Amare i propri demoni. Rappacificarsi con se stessi. Per non
impazzire.
A
Lollo e Ponchia.
Amare
i propri demoni. Rappacificarsi con se stessi. Per non impazzire.
Sorot
non aveva mai amato lo stile tardo primo impero del palazzo degli Usen
a Naska; gli imponenti pilastri e gli ampi archi lo sovrastavano,
opprimendolo con la loro pesantezza di nuda pietra, e in ogni corridoio
o sala le alte volte nascondevano anfratti di tenebra che le candele
non riuscivano a rischiarare, ombre che guizzavano disturbate dall'eco
dei suoi passi.
Nonostante
fosse ormai un uomo, un conte, l'imperatore, quel luogo riusciva ancora
a farlo sentire il ragazzo che era stato un tempo; non importava che
l'ultimo erede della celebrata stirpe degli Usen barcollasse ubriaco al
suo fianco capace di reggersi in piedi solo grazie al suo sostegno, la
dimora austera dei conti del Sirenmat avrebbe continuato a giudicarlo e
a respingerlo.
Scacciò
il pensiero con irritazione e cercò di sistemarsi il braccio di Galoth
sulla spalla, in modo da poter reggere meglio il considerevole peso di
quel corpo gigantesco, prima di incamminarsi lungo la scalinata.
Si lamentò confusamente, ma Sorot lo ignorò, convinto che dopo aver
tracannato tre misure di vino del Lai si perdesse inevitabilmente il
diritto di lamentarsi.
«Lasciate,
sire, me ne occuperò io. È pesante per voi.»
Sorot
non si voltò, limitandosi a gettare
velocemente lo sguardo alla propria destra per controllare a chi
appartenesse quella voce rispettosa ma decisa. Non si stupì nel
riconoscere il giovane capitano della guardia del Conte avvicinarsi con
passo sicuro, un'espressione grave e risoluta sul volto lentigginoso.
Sorot gli sorrise privo di benevolenza.
«Lo
è, anche se non viene mai in mente a nessuno. Se chiedessimo la prima
parola che sovviene alla mente circa il signore di Usen sarebbe grande,
forte, virile, prestante o imponente. Le donnine frivole che lo vedono
cavalcare per le vie si sussurrano fra loro “avete visto quanto è
alto?” e non “chissà quanto deve essere pesante!”»
Il
sarcasmo parve scivolare fra le pieghe del farsetto blu senza che
alcuna traccia della sua amarezza vi restasse impigliata e il giovane
si frappose fra lui e le scale con la risolutezza di chi compia il
proprio dovere con dedizione.
«Vi
ringrazio per la premura, capitano. Posso farcela da solo.»
Il
giovane, non riusciva davvero a ricordare il suo nome anche se era
certo di averlo sentito pronunciare da Galoth almeno una volta, non
disse nulla e Sorot intuì non se ne sarebbe andato se non dopo avere
preso in carico il proprio signore, il che gli fece rinsaldare
istintivamente la presa.
«Trelag...»
Galoth
non disse altro, cercando di sorreggersi autonomamente per qualche
secondo, e parve che di altro invero non vi fosse bisogno, perché il
capitano si scostò con un inchino, lasciando libero l’accesso al piano
superiore. Prima che potesse andarsene, Sorot gli si rivolse.
«Torna
nella sala grande e annuncia ai nobili che il banchetto è concluso.»
Trelag,
Sorot trovò piacevole potergli finalmente assegnare il nome che fino a
poco prima spingeva sulla punta della sua lingua, cercò lo sguardo del
proprio signore prima di annuire, ma, dopo avervi trovato il riscontro
che cercava, chinò il capo in segno di assenso e si avviò verso il
salone.
Sorot
sapeva perfettamente che non era abitudine di Galoth invitare i propri
ospiti ad andarsene, ma non gli importava di suggerire implicitamente
la paternità del proprio ordine a tutta la nobiltà festante; voleva
solo che se ne andassero a spettegolare da un’altra parte, malignando
sfrenatamente sull’imperatore che si abbassava a portare a letto il
membro del consiglio che più aveva avversato la sua elezione, quasi
fosse un comune servitore. Facessero pure, non poteva impedirlo, solo
altrove, se ne andassero lontano, così che lui potesse dimenticarsi di
loro e di quello che le loro illazioni gli ricordavano. Non potevano
capire che in quel momento, mentre arrancavano a fatica lungo il ripido
scalone, finalmente erano solo Sorot e Galoth, non il Conte di Varices
e il Conte del Sirenmat, non il patriarca di Besali e l’ultimo degli
Usen, non l’Eren del trono dorato e il suo vassallo riottoso. L’aveva
riportato a casa barcollante infinite volte nella loro gioventù, prima
che i loro padri morissero lasciando loro in eredità due contee e la
storica inimicizia fra le proprie casate; prima che lui
riuscisse a strappare al Consiglio dei Dieci l’elezione al seggio che
era stato di suo padre, prima di Anneleise, prima di Abigal, prima di
Merith e della guerra che si erano quasi mossi l’un l’altro. Era stato
diverso allora, quando Galoth beveva per amore dei bagordi e non per
affogare nel vino i propri lutti, quando ancora non c’era nulla di
stupido nell’amarlo così tanto, quando ancora credeva che non si
sarebbero mai traditi ed entrambi si ritenevano belli e invincibili.
Percorsero
con lentezza l’intera scalinata, entrambi nuovamente taciturni e
avvolti da un’amara nostalgia. Svariati moccoli irradiavano di luce
tremula i numerosi ritratti disseminati nel grande salone del piano
superiore e loro passarono, come se stessero camminando attraverso una
perenne veglia funebre, davanti ai più eminenti o recenti membri della
stirpe degli Usen; da Hartaigen il fratricida, detto Arbitrio, sino ai
fratelli di Galoth in un infinito succedersi di teste bionde, occhi
chiari e severa grandezza. Fuggì lo sguardo giudice delle tele verso
laddove la parete era ancora nuda e non poté fare a meno di domandarsi
se quella lunga sala non fosse stata concepita per ospitare i ritratti
dell’intero lignaggio degli Usen e quello spazio vuoto non fosse
destinato ad inghiottire tutti gli Usen a venire. Affrettò il passo
d’istinto, come se con questo potesse impedire a quel vuoto di
rivendicare Galoth per sé nel posto che gli spettava accanto ai suoi
antenati.
Fece
per spingerlo verso l’angusta scala a chiocciola destinata alla
servitù, cui tante volte erano ricorsi negli anni passati per evitare
di percorrere il lungo corridoio del terzo piano, spuntando direttamente
nei pressi delle stanze di Galoth.
«Non
lì.»
Sorot
fece una smorfia quando Galoth glielo sussurrò all’orecchio,
avvedendosi che, come avrebbe dovuto intuire da solo, le stanze verso
le quali dovevano dirigersi erano gli appartamenti del conte, che un
tempo erano appartenuti al padre di Galoth. Non vi era mai entrato, ma
appena varcò la soglia il disordine compulsivo che neppure la più ligia
delle attendenti era mai riuscita a sconfiggere del tutto gli parlò
inequivocabilmente di Galoth, strappandogli un sorriso. Alle pareti
facevano bella mostra di sé i disegni in inchiostro rosso raffiguranti
sezioni di navi donati numerosi anni addietro dal conte del Malinlan al
proprio giovane figlioccio nato e cresciuto a Nord, lontano miglia e
miglia dal mare. Si guardò intorno, cercando una specchiera con brocca
e catino fra una selva di mobili in legno pregiato, le cui rifiniture
avevano probabilmente impiegato più di una generazione di ebanisti; non
era dove se la sarebbe aspettata, a lato del letto, ma vicino all’ampio
terrazzo da cui filtrava flebile la luce della luna. Spinse senza
gentilezza la testa di Galoth nel bacile, rovesciando successivamente
su di lui l’intero bricco di acqua gelida; Galoth gridò e si tirò
indietro con l’inevitabile risultato di bagnare il pavimento e
abbandonare il sostegno di Sorot, che gettò contro di lui anche l’acqua
che si era depositata nel catino.
«Vaffanculo!»
Sorot
lo fissò soltanto, lasciando che lo sguardo severo delle proprie iridi
chiare si incuneasse negli occhi scuri di Galoth. Era quantomeno
inusuale un conte del Sirenmat con occhi e capelli neri e per questo,
Sorot ricordava, Galoth era stato oggetto del dileggio del proprio
fratello maggiore e degli iniziali violenti sospetti del proprio padre.
Galoth aveva odiato sua madre per quell'eredità inopportuna e Sorot ne
aveva riso, motteggiandolo divertito, visto che non vedeva come potesse
lamentarsi di quei grandi occhi tenebrosi in cui le fanciulle
sembravano perdersi. Ora che era costretto a vedere quegli stessi occhi
incastonati per sempre nel volto del proprio primogenito, non ne rideva
più.
«Cosa ci fai qui?»
La domanda squarciò il
silenzio, forte del frastuono che l'amarezza conferisce alle parole
sommesse, e Sorot tentò inutilmente di non ferirsi tentando di tenere
insieme i frantumi affilati della propria illusione appena andata in
pezzi.
«Sei ubriaco e ti accompagno a
letto.»
Non era una risposta, non
davvero, Sorot lo sapeva, tuttavia scelse di nascondersi dietro quella
replica scialba, sperando che Galoth lasciasse perdere e gli
permettesse di tornare a raccontare a entrambi quella bugia falsamente
rassicurante e dolorosamente dolce in cui erano immersi fino a poco
prima. Com'era uso fare, tuttavia, in ogni aspetto della propria vita,
Galoth non tornò sui propri passi e lo incalzò quasi sussurrando con la
sua voce profonda e vibrante.
«Perché?»
Sorot
si domandò se l'interrogativo avesse altro scopo oltre quello di
arrecare a entrambi quanta più sofferenza possibile e per un istante,
prima di respingere l'ipotesi, ne ebbe la certezza.
«È quello che ci si aspetta da
un amico.»
Galoth
lo spinse senza preavviso, gli occhi ardenti di collera, e Sorot
incespicò andando a sbattere contro il mobiletto, catino e brocca
caddero al suolo mentre entrambi trovavano un doloroso appoggio contro
il muro.
«E
quali splendidi amici noi siamo! Ho messo incinta tua moglie e tu hai
ucciso la mia, hai cercato di uccidermi e devo ancora ricambiare il
favore, ma a questo punto, quando lo farò, dovrò ricordarmi di brindare
all’amicizia».
Era
bello, disperato e ubriaco da far male e quando Sorot lo guardò pensò
di non averlo mai amato e odiato così tanto, mai al punto di non capire
più quale fosse la differenza. Lo colpì.
Galoth
incassò il pugno in pieno volto senza neppure cambiare espressione,
barcollò semplicemente indietro, mandando la propria
schiena a impattare contro la colonna del letto a baldacchino.
Avrebbe
voluto urlargli contro con tutto il fiato che aveva, soffio vitale
compreso, tuttavia si sentiva così stanco e arrabbiato e triste che le
sue parole risuonarono deboli, come se avessero dovuto percorrere una
distanza infinita dentro di lui prima di poter emergere dalle sue
labbra.
«Non
puoi proprio lasciarmi fingere che non sia cambiato niente?»
La
smorfia sarcastica di Galoth gli avrebbe fatto male se non fosse stata
la sola forma di sorriso concessagli negli ultimi nove anni. Nove anni,
sette mesi e tredici giorni: da quando il conte del Sirenmat si era
incontrato con l’imperatore per concordare il ritiro degli eserciti
stanziati in massa al confine fra il Sirenmat e l’Erenlan, ponendo fine
alla minaccia di guerra civile che aveva turbato i sonni di tutti i
sudditi dell’impero dall’attentato fallito alla vita del signore di
Usen cui era seguito il massacro degli ambasciatori del Varices.
«Non
sono io che non ti lascio fingere. Sei tu che mi guardi e non vedi più
la stessa cosa.»
L’affermazione
aleggiò nell’aria per un lungo istante prima che Galoth parlasse di
nuovo con lo stesso tono grave e lontano.
«Quand’è
stata l’ultima volta che hai visto il tuo migliore amico e non il padre
del bastardo di Anneleise? Quante volte ci hai pensato dalla sala fino
a qui?»
Aveva
ragione, ovviamente ci aveva pensato, ma come era possibile non
pensarci quando Abigal se ne stava in agguato, facile da scorgere, nei
lineamenti di Galoth, così somigliante al proprio padre naturale da
ferire lo sguardo? Gli occhi scuri di Galoth e il naso perfetto di
Anneleise, il volto ovale di sua moglie e gli zigomi alti del suo
migliore amico, le spalle ampie del conte del Sirenmat e le mani
affusolate dell’imperatrice gli erano a tal punto insopportabili,
armonicamente combinati nelle fattezze di Abigal, da rendergli
difficile la vista e il ricordo degli originali.
Galoth
prese il suo silenzio come un assenso e continuò a rivolgerglisi con la
stessa acredine amara e stanca.
«Se
brami una bugia confortante, Sorot, dovrai inventarne un’altra.»
«Per
esempio?»
Evitò
di guardarlo in viso mentre gli rispondeva, le labbra piegate appena
nell’eufemismo di un sorriso; seduto scompostamente sul pavimento, con
la schiena poggiata al letto e lo sguardo incerto, rassegnato e un po’
triste puntato lontano verso il frammento di cielo contenuto dalla
finestra alle sue spalle, per la prima volta assomigliò davvero al
ragazzo che era stato per lui come un fratello.
«Fingi
di avermi perdonato.»
Furono
le parole di Herald il Traditore e non la sua spada ad uccidere Lerghen
il Giusto, ma eventi del genere sono relegati nella leggenda, perché
se le parole avessero avuto il potere di uccidere, Sorot lo sapeva, lui
sarebbe morto in quel momento. Perché a tormentarlo nel profondo, più
ancora del tradimento di Galoth, era il fatto di averlo perdonato. Non
era importato che gli avesse portato via, prima
ancora di decidere di concedersi a lei, l’amore della sua vita, né che
lei si fosse lasciata morire dopo essere stata respinta
definitivamente. Nel profondo del proprio cuore l’aveva sempre
perdonato; quello che non riusciva a perdonare era se stesso che non
avrebbe mai dovuto amarlo così tanto. Era per giustificare quel perdono
e non per desiderio di vendetta, che aveva cercato di ucciderlo,
finendo soltanto per stroncare la sua giovane seconda moglie, ma questo
a Galoth non poteva dirlo, così rimase in silenzio guardandolo fissare
altrove, cercando una risposta che temeva di non poter trovare.
«Sono
successe tante cose e non ho avuto nessuno a cui raccontarle. Siedi
accanto a me e fingi di ascoltare, fingi che ti importi ancora, non
della persona che ricordi, di me.»
Galoth
di Usen non avrebbe mai aggiunto “te ne prego”, ma Sorot lo sentì
aleggiare nella piega delle sue sopracciglia e si accorse con stupore
che, forse, lo stava torturando con il proprio silenzio quanto lui lo
torturava con le proprie parole. Avrebbe potuto cogliere il suo
suggerimento: raggiungerlo sul pavimento e parlare con lui come una
volta, non ci sarebbe stato nulla di degradante se solo avesse finto
che il proprio affetto fosse una bugia. Così, mentre Galoth continuava
a guardare altrove, sul volto la stessa espressione di quando gli aveva
confessato che suo padre aveva iniziato a picchiare sua madre per colpa
del colore dei suoi capelli, Sorot scivolò accanto a lui, poggiando la
schiena al letto e puntando lo sguardo verso le stesse stelle di Galoth
mentre le loro spalle si sfioravano appena.
«Non
sei venuto al funerale.»
Sorot
sussultò, pensando a tutte le pire che Galoth aveva innalzato e
chiedendosi a quale si riferisse; forse all’ultima, forse a tutte.
«Tu
non sei venuto a quello di Anneleise.»
Galoth
si voltò di scatto verso di lui, come se pronunciare il suo nome
contravvenisse a una qualche basilare regola non scritta.
«Non pensavo mi volessi.»
«Tu
mi avresti voluto?»
Riportò
con lentezza lo sguardo alla finestra e Sorot intuì che si vergognava
della risposta, per un attimo ebbe l'impressione che tutto sommato
fossero ancora più simili di quanto si ostinavano a credere.
«Mio
padre, Isolle, mio fratello, Merith, mia madre, Anel, muoiono tutti,
Sorot. Non resta nessuno.»
Fosse
stato sobrio non avrebbe mai palesato tanta cupa disperazione o forse
lo avrebbe fatto lo stesso, Sorot non avrebbe saputo dirlo, perché in
tutta la sua vita non l'aveva mai visto così infelice, sebbene,
infelice, Galoth lo fosse sempre stato. Fu tentato di dirgli che lui
era lì, tuttavia sarebbe stata una bugia, perché lui non c'era stato in
quegli anni, non era rimasto al suo fianco a guardare il fuoco
consumare tutte quelle pire e Galoth non era mai stato il genere di
persona capace di accorgersi di essere amato da lontano.
Non
riuscì a guardarlo, perché se l'avesse fatto non avrebbe potuto
impedirsi di abbracciarlo e piangere e questo un imperatore non può
farlo, nemmeno quando si suppone stia fingendo.
«Non
è andata come la immaginavamo, vero?»
E
come l'avevano immaginata, ridendo e cavalcando a perdifiato nei giorni
passati della loro gioventù! Piena di guerre, d'amore, di gloria e di
potere. Insieme. Dimenticandosi che c'è un solo trono d'oro nel
consiglio, un solo Eren per tutto l'impero, dimenticandosi per amore
della loro amicizia di quello che l'avrebbe fatta finire.
«Non
ho ottenuto quello che volevo, ma in fondo me lo aspettavo.»
«Curiosamente
le cose che ho ottenuto sono quelle che odio di più. Da quando sono
diventato imperatore tutto ha cominciato a precipitare.»
Non
l'aveva mai ammesso ad alta voce prima e gli parve che fosse un altro a
confessare nella notte quella verità amara, domandandosi come fosse
possibile che tante stelle si affollassero in un così piccolo ritaglio
di cielo e tante sofferenze in un così piccolo periodo di tempo; come
fossero finiti ad odiare le loro vite.
«Sarà
sempre così?»
«No.
Un giorno ameremo questo periodo della nostra vita che adesso
odiamo. Un giorno dovremo riappacificarci con noi stessi, se non
vogliamo impazzire.»
La
risposta lo lasciò stupito; sarebbe stata incoraggiante, forse, se
Galoth non l'avesse pronunciata con uno strano connubio di speranza e
sarcasmo, unito a quell'inclinazione particolare della voce che
dedicava alle citazioni.
«Chi
l'ha detto?»
«Mio
padre. Riesci a immaginartelo?»
No,
non ci riusciva. Ricordava Thorghil di Usen, assiso sul proprio seggio
di pietra con la stessa espressione ieratica delle statue degli antichi
imperatori e non riusciva proprio a figurarsi quell'uomo duro e austero
come le montagne pronunciare una frase del genere. In verità sapeva che
l'immagine che serbava di lui non era affatto veritiera; Galoth gli
aveva raccontato, ubriaco considerevolmente più di adesso, quanto suo
padre fosse prono a violenti, gelidi attacchi di collera, quanto
schiavo di una gelosia immotivata, dipingendo il quadro di un grande
guerriero sovrastato da demoni più grandi di lui. Era la prima volta,
tuttavia, che Sorot si trovava costretto ad attribuire a quella figura
distante e misteriosa un'ombra di umanità.
«E
cosa intendeva?»
Galoth
rise e Sorot colse nel suono tutto l'affetto rancoroso che portava a
suo padre; si domandò per un istante se non parlasse, ormai, anche di
lui con quel tono.
«Non
ne ho idea. Che dobbiamo accettare i nostri demoni e tenerceli. Che
siamo quello che siamo. Pensavo fosse solo una scusa, ma forse è vero.»
Gli
parve amaro ma equo, sarebbe stato persino pacificante se solo non
fossero stati quello che erano.
«E
c'è riuscito?»
Non
avrebbe saputo dire con esattezza perché gli importasse, ma Sorot
desiderava ardentemente saperlo.
«A
rappacificarsi con se stesso?»
Annuì
soltanto, voltandosi verso Galoth per osservare la sua espressione.
«Non
saprei dirti. Le sue ultime parole sono state per mia madre, erano
parole d'amore anche se non sono stato capace di sentirvi alcuna pace,
solo rimpianto.»
Una
smorfia di disprezzo increspò la nobiltà del suo profilo e Sorot seppe
che stava per confessare qualcosa di sgradevole.
«Non
le ho riportate. Credevo fosse impossibile amare qualcuno e fargli
comunque del male. Ironico, no?»
Galoth
si voltò per guardarlo negli occhi e Sorot dovette distogliere lo
sguardo, cercando di non pensare a quanto invece si finisca sempre per
ferire profondamente proprio le persone che si amano.
«E
lei non le meritava. Non dopo averlo avvelenato per due anni.»
Sorot
sgranò gli occhi per lo stupore, Galoth sorrise stancamente.
«Mi
aiuteresti ad alzarmi? Voglio stendermi a letto, mi sento uno schifo.»
Sorot
cercò qualcosa da dirgli, coltivando, forse scioccamente, la flebile
speranza che le parole giuste avrebbero potuto penetrare nelle loro
anime e saldarne le crepe laddove si erano spezzate. Non trovò nessuna
frase confortante, tuttavia, così si alzò, porgendogli il braccio.
In
realtà, si avvide, non aveva più bisogno del suo aiuto, ma glielo diede
comunque come risarcimento per le parole che non era riuscito a
scovare. Si sedette accanto lui sul grande letto, percependo il
materasso tremare sotto la coltre di lana quando Galoth vi si abbandonò
contro del tutto. Rimasero in silenzio per un tempo che gli parve
infinito, come se avessero esaurito tutto quello che potevano dirsi o
si fossero resi conto che tutte le parole del mondo non sarebbero state
sufficienti. Tuttavia, prima che Galoth si addormentasse, cullato dai
morbidi cuscini in seta di Darme, Sorot non poté fare a meno di porre
la domanda che quel momento di quiete aveva generato in lui.
«Dovremmo
amare i nostri demoni, quindi? Per rappacificarci con noi stessi?»
Galoth
non si sollevò ma, anzi, chiuse gli occhi, allargando le braccia per
occupare tutto l'ampio letto.
«Accettare
i nostri demoni. Li amiamo già, altrimenti non avrebbero alcun potere
su di noi.»
Sorot
lo fissò intensamente, un dolore diverso dal solito, più puro, più
calmo, a scuotergli lo spirito.
«Accettare
di amarli.»
«Siamo
ciò che siamo. Amiamo ciò che amiamo.»
Si
accorse di stare piangendo silenziose lacrime liberatorie; amava il
demone dagli occhi scuri che giaceva accanto a lui e, per la prima
volta nel corso di anni, riuscì a non farsene una colpa.
Indugiò,
taciturno e immobile, confrontandosi stupito con quei nuovi pensieri
mentre il respiro di Galoth si faceva lentamente più regolare. Sospettò
di essersi finalmente assolto e agognò un lungo sonno ristoratore.
Forse quel sentimento non sarebbe durato e all'indomani avrebbe di
nuovo odiato la propria vita, in quel preciso momento, tuttavia, si
sentiva in pace con se stesso e al riparo dalla pazzia.
«E
tu mi ami, Galoth, come ti amo io?»
Lo
sussurrò nell'oscurità prima di andarsene, sapendo che lui, ormai
addormentato, non avrebbe risposto.
***
«Più
di quanto tu possa immaginare.»
La
risposta non gli era uscita dalle labbra, il suo corpo già vinto
dall'immobilità del sonno, così la ripeté in quel momento alla luce del
mattino, chino accanto al corpo sanguinante di Sorot, fissando i suoi occhi azzurri ormai privi di sguardo. Non era una
menzogna, a Sorot non aveva mai mentito; aveva finito per fargli del
male infinite volte, ma non gli aveva mai mentito.
Da
giovane aveva pensato che non fosse possibile fare del male a qualcuno
che si amava, tanto meno amare qualcuno e ucciderlo, ora sapeva di
essersi sbagliato; aveva amato Sorot più di chiunque altro, ma questo
non gli aveva impedito di accompagnarlo durante la battuta di caccia e fracassargli il cranio. Avrebbe voluto abbracciare il suo
cadavere e piangere, ma aveva perso la capacità di farlo molto tempo
addietro, così rimase a guardarlo, scostandogli i capelli dal volto
simmetrico, attendendo che qualcuno accorresse al richiamo che aveva
lanciato.
Avevano
finto di perdonarsi solo la sera prima, ma la verità era che, per
quanto Galoth non avesse smesso di amarlo neppure per un istante, gli
uomini del Nord non erano fatti per perdonare. Il suo cuore fremeva
ancora al pensiero della bottiglia di vino avvelenato che era stata
recapitata alla sua tavola dieci anni prima. Sorot, il suo migliore
amico, non era stato in grado di perdonarlo e, per amore di una sciocca
ragazzina viziata, aveva cercato di liberarsi di lui ammazzandolo come
un ratto. Il suo amore non aveva fatto che alimentare quella collera
ardente e solo in quel momento, solo davanti alla morte, la sentì
scivolare lentamente fuori dalla propria anima, lasciandolo solo con il
proprio tormento e con il desiderio di sdraiarsi accanto a lui
sull'erba e morire a propria volta. Non lo fece, lo strinse soltanto
fra le braccia, udendo il suono di cavalli in avvicinamento. Ascoltò i
cavalieri approssimarsi e smontare di sella, ma non li degnò di
un'occhiata.
«Che
cosa è accaduto?»
Un
abominio, avrebbe voluto rispondere, una condanna, la propria. La bugia
del proprio padre si palesò ai suoi occhi, dopo quell'atto non avrebbe
più potuto rappacificarsi con se stesso, era destinato ad impazzire.
«L'imperatore
è morto.»
Note dell'autrice: Questa storia si è classificata
prima al concorso per cui è stata scritta "Un giorno ameremo questo
periodo della nostra vita che adesso odiamo..." indetto da (Gaea) sul
Forum di Efp, ottenendo la seguente valutazione:
65/65
Correttezza grammaticale: 5/5 punti
Per correggere le storie le ho lette un paio di volte, commentando in
rosso errori e cose non buone e in verde tutto quello che mi piaceva;
ecco, la tua storia ha un solo segno rosso ( non un errore ma una
scelta stilistica che non mi è piaciuta…salvo poi accorgermi di fare
sempre lo stesso quando scrivo XD) e un sacco di sottolineature verdi.
Sicché…
Stile e Originalità: 30/30 punti
Originalissima. Epica. Bella. Stile fantastico, non è facile scrivere
qualcosa di storico/fantastico rendendolo attuale ma allo stesso tempo
calato nel suo tempo. E poi ti prende davvero. I monologhi sono
perfetti, certe frasi penso me le appunterò da qualche parte perché
sono superbe. Soprattutto quelle dette da Galoth.
Caratterizzazione dei personaggi/del personaggio: 10/10 punti
Questi due tizi sono splendidi, egoisti, dolenti e eroici. Sembrano
rozzi regnanti, ma hanno l’animo più raffinato di molti filosofi. E
provano un amore disperato e tragico degno delle saghe più famose.
Sistemazione della citazione: 15/15 punti
Frase intera, inserita perfettamente, CAPITA perfettamente: la
spiegazione che dopo poco ne dà Galoth è il degno completamento. È
perfetto.
[ Si tratta come è intuibile della frase riportata in
corsivo. Tratta dal libro "Limit" di Frank
Schaetzing ]
Giudizio personale: 5 /5 punti
L’ho amata dalla prima lettura, ne ho amato personaggi. Meraviglioso.
La storia ha partecipato anche al concorso "
Storie da piangere" Indetto da Balckhole95 classificandosi seconda
Grammatica e lessico:10/10
Stile e lessico: 9,50/10
Originalità: 10/10
Gradimento personale:9,50/10
La storia ha partecipaeto al concorso "And the Winner
is..." ricevendo una nomination all'Oscar per la miglior coppia, Premio
speciale Lacrima d'oro
e vincendo l'Oscar al Miglior Dialogo con le seguenti
parole «Oltre alla estrema capacità stilistica dimostrata in questo
pezzo, l'intensità di queste poche battute colpisce immediatamente il
lettore, facendogli desiderare di leggere il pezzo ancora e ancora.
Trovo la frase: “Li amiamo già, altrimenti non avrebbero alcun potere
su di noi” assolutamente epica e del tutto vera»
|