle masse muscolari, ossigeno che poi deve ripagare, con gli interessi.
E l'acido lattico della latitudine di Tromsø erano i due mesi di buio.
L'estate invece era ridente di luce, e donava i colori a quelle terre.
Il grigio verde dei muschi, l'avorio delle spiagge, l'arancione del mare.
Deidara si riempiva gli occhi di ogni briciola di luce estiva, consapevole del fatto che la stesse solo prendendo a prestito.
Si riempiva le mani di sabbia colorata, credendo di intrappolare per sempre quei bagliori.
Avrebbe voluto rendere eterni quei due mesi.
Avrebbe voluto portare il sole di mezzanotte nei lunghi inverni sterili.
Avrebbe voluto amare Sasori.
Ma sapeva che non ci sarebbe più riuscito, una volta che la neve e la brina l'avrebbero avvolto.
Il ragazzo mise piede sulla spiaggia, rimanendo ogni volta affascinato dall'aria peschereccia di quei luoghi.
Le piccole imbarcazioni partivano per il largo, e le numerose spalliere zeppe di stoccafissi troneggiavano lungo tutta la costa.
Quest'ultime erano poste su una piccola altura verdeggiante, per non rimanere vittima delle frequenti mareggiate; in pieno oceano non erano certo una rarità.
Sasori era accoccolato sulla riva, e il vento gli passava tra i capelli.
Quei capelli, cui l'estate regalava un colore rosso vivo e una consistenza dolce.
D'estate si profumavano di salsedine, mentre le sue mani si riempivano di lievi calli, dovuti alle numerose ore di pesca sul Tromsofjord.
Deidara amava assistere e, talvolta, aiutarlo.
Il pesce fresco veniva consumato la sera stessa, e quello rimanente era destinato a diventare del buon stoccafisso.
“A cosa pensi?”
Sasori sorrise, riemergendo dalla sua contemplazione.
Passò un braccio attorno alle spalle dell'altro, proteggendolo dal vento tagliente.
Il sole intanto, si era adagiato sul suo materasso di nuvole, dove sarebbe rimasto per l'intera ipotetica notte.
“Penso che sarebbe stato meglio lasciarti a Bergen”.



Bergen era la mia città natale.
Un mucchio di case variopinte poste parecchio al di sotto del circolo polare artico, dove luce e buio erano in equilibrio sulla loro bilancia delle ventiquattro ore.
Dove potevo sfamarmi della mia quantità giornaliera di colore.
“Hai chiamato l'idraulico?” Biascicai, con la bocca piena di pasta di dentifricio.
“No, è ancora presto”.
Sasori mi affiancò al lavandino per sciacquarsi il viso, e prontamente imprecò per la temperatura dell'acqua. Impiegò più tempo del necessario per prepararsi, e io intanto mi sentivo soffocare.
Cercai di concludere nel minor tempo possibile; la sua presenza bastava per farmi sentire a disagio.
“Esco”.
Mi vestii sbrigativo, e uscii di casa.
Era il primo gennaio; tuttavia non sarebbe stato difficile trovare qualche negozio aperto.
A quelle latitudini, spesso e volentieri le festività diventavano un particolare trascurabile dal punto di vista dell'orario lavorativo.
Sasori era una di quelle poche persone che non aveva molto da fare d'inverno; lavorava sul traghetto, prevalentemente frequentato da turisti, che attraversava il Tromsofjord.
D'inverno arrivavano pochi avventurieri esteri, così poteva permettersi dei lunghi periodi di pausa.
La costa della Norvegia era frastagliata da innumerevoli fiordi, vere e proprie spaccature formate dal mare, che si spingeva verso l'interno. Alcuni arrivavano a contare centinaia di chilometri di lunghezza.
Spesso i fiordi spezzavano la strada sul litorale, che continuava in un breve tratto di traghetto, portando le rare vetture da una sponda all'altra. Inoltre, la pesca era primaria in questo stato scandinavo, per cui servivano parecchie persone che sapessero destreggiarsi in mare.
Così l'avevo conosciuto, su un traghetto.
Stavo rimirando con interesse una medusa dalle dimensioni non propriamente ridotte.
Il cappello rosso raggiungeva i cinquanta centimetri di diametro, e i tentacoli superavano tranquillamente il metro. Era curioso vedere come la bestiola si inoltrasse in quei mari gelidi fluttuando e rigirandosi su se stessa, senza nessuna apparente logica di nuoto.
Semplicemente si lasciava trascinare dal vento, dalle onde, e dalle correnti.
Mi sporgevo dal parapetto come un bambino, con lo sguardo vispo e pieno di aspettative dei miei quattordici anni.
Mi stavo dirigendo con la mia famiglia alle Svalbard, le ghiacciate terre degli orsi polari.
La sola idea riusciva ad eccitarmi.
Quella volta, ci eravamo spinti molto a nord, dopo aver sostato nelle isole Vesterålen.
Così, immerso nei miei pensieri giovanili, venni distratto da quel ragazzo.
Aveva la mia stessa età, ed abitava a Tromsø.
Trecentocinquanta chilometri sopra al circolo polare artico.
Quella volta mi parlò degli orsi polari, della loro pericolosità, e delle precauzioni che bisognava prendere nel posto dov'eravamo diretti.
Eravamo entrambi dei ragazzini, ma sapevamo di essere rimasti affascinati vicendevolmente.
E da quel momento in poi le nostre vite furono legate, in un nodo impossibile da sciogliere.
Anche se ora, era riuscito ad allentarsi.
Era estate quando ci incontrammo.
Erano i primi di luglio, e il sole di mezzanotte dominava i mari.

“Come fai d'inverno?”
“D'inverno?”
“Come fai senza luce?”
Sorrise, enigmatico.
“Mi resta sempre l'aurora boreale”.
Deidara rituffò i suoi occhi nel mare, perplesso ma affascinato.
“Se ci dovessimo incontrare di nuovo, sarà in estate”.

Uscii dal mini-market locale con pochi articoli, soprattutto con poche scorte di cibo.
Avevo preso a mangiare sempre meno, quando invece quella sarebbe dovuta essere la mia unica consolazione. Ogni cosa cominciava a disgustarmi e a lasciarmi l'amaro in bocca: i sapori nordici, i pochi colori vivi, i rumori o, per meglio dire, i silenzi.
Temevo di rischiare qualche malattia patologica, se il mangiare avrebbe continuato a ripugnarmi in quel modo.
Nel frattempo, aveva ripreso a nevicare.
Soffice neve che aggiungeva freddo su freddo, e mi affondava nella sterilità.
Facendo attenzione, si potevano scorgere nelle brughiere ghiacciate i guizzi dei lemming, che si avvicinavano al centro abitato in cerca di cibo.
Avrei lasciato loro molto volentieri il contenuto della borsa che portavo sottobraccio, ma volevo evitare il più possibile commenti inopportuni da parte di Sasori, che mi aspettava a casa con la dispensa semi vuota.
Già lo immaginavo, il suo sguardo famelico.
Ancora non riuscivo a capire la gente, che riusciva a trovare qualcosa di speciale in un semplice atto di sopravvivenza.

Aveva mantenuto la promessa.
L'anno successivo si rincontrarono più a sud, nei pressi di Trondheim, ma il periodo rimase lo stesso: i caldi e assolati mesi estivi.
Era appena sorta l'alba della loro storia, e non accennava a tramontare, ferma nel suo sole di mezzanotte.
I prati che correvano fuori dal finestrino erano verdi di pioggia, zuppi d'acqua e di terriccio molle.
Sasori era sceso dall'auto, dopo averla accostata sul ciglio della strada.
“Dei, prendi la macchina fotografica”, gli aveva detto di soppiatto, tenendo bassa la voce.
Il ragazzo obbedì, perplesso, e seguì l'altro.
Sulla collina, due fieri manti brucavano l'erba fresca.
Un'alce adulta e il proprio piccolo, quest'ultimo ancora privo dell'imponente impalcatura di corna.
Nel mattino presto non era raro fare questo tipo di incontri.
Deidara mirò i due cervidi a bocca aperta, e cercò di fotografarli con il massimo dello zoom.
“Sono bellissimi”.
L'estate continuava a regalare loro queste piccole occhiate di vita.



Non mi ci volle molto a capire che la Norvegia nascondeva una grossa bugia.
Molti la sentivano parte di loro, molti ci convivevano serenamente, molti non avrebbero voluto farne a meno.
Io no.
La mia stupida voglia di luce non aveva saputo accettare l'esistenza di quei due mesi morti.
La mia ancor più stupida voglia d'amore non aveva saputo accettare la lontananza di colui che amavo, e Sasori non avrebbe potuto trasferirsi a Bergen per via del suo lavoro.
“Sono tornato”.
Ero riuscito ad aprire la porta di casa, dopo aver trafficato dieci minuti con le chiavi.
L'interno era buio, il lieve candore che filtrava dai vetri creava una luce crepuscolare.
“Sasori?”
Appoggiai le borse della spesa sul tavolo, e in quel momento notai il calendario, ancora fisso nel mese di dicembre.
Strappai il foglio ormai inutile, e solo in quel momento mi resi conto delle venti notti che mi separavano dal Soldagen, il giorno in cui avrei rivisto il sole.
Venti notti.
L'estate era lontana anni luce, ero più che sicuro che per me sarebbe stata una meta irraggiungibile.
Sasori non era in casa, forse era andato a cercare il tecnico di persona.
Forse era andato a cercare me.
Non sapeva che sbaglio aveva fatto.
Accesi il televisore, in una falsa speranza di distrarre la mente da quel pensiero fisso, che da tempo mi martellava in testa.
Non mi curai di smistare le compere, tanto nulla poteva correre il rischio di andare a male, vista la temperatura interna della casa.
I flash luminosi dello zapping ebbero il solo risultato di infastidirmi, ma almeno uno spot pubblicitario mi ricordò che avevo alcune faccende da sbrigare, tra cui avviare la lavatrice.
Premetti il pulsante di stand-by e mi diressi in cucina, dove presi il detersivo nello sportello sotto il lavandino. Il buio che aleggiava in tutta la casa si era fatto più fitto, al punto che inizialmente presi il flacone errato; i vetri delle finestre erano ricoperti da uno strato appiccicoso di neve, e il fatto che la loro casa fosse molto bassa ed estesa soprattutto nel seminterrato, non aiutava.
Feci per avviarmi al piano sottostante, dove mi attendeva una montagna di vestiti da infilare dietro l'oblò della macchina, quando mi assalì un'improvvisa voglia di entrare in camera.
Non sapevo il motivo preciso, ma quella porta chiusa ebbe il potere di attirarmi come un magnete. Forse perché, in quel luogo, avrei potuto trovare l'unica ombra di calore che mi ricordava i nostri giovani tempi estivi.
Un album di fotografie era nascosto nel cassetto del mio comodino.
Racchiudeva una miriade di scatti colorati, tra i quali quello delle due alci, datato anni prima.
I prati e le brughiere del Sogn og Fjordane, costellati di perle rosa e viola, erano stati il nostro nido nei primi anni.
Ricordavo un posto, in riva al Sognefjorden, nascosto e solitario, celato da un sentiero in mezzo al muschio alto e spumoso.
La brughiera rossa e verde, prima di venire mangiata dalla sabbia, era morbida e spinosa.
Ricordavo il clima mite di quell'estate, e quel luogo silenzioso riparato dai faggi bianchi.
Era lì che avevamo fatto l'amore per la prima volta, sdraiati sui nostri vestiti, immersi in un'esplosione di colori. Il sole di luglio brillava sull'acqua e sull'erba.
L'estate norvegese era così, verde di pioggia e rossa di sole.
Con il bianco dei nevai a decorare le cime dei monti.
Avrei potuto elencare tutte le cose belle di questa terra, sfogliando l'album che avevo tra le mani.
Gli straumen, gorghi impetuosi zeppi di pesci, dove avevo fatto il mio primo incontro con una lontra e le variopinte pulcinelle di mare.
Le renne del Finnmark, che pascolavano più a nord, in quelle lande ricoperte da erbe tenaci; ricordo che avevo toccato le loro corna, e inaspettatamente le avevo scoperte rivestite di un'insolita peluria.
Nordkapp, il punto più settentrionale d'Europa, dal quale avevo fatto tesoro del mio primo sole di mezzanotte, appeso a quell'emisfero di ferro posto sulla scogliera a picco.
Immortalato in quella fotografia sembrava solo un tramonto particolarmente suggestivo, ma l'orario stampato dietro lo sviluppo indicava la mezzanotte del 2 luglio 1980. Il sole era rimasto fisso in quel punto di morte per un lungo tempo, e poi era risalito, ridando vita al giorno.
Una nave da crociera si avvicinava alle alte pareti dell'isola, festeggiando quella notte solare.
Così come la festeggiavano alcuni ragazzi tedeschi, muniti di taniche di birra.
Le mani di Sasori erano gelate, così come il suo naso, unico centimetro di pelle rimasto scoperto.
Ci eravamo baciati a lungo su quel promontorio, benché entrambi inizialmente avessimo tirato fuori la lingua all'idea, e avessimo fatto una smorfia, ritenendola una cosa da ragazzine.
Ma a quindici anni, c'era anche la dolcezza e la tenerezza che derivava dalle nostre prime esperienze.
A quindici anni, ancora chiedevamo con un sorriso timido di baciarci o di fare l'amore, prima che questo cominciasse a succedere automaticamente. Senza perderci il rossore sulle nostre guance quando confessavamo apertamente le nostre voglie, giusto per sentire il brivido lungo la schiena e la stretta sullo stomaco mentre lo dicevamo.
Ma quelle occhiate di luce rimanevano intrappolate dietro la pellicola protettiva che rivestiva la fotografia, e sembravano appartenere ad un altro mondo.
In parte era così.
Alzai gli occhi verso la finestra, in cerca di una scintilla, di un bagliore, in mezzo al buio.
Sasori sarebbe tornato a momenti, apparentemente, ma non ci sarebbe più stato per me.
Mi venne quasi da scandire un addio, con le labbra.
Non ce l'avrei fatta.
Forse per due giorni, forse per ventiquattro ore, non per un mese.
La mia pelle, il mio corpo e il mio cuore avevano bisogno della luce.
Ero pallido, magro, non capivo neppure come il mio aspetto fisico riuscisse ancora ad attrarre.
Da quando il sole era scomparso ero rimasto a lungo vicino alla finestra, mangiavo poco e niente, ma Sasori non se ne accorgeva.
Un moto di rabbia, che assomigliava molto più ad un senso di abbandono, mi pervase.
Non capiva quanto io stessi male.
Non capiva il mio disagio.
Non l'aveva mai capito.
Mi nacque un'improvvisa voglia di fare in modo che se ne rendesse conto, e questa andò a raccogliere quel briciolo di vitalità che ancora tenevo nel petto.
Facendo due calcoli, era tutto questo ciò che la vita poteva darmi.
Tromsø nascondeva una maledizione.
I nostri mesi d'amore sotto la luce del sole di mezzanotte, nascondevano una maledizione.
Dovevo pagare per ogni mio sorriso, per ogni bacio, per ogni fotografia.
Ero stato felice, ma ora dovevo pagare.

Era da molto che osservavo quel flacone di detersivo, e ancora non capivo cosa ci facesse tra le mie mani.
Ma qualcuno diceva che non avrei rivisto l'estate.


*




Il Soldagen è un giorno pieno di gioia, per gli abitanti di questa latitudine.
Ognuno saluta a suo modo, chi con la voce, chi col cuore, quella stella benefica.
Quel giorno, il 21 di gennaio, Sasori si era recato nel punto in cui l'intera Tromsø si radunava, con canti e con saluti festosi.
Avevano atteso un po', una mezz'ora, minuto più minuto meno.
E finalmente nel cielo erano comparsi i primi bagliori, che annunciavano l'ospite d'onore.
Il sole saliva placido, malato, quasi bianco.
Toccava con i suoi raggi appuntiti la neve, e la faceva brillare.
Il ragazzo si riparò gli occhi con una mano, proteggendosi un poco anche dal vento forte; quel pallido tepore sembrava bastare a sciogliere l'intera calotta che lo aveva avvolto.
Lo fortificava, lo rinvigoriva, gli donava la forza sufficiente per affrontare un'altra vita.
L'inverno aveva tranciato gli abitanti nordici come ramoscelli, ma quella nuova luce riusciva ancora a gonfiare gli stecchi di gemme.
Anche se sarebbe rimasta per poco, riusciva a dare la speranza che ci sarebbe stata per sempre.
Sasori abbassò lo sguardo, per non far notare la sua espressione tormentata e riflessiva, di certo non consona al momento.
Dopo un po', cominciò a separarsi dalla folla, cercando di evitare i conoscenti.
Scese sul fianco della collina, tra la neve alta.
Raggiunse il cimitero vicino, posto volutamente in una posizione favorevole per non essere escluso dai primi raggi di sole, dopo tanto buio.
Il cancello, scardinato recentemente da una piccola slavina, era adagiato su un lato. Il cumulo di neve che era stato rimosso, dalle tombe e dai muretti di confine, giaceva a fianco del perimetro, come fosse un'altra piccola collina.
Si recò a una lapide bianca, esile, quasi una crisalide di ghiaccio. I fiori che vi erano stati portati erano freschi e gioiosi, molto probabilmente erano stati lasciati lì da una qualche signora anziana del paese.
Spolverò la neve dall'insegna, rinvenendo l'iscrizione e la sua foto.
Deidara Iwa, 5 maggio 1965 - 1 gennaio 1986.
Il sole appena nato sfiorò con delicatezza la sommità della lapide, ridandole colore, riscaldandola, e confortandola.
Un abbraccio caldo attorno ad una pietra dura e fredda, una cosa che Sasori non era mai riuscito a fare. Una cosa che non avrebbe mai potuto fare.
Era inutile continuare a rimproverarsi, benché l'avesse già fatto fino allo sfinimento.
Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto capirlo e basta.
E non era stato in grado.
Ma quel giorno, almeno quel giorno, l'avrebbe vissuto insieme a lui.
Non aveva bisogno di sapere se lui ci fosse veramente, ma aveva bisogno di crederlo.
Aveva bisogno di credere che avrebbero vissuto assieme anche quell'estate.
Un'ultima estate insieme, colorata e piena di vita, prima che il sole si fosse rituffato nel Mar di Norvegia, per non fare più ritorno.

69° di latitudine;
350 km a nord del circolo polare artico;
57 giorni di buio.









Note dell'autrice:

Devo ammettere che questa fan-fiction è parecchio autobiografica (naturalmente, solo per la parte che riguarda i viaggi, i flash-back e la descrizione dei luoghi). Come sempre non mi sento del tutto in sintonia con i gusti di Deidara, anzi, mi sa che le mie preferenze si identificano sempre nel personaggio di Sasori, benché io senta molto più vicino a me Deidara.
Questa è una fan-fiction che avevo iniziato per un contest della cara vecchia Shark Attack, e che avevo scritto all'incirca fino al punto in cui Deidara tenta di aggiustare la caldaia. E poi avevo scoperto che le AU erano bandite (sniff, poverine) e quindi ho abbandonato questa fan-fiction, che è rimasta ben chiusa in un angolino del mio computer in attesa di essere ultimata. Idem la “Casa sul direzionale”, di cui avevo scritto l'inizio la scorsa estate, sulle spiagge della Costa Brava in Spagna (che naturalmente io, detestando il mare, non sapevo che fare e quindi mi portavo sempre dietro penna e quaderno d'emergenza), e anche quell'inizio e quell'idea vennero bellamente dimenticati in attesa del contest giusto. O, meglio, in attesa che la sottoscritta trovasse la forza fisica e mentale di continuarla.
Scusatemi se cito le due storie insieme, è che sono molto legate tra loro.
Inoltre, forse si può capire che questa è una fan-fiction nata da una vecchia idea, perché è a sad-ending. Ovvero, ultimamente mi ero messa a scrivere storielle leggere e semi-comiche (per carità non parliamo di storie comiche perché sono del tutto incapace in quest'ambito. Diciamo piuttosto... a lieto fine), e invece questa ritorna nel genere drammatico-malinconico che stra-usavo un tempo. E devo dire che mi riesce davvero molto più facile scrivere una storia tragica che una storia divertente e a lieto fine. E solitamente mi soddisfano di più.
Bene, detto questo, mi sento soddisfatta di aver scritto finora due fan-fiction sui due miei luoghi preferiti, ovvero le Dolomiti (con Sassongher) e la Norvegia.
E perdonatemi ancora questo resoconto pieno di riferimenti ad altre fan-fiction, è che ce ne sono alcune legate tra loro, e questa mi sembra come “l'anello mancante”, quella che le lega tutte, e tutte assieme. E... inutile dire che sono davvero soddisfatta di essere riuscita in poco tempo a riprendere e a sviluppare due mie vecchie idee, che rischiavano veramente di finire nel dimenticatoio e di rimanere solo e soltanto idee.
Molto probabilmente (giusto per dare una motivazione a questi riferimenti che sembrano messi lì a casaccio, come mio solito...) questa storia che avete appena finito di leggere, verrà a far parte di una serie che comprenderà anche SassongherOn the road e la Casa sul direzionale.
E poi chissà, vedremo…







Classificata al contest Red Hair Party! contest indetto da (_Armonia_)



Conoscendo i personaggi mi sarei aspettata un'interazione più "vivace" tra di loro, invece mi hai piacevolmente sorpresa con questa one shot dalle atmosfere molto cupe (benchè l'AU sia "banalmente" ambientata ai giorni nostri, ma non devi prenderla come una critica perchè non lo è). Un punto a tuo favore è il fatto di essere riuscita a trasmettere l'angoscia di Deidara che era ulteriormente appesantita dalle tinte cupe di una Norvegia senza sole. 
All'inizio non capivo molto bene dove volessi andare a parare e vedevo la presenza di Sasori come semplice "comparsata"; tuttavia hai colto nel segno quando hai fatto capire che era Sasori la malattia che stava uccidendo Deidara, non era il semplice fatto che il ragazzo sentise la mancanza del sole (così come stavo incominciando a credere). Il motivo principale è l' "insensibilità" di Sasori, la sua incapacità di essere empatico con Deidara quel che sarebbe bastato per capire meglio il suo malessere (qui ipotizzo che tu abbia collegato questa insensibilità con la marionetta quale si mostra Sasori nel manga, col corpo freddo che non prova più alcuna sensazione, benchè il suo animo ancora risenta di alcune affezioni), questo lo si intuisce anche dalla frase che, nel flashback, gli rivolge " Penso che sarebbe stato meglio lasciarti a Bergen ". Aveva iniziato, ma non concluso. 
Una pecca che mi è saltata quasi subito agli occhi riguarda le descrizioni del paesaggio nordico, alcune le ho trovate abbastanza pesanti e ho impiegato più tempo per leggere quelle parti, però è apprezzabile lo sforzo che tu hai fatto nel cercare di rendere al meglio le scene di vita quotidiana (un esempio è l'acqua gelida che esce dal rubinetto). 
Un'altra cosa che mi ha lasciata perplessa è il carattere di Deidara: il suo cambiamento che è avvenuto a causa dell'ambiente in cui si è ritrovato a vivere è plausibile, tuttavia da uno come lui mi sarei aspettata un moto di ribellione nei confronti di quella situazione, ne avrebbe parlato chiaramente con Sasori e mi pare di aver capito che i loro "litigi" non possono proprio considerarsi tali (ho ancora in mente le scaramucce che hanno nel manga su quale forma d'arte sia la migliore). 

" Mi passai con frenesia l'acqua tra i capelli corti, bagnando le tempie e le spalle " Ho ipotizzato che fosse Deidara a parlare, così come nel resto della storia, tuttavia non ha i capelli lunghi (ipotizzo sia stata una svista) 

Per quanto riguarda la grammatica non è nulla di negativo da dire, lo stile caratterizzato da frasi di media lunghezza per descrizioni varie intervallate da frasi brevi e secche rende molto bene lo stato d'animo di Deidara, permettendo al lettore di percepire la sua angoscia. 

- Originalità della trama: 13/15 
- Caratterizzazione dei personaggi: 12/15 
- Grammatica e sintassi: 8/10 
- Gradimento personale: 8/10 

Punteggio totale: 41

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10° Classificata al Tempo di lacrime - flash contest indetto da Chisana kitsune

Grammatica e ortografia: 10/10
Lessico e stile: 9/10
Caratterizzazione dei personaggi: 4/5
Originalità: 4.5/5
Giudizio personale: 8.5/10
Totale: 36/40

Wow, nessun errore riscontrato, complimenti!
Anche il lessico e lo stile sono pressoché perfetti, se non per qualche imprecisione per quanto riguarda la punteggiatura.
Comunque, mi è piaciuto molto il modo diretto che hai di descrivere gli avvenimenti, il fatto che l'azione e le descrizioni non siano affrettate, ma che tutto si riveli al momento giusto.
È come seguire una scia che porta alla conclusione della storia e da cui è difficile staccarsi fino a che non si è giunti alla fine, una scia che però si muove alla giusta velocità.
(Maquantosonofilosofica, lasciami perdere).
La caratterizzazione dei personaggi è ottima, soprattutto quella di Deidara. Il fatto che la sua “luce” si spenga piano piano a causa del cielo eternamente scuro, che il suo carattere comunque loquace e impudente si affievolisca fino a trasformarlo in un uomo infelice e triste, rendono molto IC il suo personaggio in un contesto (molto) diverso da quello creato da Kishimoto. Il punto tolto è a causa della caratterizzazione un po' meno approfondita e dettagliata di Sasori, che c'è ma che si scopre quasi totalmente alla fine, quando si ha finalmente il suo punto di vista. Capisco che la storia sia incentrata soprattutto su Deidara perché alla fine è lui il protagonista, infatti non ho tolto quasi niente quantificando in punti.
L'originalità si può dire che sia il punto forte di questa storia: l'idea di ambientarla in Norvegia (ricordo bene, giusto? Altrimenti correggimi) è geniale e una cosa mai vista. Di certo, non in una fanfiction, in cui le ambientazioni che girano sono sempre quelle.
Davvero molto bella, anche se non mi è piaciuto molto il cliché finale per cui Deidara è morto: era una cosa un po' prevedibile. Però devo ammettere che hai trattato la questione in modo straordinario, senza forzature di trama né eccessiva drammaticità.





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