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Pulii la lama e mi cambia. Poi corsi da Sota. Singhiozzai tra le sue
braccia, piangendo per la morte di mia madre. Lui mi consolò e non
mi chiese mai niente, di puttane ne muoiono tante.
Convinse la vivandiera a prendermi al suo servizio. Lei mi rasò
la testa perché non prendessi i pidocchi, mi indicò l'angolo
del carro dove potevo dormire insieme agli altri sguatteri e si dimenticò
di me. Non credo abbia mai nemmeno saputo il mio nome. Si limitava ad urlare
un ordine e si aspettava che venisse eseguito da una di quelle entità
senza volto che le si aggiravano intorno. Se il lavoro era ben fatto, tutti
ricevevamo di che mangiare, altrimenti tutti venivamo frustati dalla sua
pesante cinghia di cuoio. Chi dovesse svolgere i compiti era affar nostro,
bastava che venisse fatto tutto in fretta e bene. Come ultima arrivata mi
ritrovai in fondo alla gerarchia, toccava a me passare gli strofinacci e
grattare il fondo degli immensi calderoni, tenere il grande fuoco acceso
e andare a riempire i secchi al fiume. Ma un po' alla volta riuscii a trovare
il mio equilibrio, imparai a rispondere al volo agli ordini più graditi
e a non farmi mettere sotto. Ed ebbi un'idea. Fino ad allora erano sempre
stati i più forti o i più veloci ad aggiudicarsi i lavori migliori.
Mentre gli altri dovevano sgobbare fino a spezzarsi la schiena, loro aiutavano
la cuoca ai fornelli e si saziavano rubacchiando qualcosa qua e là.
Altri, se si trovavano costretti a fare un lavoro duro, lo facevano
volontariamente così male che venivamo tutti puniti. Io organizzai
dei turni. Ognuno aveva diritto a un compito più piacevole dopo uno
duro. Quando qualcuno si rifiutava di svolgere il suo dovere, per quanto
fosse grande e prepotente poteva star certo che non sarebbe sfuggito alla
nostra vendetta. Nottetempo riunivo tutti gli altri. Lo afferravamo, gli
tappavamo la bocca con uno straccio perché non gridasse e lo riempivamo
di lividi. In cambio chiunque avesse davvero bisogno di aiuto lo riceveva.
Funzionava. I lavori venivano svolti e tutti erano soddisfatti. Riuscii a
instaurare con loro una specie di rapporto di mutuo soccorso. Per il resto
io me ne stavo per conto mio, non cercavo di mischiarmi ai loro giochi e
loro mi lasciavano stare.
Tutte le sere andavo a trovare Sota. Se aveva voglia mi insegnava a
combattere con la kusarikama, altrimenti mi raccontava quello che aveva fatto
durante il giorno e io ero contenta di ascoltarlo. Gli mostravo i miei progressi,
come la mia mira migliorasse di giorno in giorno, come la mia lama diventasse
sempre più rapida e letale e come mi abituassi un po' alla volta a
maneggiare la pesante catena. Lui era deliziato dalla velocità con
cui imparavo e sognava di farmi diventare famosa, magari in un'arena. Diceva
che saremmo diventati ricchi, ci saremmo comprati una villa e avremmo avuto
anche dei servitori. Non credevo neanche allora che sarebbe mai stato possibile,
ma era piacevole stare lì con lui che mi descriveva la nostra vita
futura. E forse avremmo davvero potuto andare ad abitare insieme un giorno,
non in una villa, ma in una casetta da contadini, avere tutto quello di cui
avevamo bisogno e essere felici. Lui era l'unico padre che desiderassi.
E' sera. Una ragazzina si sta lavando il viso seduta sulla riva di un
ruscello. Ha i capelli neri tagliati corti e una vestina lacera. E'molto
magra, ma un seno acerbo comincia a gonfiarsi sotto il kimono. Ha un espressione
pensierosa, vagamente triste. Nella cintura porta un falcetto e un peso,
legati con una corda. Poco lontano, alle sue spalle, le prime tende di un
campo militare, accanto a lei un grande melo allunga i suoi rami sul ruscello.
Un giovane esce dalla massa e si dirige verso di lei. Porta alla vita
una kusarikama ed ha un volto gentile. La chiama, lei si volta e lui alza
una mano per salutarla. La ragazzina gli corre incontro, un sorriso timido
che si allarga sul viso. "Come sta la mia bambina? E' andato bene il lavoro?
Non ti hanno rimproverata?" Lei risponde sottovoce. Il giovane le arruffa
i capelli, la ragazzina lo guarda adorante. "Mi fai vedere cosa hai imparato
oggi? Sì? Dai, sono curioso". La ragazzina infila i lembi del kimono
nella cintura, scoprendo le gambe magre, prende la sua strana arma e fa danzare
il peso intorno a se. E' concentrata, maneggia l'arma come se ne andasse
della sua vita. In modo un po' impacciato, si muove secondo i passi di un
kata. Il ragazzo si è seduto con la schiena appoggiata all'albero
e la osserva con attenzione. Sembra che stia studiando i suoi movimenti,
ma ogni tanto il suo sguardo scivola lungo le gambe nude della ragazzina
e sulla sua scollatura distratta. La ragazzina finisce il kata, è
leggermente sudata e ha un po' di fiatone, ma si volta verso il giovane con
espressione raggiante. Il giovane applaude e le sorride. Ha un sorriso aperto
e rassicurante! Alla ragazzina piace tanto. Il giovane è sempre allegro,
non piange mai, è felice. E' felice che lei sia così brava.
Il giovane le fa cenno di avvicinarsi. "Sei stata eccezionale, migliori sempre!
La mia piccola guerriera!" La ragazzina si siede accanto a lui. "Certo, ora
non sei più tanto piccola, quanti anni hai?" La ragazzina lo guarda,
c'è qualcosa di strano. "Tredici" sussurra. "Tredici anni? Ma allora
sei grande, una donna." La ragazzina si sente a disagio, qualcosa non va,
decisamente. Le fa piacere che lui pensi che è una donna, ma non riesce
ad essere proprio contenta. C'è una luce nello sguardo del giovane,
una luce che le ricorda qualcosa di brutto. Qualcosa che ha a che fare con
gli uomini che andavano a trovare sua madre. Il giovane la spinge contro
il tronco e la bacia. E' una bacio lungo e profondo. Alla ragazzina non piace,
non riesce a respirare e lui la stringe troppo forte. Rimane ferma e spera
che lui smetta. "Ormai sei grande, non dovresti continuare ad andare in giro
con le gambe nude come una bambina". La ragazzina si agita un poco, quando
lui le infila una mano nel kimono e le stringe il seno, cerca di allontanare
la mano, questo non va bene, sa cosa succederà ora. Lo hai imparato
per forza se hai passato la tua infanzia in un bordello. "Non fare così,
stai ferma. Sei grande, vedrai che piacerà anche a te. E' quello che
vuoi in fondo, no?" Il giovane smette di baciarle il collo e le sorride.
La ragazzina vorrebbe dire di no, che questo non è ciò che
vuole lei, proprio no. Ma non ci riesce, si limita a scuotere la testa e
a tentare di spingerlo via. Ma il giovane è molto più forte
di lei, più grosso e pesante. La tiene ferma contro il melo, mentre
le accarezza le gambe salendo sempre più in alto. "Vieni tutti i giorni
da me, con le gambe nude e mi guardi in quel modo. Credi che non me ne sia
accorto? Sono un uomo anche io, se mi provochi così, non ce la faccio
a resistere." La ragazzina piange silenziosamente. Lei non voleva provocarlo,
pensava di non doversi preoccupare di niente quando era con lui. Il giovane
le slaccia la cintura. " E' perché ti voglio bene che lo faccio. Mi
vuoi bene no? Allora ti piacerà. Stai ferma. Mi ferisci se ti agiti
così" La ragazzina smette di divincolarsi, si sfrega gli occhi con
il braccio per asciugare le lacrime. Lei vuole che lui le voglia bene, vuole
che sia felice. Il giovane si abbassa i pantaloni. Gli occhi della ragazzina
si fanno vacui quando lui la prende.
E' buio. La ragazzina è distesa accanto all'albero., lo sguardo
fisso nel vuoto. Il giovane è seduto accanto a lei, appoggiato al
tronco. Tiene la testa fra le mani e singhiozza. "Mi spiace, non volevo.
Davvero non volevo... Ma non sono riuscito a resistere. Mi faccio schifo...
Non lo farò più, lo giuro, non lo farò più...
E' solo... Sei sempre lì, davanti a me, e io non posso averti... Non
ce la facevo più ad aspettare " La ragazzina sente le parole rimbombare
nel vuoto che ha in testa. Sembra che arrivino da lontano lontano, da un
altro mondo. Il giovane non è felice. Lei credeva che lo fosse. Invece
anche lui è come sua madre. Desidera qualcosa che lei non può
dargli e piange. Lei vorrebbe dargli quello che lui vuole. Ma non può.
Potrebbe permettergli di giacere con lei, ma lui sarebbe triste lo stesso.
Piangerebbe come oggi, perché saprebbe di spezzare ogni volta qualcosa
dentro di lei. La ragazzina lo sa. Il rimorso lo divorerebbe. Forse finirebbe
per odiarla, per desiderare di non averla mai conosciuta. Il giovane non
potrà mai essere felice, lei non può fare niente per renderlo
felice. La ragazzina si alza. Il giovane continua a singhiozzare senza sollevare
lo sguardo. Senza un suono, la ragazzina prende la sua arma. Torna verso
il giovane, con un gesto rapido e deciso gli affonda la punta del falcetto
nella nuca. Il giovane crolla a terra. La ragazzina rovescia il corpo sulla
schiena. Slaccia la cintura e si porta via la kusarikama.
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