All’improvviso, senza nessun motivo, l’ultima boccata della
sigaretta gli si bloccò in gola. Tossì, due brevi colpi, ma piuttosto inusuali
per lui, che fumava da quando aveva sedici anni e non ricordava nulla di
vagamente simile ad un’influenza da quando ancora non aveva neanche iniziato la
scuola. Ma forse quell’ostacolo nel respiro doveva essere colpa di un altro
fumo, quello pesante di piombo e benzene che si gonfiava, denso, dalle finestre
di uno dei grattacieli nani stretti in cerchio al Sunshine City come un
corteggio di ancelle attorno a una nobildonna. L’incendio era quasi domato,
anche se il fumo sembrava ancora ribellarsi; l’edificio aveva retto, “Non ci
sono vittime!” gridava un vigile del fuoco col sorriso sporco di fuliggine.
Aspetta e vedrai.
Buttò il mozzicone e s’infilò subito tra le labbra una nuova
sigaretta. Ma l’accendino, comprato nuovo neanche due ore prima, si rifiutò
inspiegabilmente di fare il suo dovere. Allora non era proprio giornata… Chiese
da accendere al primo passante.
“Ma non lo sa che fumare fa veramente male?” gli rispose
quello, accigliato.
Seishiro sorrise. Allontanandosi, insieme ai passi sul
marciapiede ripercorse i lunghi anni trascorsi a studiare modelli di bronchi,
trachee e polmoni con la sigaretta in bocca… E di colpo, inaspettatamente gli
attraversò la mente un ricordo diverso…
“Ma dai! Sul serio fai il
veterinario? Dev’essere super! Come mai hai deciso di studiare proprio quello?
Ci avrai messo un sacco di tempo…”
La prima volta che aveva conosciuto la ragazzina. La prima
volta che l’aveva portata in giro -con il fratello che la implorava di lasciare
in pace il signor Sakurazuka, e di tornare a casa- per i negozi di Tokyo,
tra gridolini d’entusiasmo e domande a raffica…
Chissà perchè gli era venuto in mente proprio allora.
“Perché ho sempre amato gli
animali, Hokuto-chan… davvero, soltanto questo!”
Davvero…
Beh, in fondo era quasi vero. Certo, il verbo
amare era sicuramente un’esagerazione, ma doveva ammettere che gli animali
avevano sempre destato abbastanza la sua curiosità. Ovviamente l’idea della
clinica era stata finalizzata a una soluzione per la questione del sakanagi –oh,
davvero una soluzione elegante, ancora la rimpiangeva un po’- aveva studiato
veterinaria giusto per quello, e per procurarsi una copertura qualsiasi. Sorrise
ad un altro ricordo, questa volta gli occhi neri sbarrati della sua compagna di
banco al corso di anatomia patologica, quando aveva aperto il libro ad una
pagina completamente imbrattata di rosso… non gli veniva in mente quale
giustificazione avesse tirato fuori, –si invecchia, caro mio…- ma
rammentava che l’episodio era stato piuttosto divertente.
Eppure, studiare gli animali era stato in un certo senso
anche interessante. Lo affascinava la logica così perfetta di quell’istintività,
quell’aggressività e, un istante dopo, la fiducia e le fusa… Trattare con loro
era tanto facile… quella semplicità, quella totale assenza di complicazioni e
pensieri che pareva così vicina alla purezza assoluta…
E la purezza a lui era sempre sembrata una cosa sola: il
vuoto.
Per questo aveva passato tanti anni a studiare nomi di ossa,
di tendini, di muscoli –per vedere cosa fosse, nella realtà, nella carne quella
purezza, se davvero esistesse scritta in una lingua tutta sua nelle spire del
DNA.
Per questo, forse, aveva passato un anno intero… a cercare
quell’inesistenza in due laghi di smeraldina innocenza, curioso di come fosse,
di come si potesse vivere in quell’invariabile limpidezza.
Fu più fortunato con un ragazzo coperto di tatuaggi e
piercing, che gli accese la sigaretta senza fare tante storie. Il lampo
dell’accendino, uno sguardo casuale del giovane –aveva anche lui gli occhi
verdi…
Una stordente sensazione di deja-vu –un improvviso bagliore
di sole contro lo smeraldo trasparente di quelle iridi, contro il metallo di un
coltello da cucina…
“…se tu dovessi farlo
soffrire… io ti ucciderei.”
Ringraziò, inspirò nel familiare sapore corposo del fumo.
Incredibile come quegli occhi fossero stati esattamente identici, e allo stesso
tempo così differenti da quelli del gemello. Nello sguardo del ragazzo le
emozioni affioravano e passavano come nubi nitide contro l’azzurro compatto del
cielo, sabbia bianchissima sotto l’acqua verde di qualche spiaggia tropicale.
Sì, era un ossimoro –e lui non aveva certo nessuna velleità di poeta- ma poteva
dire che, in quello sguardo, anche le profondità dell’animo del sedicenne erano
in superficie.
Ma gli occhi di lei… nello stesso colore, un velo di
diffidenza, un istante di sorriso obliquo, di sicurezza simili ai suoi, di
Seishiro stesso. Da un lato, la spontaneità, l’allegria, la leggerezza di una
ragazzina –ma dall’altro il sospetto, la maturità, la forza di guardare in
faccia la realtà. Contraddizioni forse, sì –ma non erano proprio quelle
contraddizioni così naturali a formare l’animo degli uomini?
Solo quello di lui era così compatto, fermo, monolitico.
Camminando verso il Sunshine, scansando la folla, pensò che
probabilmente Subaru –e chiunque altro sapesse di lui- lo considerava il
prototipo della doppiezza, dell’ambiguità e della contraddizione. Come poteva un
uomo comportarsi come la gentilezza e la premura fatte persona, ed essere in
realtà il più freddo degli assassini? Scosse la testa, gli sfuggì dalle labbra
una mezza risata. Una passante si girò a guardarlo, e lui allargò il sorriso: la
giovane donna arrossì, sorrise anche lei, e riprese a camminare in tutta fretta.
Era così facile…
Era talmente facile essere così… sorridere, e poi colpire,
apprezzare e godere quanto il gioco aveva da offrire, fin quando non arrivava il
momento di riscuotere il tributo. Non ci vedeva nessuna contraddizione, nessuna
finzione. Era perfettamente logico. Che senso avrebbe avuto, se nell’uccidere
non ci metteva l’arte, se non afferrava le occasioni che ballavano la loro danza
sfrenata nel dedalo della città, se non assaporava ogni istante della sfida -con
in sottofondo il rassicurante, immutabile pensiero che comunque fosse andata,
sarebbe stato lui a vincere? Così, c’era sempre qualcosa che sapeva cogliere,
rosso bocciolo di fiore raro in mezzo a mille margherite tutte uguali –il lampo
di comprensione negli occhi della sua vittima, il piacevole vuoto nello stomaco
del pericolo e della tensione, un soffio di vento, e la notte, e una mattina di
sole. Forse era anche questo un ossimoro –era davvero una strana giornata-
eppure lui, la perfetta incarnazione del Sakurazukamori, l’Angelo distruttore
della Terra, si considerava uno che sapeva godersi la vita.
Sakurazukamori. Drago della Terra. Poteva avvertire, quasi
fisico, il distacco, la barriera che lo separava dalla confusione dei clienti
che entravano e uscivano dai negozi, degli avventori dei bar le cui giacche
sfioravano, per un istante, la sua. Ma, in un certo qual modo, sapeva di essere
allo stesso tempo parte di quella calca, nell’essenza o forse nell’apparenza,
chissà, le due cose si mescolavano. La coscienza di essere diverso e uguale,
semidio della morte e della distruzione nel corpo di un uomo come milioni di
altri –che come milioni di altri provava piacere nell’aspirare la sua sigaretta
e nel vedere le lunghe gambe della bella donna che attraversava adesso
l’incrocio, e dolore se il bordo delle pagine di un libro gli scalfiva
improvviso la pelle, una smorfia, succhiare il sapore di una stilla di sangue
dal dito…
E allo stesso tempo, oltre l’adrenalina e la fame, oltre il
freddo e la voglia di restare a dormire cinque minuti in più dopo la sveglia,
c’era il suo potere. Il potere, che riplasmava il mondo intorno a lui,
trasformando le cose di ogni giorno in fili di perle e diamanti, le tragedie in
indifferenza, la realtà in un gioco e il suo gioco, l’universo del Ciliegio,
nell’unica verità.
Diverso ma uguale. Simile e opposto. L’assassino e l’amabile
veterinario di Shinjuku. E tutto in perfetta armonia, fluido come bianco e nero
che si fondono senza conflitto, senza rinunciare l’uno ad essere bianco e
l’altro ad essere nero. Insanabili contraddizioni solo per chi non sapesse cosa
significasse…
Essere un Sakurazukamori.
E finalmente, oltre la folla, oltre il fiume di ferro del
traffico, gli si aprì davanti agli occhi la piazza, e tutta la vertiginosa
altezza del Sunshine City.
Era da diverse ore ormai che le scosse erano cessate, non
c’era nessun terremoto, eppure lui sentiva, sotto i suoi piedi, il cemento
vibrare –era la barriera, il suo bagliore rosso pulsante nei più oscuri recessi
della terra, era la barriera che lo chiamava.
Ikebukuro. Sicuramente uno dei luoghi del pianeta dove il
genio architettonico si era slanciato nella maniera più ardita e impressionante.
La colossale scala mobile del Metropolitan, il labirinto dello shopping del
Tobu, i grandi magazzini Seibu, cinquanta ristoranti solo all’ultimo piano –e
poi il Sunshine, l’inconcepibile progetto di una città in un solo edificio…
Tutto, tutto sembrava sfidare costantemente il cielo e la gravità, provare a
salire più in alto, sempre più in alto, la torre di Babele che si ribellava al
Paradiso, tutto sembrava chiamare, e dire provaci, dai, avanti, distruggimi…
Avrebbe risposto volentieri all’appello.
Era lì per abbattere il Sunshine. Un altro passo verso la
conclusione, la conclusione di quel mondo di maschere e di autostrade, di gente
che moriva di fame e di gente che possedeva quei grattacieli, di manie di
grandezza e sogni antichi e moderni che si credevano più concreti di quelli
fatti nella mente solo perché costruiti di pietre –e che invece sarebbero
crollati come i castelli in aria, come gli effimeri desideri degli abitanti di
quel pianeta.
Un altro passo verso la conclusione del suo mondo
–avrebbe ucciso Subaru, in quel giorno che avrebbe messo fine ai giorni. E lui
sarebbe morto, tutto sarebbe morto, probabilmente anche la sua stessa esistenza
sarebbe finita, allora, ma non importava.
Perché avrebbe vinto la sua scommessa, la sua personale
partita con la vita.
Sei stata decisamente un po’ sciocca, Hokuto-chan…
--Se tu dovessi tentare di uccidere Subaru nella stessa
maniera in cui hai ucciso me…-- …come se un Sakurazukamori non conoscesse altri mille modi
per dare la morte.
Raffinata tecnica, senza dubbio, peccava solo un po’ di
quell’ ingenuità che sembrava essere un marchio di fabbrica della famiglia
Sumeragi. Anche se Hokuto aveva dimostrato senz'altro un carattere interessante,
e un intuito fuori dal comune…
Hokuto…
Perché mai… stava di nuovo pensando a lei, la sua immagine,
la voce della sua risata più chiara e vicina di quanto non fosse mai stata in
tutti quegli anni… il sapore di quella presenza, un ricordo chiuso in un attimo
e una pennellata di colore nell’aria, sopra le mille interferenze della vita
normale…
Una boccata di profumo che passava col vento…
Due occhi verdi spalancati a guardare dentro ai suoi. Ma
erano quelli di Subaru.
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[Note…
Ed eccoci qua… alla mia personale risposta in merito
alla straordinaria personalità di Seishiro. Questo capitolo vorrei dedicarlo ad
Harriet: ce ne siamo fatte di chiacchierate sul conto del sig. Sakurazukamori…
Soprattutto su quest’idea che ho, che Seishiro, in tutto quello che abbiamo
visto, non porti mai nessuna maschera. Certo, in TB finge di essere innamorato
di Subaru, ma tutto quello che fa gli viene con la naturalezza, con la semplice
leggerezza con cui attraversa la vita. Senza sentimenti, è tutto facile, è tutto
piano, tutto allo stesso livello, Seishiro non ha bisogno di simulare niente.
Lui è veramente così.
Forse è un po’ strampalata l’idea che abbia studiato
davvero veterinaria… ma che ci volete fare, mi piaceva! E poi, qualcosa avrà pur
dovuto fare, no?^_^
La sezione su Ikebukuro è solo basata su guide sfogliate
in libreria, purtroppo non sono mai stata in Giappone… Perdonatemi tutti i
possibili errori!
Vi ringrazio taaaaantissimo per aver letto e commentato
il primo capitolo! Grazie davvero, sapete bene quanto è importante per me
sentire i vostri pareri e le vostre riflessioni…
Un saluto speciale alla mia amica dai tre nomi ^___^
(l’interessata capirà!) che non solo mi sopporta tutti i giorni sui banchi
dell’università, ma ha avuto anche il coraggio di leggersi le mie fanfic!
Pronti per l’ultimo capitolo? Come sempre, sarei
contenta se mi segnalaste tutto quello che non vi va giù!
A presto…
–Shu- ]
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