In
My World And In My Heart
e
di Freddy Barnes e
EleMasenCullen
Chapter 18: Beautiful
Monster
POV Lucy
“E’tutto
il giorno che mi sto
massaggiando i polpastrelli”, pensai, constatando come il
dolore che aveva
assalito violentemente le mie povere dita stava ormai svanendo dopo
tutte le
attenzioni che stavo loro dedicando. Non avrei mai immaginato di
arrivare a
tanto, che mi sarei concentrata per una giornata intera unicamente a
far
passare un’ustione per non pensare, per non mettere in
funzione i neuroni già
stremati, per lasciare alle cellule del cervello un riposo dopo
l’intensa
attività che avevano avuto da quando ero stata segregata in
quell’antro oscuro,
dove a stento si riusciva a respirare.
Ormai, mi ero
abituata a
prendere, ad intervalli regolari, respiri lunghissimi, al fine
d’ immagazzinare
più aria possibile, per poi immergermi in una sorta di apnea
involontaria,
causata dal caldo asfissiante che, in quella grotta, regnava padrone
affiancato
unicamente da un buio fitto, rischiarato da una sola fonte luminosa.
Una
piccola fiammella tremolante irradiava dei deboli raggi di luce, che,
all’inizio, quando mi risvegliai la prima volta ritrovandomi
nell’antro
maledetto, mi sembravano insufficienti per illuminare
un’intera grotta; tuttavia,
con il passare del tempo, mi abituai alla scarsa luce ed iniziai a
trovare
addirittura sovrabbondante quella microscopica candela. Arrivai
addirittura a
pensare di essermi tramutata in un gatto, uno di quei bei micini che
riescono
tranquillamente a vagare nel buio senza necessitare di fonti che gli
illumino
il percorso. E arrivai addirittura alla conclusione che, se fossi
rimasta
rinchiusa lì per un tempo abbastanza
lungo,
sarei morta.
Avevo affrontato
più volte il
pensiero della morte, avendo a disposizione tutto quel tempo che poteva
essere
impiegato unicamente per riflettere (o massaggiarsi i polpastrelli,
come
scoprii dopo), pensando che i miei fratelli mi avevano dato sicuramente
per
morta, durante il mio lungo periodo di assenza.
E
l’idea che potessero
soffrire così tanto per me, che mi trovavo in quella cella
dalle pareti
invisibili per colpa mia, quasi avessi
scelto io il destino a cui ora ero condannata, mi faceva salire
prepotentemente
le lacrime agli occhi, che poi sgorgavano goccia dopo goccia, andando a
posarsi
sulla divisa scolastica che ancora indossavo.
Io lo sapevo bene
- oh sì, se lo sapevo bene - quanto il senso di
colpa e il rimorso fossero delle emozioni terribili, delle
consapevolezze
capaci di serrarmi lo stomaco per interi giorni senza concedere una
minima
tregua, un attimo di pace e di libertà.
No, loro erano
sempre lì,
onnipresenti assassini, voci infernali che sussurravano nelle orecchie,
fino all’asfissia,
fino a far cadere quasi esanime al suolo, senza forze.
Ricordavo come
avevo sofferto
quando, più di due anni fa, avevamo ritrovato il lampione
che ci aveva condotti
nel mondo degli umani, nella casa del Sig. Diggory, ricordavo sin
troppo
chiaramente come mi ero amaramente pentita di aver riconosciuto
quell’apparecchio
illuminante sebbene fosse ricoperto, allora, di rigogliose fronde
verdi. E
piangevo, piangevo perché non avrei mai desiderato seguire
il mio istinto ed
abbandonare Narnia, il Signor Tumnus, i Castori, tutte le creature che
vi
abitavano. Non avrei mai voluto lasciare la mia casa, il luogo in cui
riuscivo
a sentirmi veramente me stessa.
Ed ancora una
volta, mi
trovavo a pentirmi dell’impulso maledetto che mi aveva
portato a seguirlo, a stringere la sua
mano, a lasciarmi
condurre da lui fuori da scuola mentre la terra, irata e arrabbiata per
un
imprecisato motivo, tremava violentemente. Eppure, eppure quella
mattina non
avevo saputo resistere al richiamo della sua voce melodiosa, quando,
nella
confusione generale, aveva urlato a gran voce il mio nome, che non avevo mai
sentito pronunciargli, anche se avevo
tanto sognato che quelle sole quattro lettere potessero un giorno
uscire dalle
sue labbra perfettamente modellate, in un soffio dal profumo di
muschio.
I miei fratelli
avevano
ragione, in fondo. Per una volta, dovevo essere io a dar retta a loro.
Loro che
forse avevano già intuito tutto, sì, forse si
erano già resi conto da subito della
creatura mostruosa che si nascondeva dietro quel corpo perfetto, dietro
quell’atleta dell’antica Grecia, dalle guance
pallide e dalle labbra carnose e
rosee.
Un bellissimo
mostro, ecco
cos’era.
Mi tornavano alla
mente tutte
le lezioni trascorse con la testa voltata leggermente verso destra, per
poter
ammirare appieno la sua figura, distrattamente posata sulla sedia, la
testa reclinata
indietro e gli occhi chiusi. Non ero certamente la sola che si dedicava
a
quell’incantevole attività durante i corsi
scolastici: ogni ragazza della
scuola conosceva il suo nome, la sua bellezza divina e il suo
portamento
elegante. Perfino Susan dovette ammettere che aveva fascino, ma era
fermamente
convinta che si trattasse di uno scarafaggio travestito da uomo, invece
che
l’incarnazione moderna del dio Apollo, come lo si era
definito.
Non avevo osato
replicare a
mia sorella quando, una mattina, aveva fatto quella sprezzante
affermazione sul
suo conto: mi ero limitata ad annuire distrattamente, fingendo di
concordare
con lei e con il resto dei miei fratelli, che anche loro non vedevano
certo di
buon occhio quel “bambino che si crede un uomo
vissuto”, dicevano. Ed ogni
volta che lo dipingevano così, si apriva una fossa dentro di
me, una voragine
che mi risucchiava l’anima, tanto soffrivo: stavo male, stavo
male perché ero
sicura, ero convinta che anche lui potesse essere un buon ragazzo, in
fondo.
Che anche lui avesse un cuore. Ed io avevo frequentato i corsi di
Storia,
durante quel primo anno, cercando sempre e comunque la chiave che
potesse dar
accesso al suo mondo. Perché, certamente, doveva rifugiarsi
lì ogni volta che
faceva vagare lo sguardo perso per l’aula, ogni volta che
socchiudeva gli occhi
e si perdeva a riflettere … Ma forse, forse stava solo
escogitando alcuni modi
per apparire ancora più attraente, per far cadere sempre
più ragazze della
scuola ai suoi piedi.
Era un mostro.
Eppure, a
guardarlo appoggiato
lì, al dondolo di legno a pochi metri dalla candela, tutto
di lui continuava a
ricordarmi Narnia.
La pelle
chiarissima pareva
del colore della neve che mi aveva accolto la prima volta in cui avevo
trovato
l’accesso di quel mondo incantato e meraviglioso; negli
occhi, del colore dello
smeraldo, rivedevo le foglie di quel verde brillante che ricoprivano a
centinaia ogni albero di Narnia, quelle foglie che avevo visto danzare
cullate
dal vento, fluttuare nell’aria e poi ritornare, in gruppo,
sempre insieme. I
capelli neri, però, non mi dicevano nulla: Narnia non era un
posto fatto per il
nero. Narnia era il trionfo dei colori, dell’allegria, della
gioia, della
felicità, di…
Narnia.
Una goccia salata
sfuggì ancora
una volta al mio controllo, insinuandosi fra le pieghe della gonna
stropicciata.
Quanto avrei
voluto ritornare
nel luogo magico che sentivo da sempre appartenermi, far parte della
mia vita,
nel modo più assoluto: e invece, invece ero stata rinchiusa
dal mostro, lontana
da tutto e da tutti.
Cercai di
raccogliere la
lacrima che si era posata sulla divisa, ma non appena le due sole dita
con cui
sfiorai la piccola goccia salata vennero a contatto con essa percepii
nuovamente il dolore che mi aveva tenuto occupata nelle precedenti ore.
I
polpastrelli, evidentemente, risentivano ancora dell’ustione
che avevo preso,
mentre a tastoni agitavo le mani nel vuoto, per capire dove mi trovavo.
Solamente dopo essere stata invasa da quel male terribile alle dita,
realizzai
di essere in gabbia, proprio come un animale in trappola, una gabbia
invisibile,
però.
Ero una preda,
una preda di un
mostro bellissimo.
Eric.
***
POV
Caspian
Il silenzio e
l’apparente pace
statica, che sembravano racchiudere la foresta come in una bolla di
sapone, contrastavano
con il tumulto di emozioni che abitavano
il mio animo e che a stento riuscivo a controllare, quasi non mi
appartenessero
del tutto; un tumulto in cui si agitavano, sovrapponevano e
confondevano le
sensazioni più discordanti.
Era come se nella
mia anima si
fosse voltato un vento impetuoso che avesse fatto scatenare una
tempesta dentro
di me, ed io mi trovavo proprio nel bel mezzo di quel vortice
indomabile,
annaspando senza orientarmi: l’inquietudine, la paura, la
rabbia, l’agitazione
sembravano onde alte decine di metri che si accavallavano tra loro per
poi
infrangersi con forza su di me, opprimendomi, scuotendomi e
sottraendomi
addirittura il respiro.
Le energie che
stavo
riversando unicamente per tenere a bada quei cavalloni indomiti
cominciavano a
scarseggiare per il resto del mio corpo: seguivo passivamente le orme
di Peter,
avanzando, ma senza che il mio organismo ne avesse piena coscienza. E
man mano
che proseguivo quella marcia quasi obbligata, sentivo le gambe farsi
sempre più
pesanti, tramutarsi in macigni di pietra che riuscivo a stento a
sollevare.
Desideravo
sedermi, sedermi
per riprendere il fiato e il controllo di me stesso, del mio corpo e
della mia
mente, per cercare di porre fine alla tempesta che imperversava e
…
Un fremito
violento, una
potente scossa elettrica attraversò bruscamente la mia
schiena fino a giungere
in una frazione di secondo al collo, andando poi a sostituirsi ad
insistenti brividi
che mi scossero con veemenza.
Riuscivo a
percepire il sangue
caldo ribollire nelle vene e pulsare per tutto il corpo. Lo sentivo,
sì, lo sentivo arrivare fino alla
testa: era
come se riuscissi a vedere con i miei occhi l’abbondante
flusso color rosso
intenso insinuarsi fra le cellule nervose e procurarmi un dolore
persistente alla
testa, come se questa dovesse esplodere da un momento
all’altro in mille
frantumi.
E man mano che
l’immagine del
mio sangue si affacciava prepotentemente nella mia mente, avvertivo che
questa stesse
andando a prendere il posto del mio raziocinio. Eccola, la luce della
ragione come
una fiammella diventare sempre più fioca, più
pallida… Non si sarebbe estinta,
cercavo di convincermi, ottimista, mentre, tuttavia, un unico pensiero
iniziava
a tartassarmi come un manna.
Sangue.
Sangue.
Sangue.
Uccidere.
Il mio compito
era quello di
uccidere.
La dea Nemesi* mi
stava
sussurrando nell’orecchio, e io volevo, dovevo
obbedire al suo ordine: uccidere, uccidere per vendetta.
Colui che aveva osato, che aveva osato guardare
con
quegli occhi carichi di bramosia, che aveva osato sfiorare le labbra
della mia Susan, che aveva osato
percorrere
con quelle mani lerce la sua pelle nivea ed innocente, colui che stava
per… che
stava per…
Il solo
immaginare cosa
avrebbe seguito quel gesto già di per sé
spregiudicato non fece altro che aumentare
in modo esagerato il forte tremore delle mie mani, unicamente
desiderose di
afferrare una lancia, una spada, una balestra, solo per vedere scorrere
il
sangue di colui
che aveva osato.
“Devo
tornare indietro, devo
tornare indietro” , questa la voce che riecheggiava nei miei
timpani, stordendomi e ipnotizzandomi.
Sì,
aveva ragione, dovevo tornare
indietro.
Bisognava che
uscissi da
quella foresta maledetta, riacciuffassi quel biondo strafottente e
gliela
facessi pagare per ciò che aveva fatto. E se si fosse
giustificato che il tutto
era durato una manciata di secondi… oh, l’avrei
sistemato io, in una manciata
di secondi.
Sangue.
Sangue.
Sangue.
Uccidere.
Non era stato
sufficiente il
calcio che gli avevo sferrato mentre i due Pevensie si preoccupavano di
tirargli pugni in faccia e scostarlo dal corpo impotente della Dolce:
avrebbe
dovuto pagare con la vita, adesso.
Sangue.
Sangue.
Sangue.
Uccidere.
Eccolo. Lui. Era tornato.
Tra le immagini
indistinte che
si accavallavano alla mia vista sfocata, riuscii a intravedere la sua
chioma
bionda. Era voltato, ma ero certo si
trattasse di lui: sì, non poteva che essere lui.
Anche solo il suo
passo
cadenzato era sintomo di strafottenza, di arroganza, di
presuntuosità.
Dovevo ucciderlo.
D’un
tratto, mi resi conto che
stavo reggendo una spada affilata nella mia mano destra. Non mi
domandai, alla
vista dell’arma che impugnavo, come fossi riuscito ad
ottenerla, ma realizzai
soltanto che quella, quella sarebbe stata il mezzo, lo strumento con
cui avrei
troncato quell’infimo e insignante essere che si trovava
davanti a me.
L’istinto
omicida mi dettava
di avanzare, così avrei potuto sorprenderlo di spalle e
togliergli la vita
senza che nemmeno se ne accorgesse.
Il tremore alle
mani si stava
placando: con una presa forte e ferma, avrei potuto trafiggere meglio
l’avversario, non rischiando di sbagliare la mira a causa di
quell’insolita
alterazione che mi era presa.
Avrei potuto
bearmi del penetrante
odore del sangue del sergente: lo avrei colpito fino a quando avrebbe
grondato
quella viscosa sostanza rossa da tutto il corpo… e
finalmente, finalmente avrei
avuto la vendetta a cui anelavo.
Pochi passi ci
distanziavano:
compii un ampio arco con il braccio, sollevando la spada, per poi
riabbassarla
e…
“Caspian”
Susan.
Seguirono degli
attimi di
confusione totale: il vortice che si agitava– aveva sempre
continuato a
dimenarsi così tanto dentro di me? - iniziò ad
acquetarsi improvvisamente, fino
a quando le onde che mi figuravo nella mia mente scomparvero del tutto.
Anche
l’immagine del sangue, il desiderio smodato che avevo di
quella sostanza che
ora vedevo come disgustosa, si affievolì diventando meno
nitida: e, finalmente,
iniziai a riacquisire consapevolezza del mondo circostante.
Gli altissimi
platani e
sequoie, dalle fronde rigogliosissime, il buio, il silenzio, la totale
immobilità e staticità di quel luogo…
Susan, alla mia sinistra, Edmund, davanti
a me, e… Peter.
Impallidii
vistosamente rendendomi
conto che il Re Supremo camminava a pochi passi da me, e si trovava
esattamente
di fronte, voltato.
Reclinai la testa
leggermente
verso destra.
Era ancora
lì.
La spada con cui
volevo
uccidere il sergente che aveva aggredito Susan era ancora sospesa a
mezz’aria,
l’elsa impugnata con forza dalla mia mano, dalle nocche
pallide per la presa
fermissima.
Mi
mancò il respiro per un
attimo e lasciai cadere in quel frangente l’arma con cui
stavo per uccidere
Peter Pevensie: la lama compì una piroetta in aria, fino a
conficcarsi nel
terreno arido con un sordo tonfo che rimbombò per tutta
l’inabitata foresta.
Mi portai le mani
al volto,
vergognandomi di me stesso, provando un ribrezzo indescrivibile per il
gesto
blasfemo che ero sul punto di compiere: come avevo potuto? Come era
potuto
accadere che perdessi a tal punto il controllo di me stesso
e…
Non avevo mai
visto di buon
occhio Peter, dovevo pur ammetterlo. Anzi, lo avevo sempre considerato
uno
scocciatore di prim’ordine che si assurgeva a saccente e
sempre perfettamente
in grado di gestire e risolvere ogni genere di situazione con i suoi
soli
mezzi… e non potevo nemmeno negare che l’idea di
togliermelo di torno ogni
tanto non mi sarebbe dispiaciuta… Ma certamente non sarei
mai stato in grado di
ucciderlo. Mai.
Mi coprivo il
volto perché non
volevo vedere, non volevo vedere quella spada maledetta, non volevo
vedere
Peter, non volevo vedere … Susan.
Susan, colei che
mi aveva
fermato giusto in tempo prima che scaraventassi la mia ira e la mia
rabbia sul
Magnifico. Non osavo togliermi le mani dal volto, non osavo incrociare
i suoi
occhi color cielo con i miei, non avevo il coraggio di assistere alla
sua
reazione.
E rimanevo
lì, in piedi, immobile,
i palmi delle mani pressati sul viso a coprirmi gli occhi, la testa che
si
agitava convulsivamente a destra e a sinistra, quasi a non voler
ammetterlo
persino lei, lei che era stata la promotrice del mio gesto, quasi a non
volerlo
riconoscere, a discolparsi, accusando di ciò
chissà quale altra forza
misteriosa.
E avrei
continuato così per un
tempo molto lungo, se non avessi sentito, dopo poco, un soffice tocco
sopra le
mie nocche, delle mani che, delicatissime, scostavano le mie. Opposi
resistenza
in un primo momento, immaginando a chi appartenesse quel tocco morbido
e quasi
magico, ma poi fui costretto ad abbandonare il mio intento, lasciando
che lo
sguardo della Dolce si posasse sul mio.
Non vidi in
quegli occhi del
colore del turchese la rabbia e la severità che mi
aspettavo: piuttosto,
perplessità e anche preoccupazione.
“Caspian,
che cosa c’è?”,
sussurrò a un soffio dal mio viso.
L’esitazione
e il dubbio che
avevo letto nelle sue pozze chiare passò, dopo quella
semplice e inequivocabile
domanda di Susan, nei miei. Non capivo: forse Susan non si era resa
conto di
quanto stessi facendo poco prima che lei avesse chiamato il mio nome?
Farfugliai
qualcosa a
proposito del sergente biondo, della spada che mi ero ritrovato in mano
senza
sapere come, e avrei continuato con quella sfilza di frasi insensate,
se non mi
avesse bisbigliato un dolcissimo “E’tutto a
posto”, prima di prendere la mia
mano nella sua, invitandomi a seguire Edmund e Peter. I due fratelli
non si
erano accorti di nulla e, ignari, proseguivano la loro marcia,
addentrandosi
nel buio della foresta.
Mi svincolai
dalla presa della
Dolce, lasciandola sorpresa, e rimasi fermo dove mi trovavo, i piedi
saldamente
ancorati al terreno, la testa che aveva ripreso a ondeggiare
freneticamente da
destra verso sinistra.
“Tu non
capisci, non capisci!
Sono un mostro…” le sussurrai, mentre lei mi
veniva incontro, cercando di
rassicurarmi.
“Stavo
per uccidere tuo
fratello… “ mormorai dopo alcuni istanti di
silenzio, senza riuscire a
guardarla negli occhi.
Seguì
un silenzio tombale che
mi sembrò protrarsi per anni. Forse il tempo aveva deciso di
fermarsi in quei
secondi, per farmi pesare ancora maggiormente quell’attesa
sfibrante, forse…
“Raggiungiamo
gli altri” mi
disse. Percepii la sua voce incrinarsi, mentre concludeva la frase, e
mi prese
una tremenda morsa al cuore, un dolore atroce e acuto che avvertii
proprio
all’altezza del petto. Mossi le labbra nel tentativo di
farfugliare qualcosa da
replicarle, ma lei mi aveva già voltato le spalle e aveva
iniziato a camminare
in direzione dei suoi fratelli, lentamente, però, forse
nella speranza che la
raggiungessi in poco tempo.
Prima di correre
per riuscire
ad affiancarla, osservai con sguardo ostile l’arma piantata
ai miei piedi, e
decisi di riprenderla, nonostante fosse ancora metaforicamente
impregnata del
sangue che stavo per versare. Chiusi gli occhi e cinsi l’elsa
in un pugno, fino
a sollevarla, ma solo in quei pochi secondi venni scosso nuovamente da
quel
fremito iroso, che mi aveva pervaso non appena avevo perso il controllo
della
mia mente. Eccola, quella scossa maledetta, la causa del delitto che
stavo per
compiere.
Scaraventai con
foga l’arma ed
iniziai la corsa per raggiungere Susan, che, nel frattempo, mi stava
aspettando
pochi metri più avanti.
***
“Non
eri padrone di te stesso…
Sono sicura… Che non lo volevi fare”, proruppe
Susan dopo quasi un’ora di silenzio,
un’ora trascorsa unicamente ad avanzare esplorando i meandri
della foresta e ad
ascoltare il mio dettagliato racconto di quanto mi era successo prima.
Non aveva
proferito parola,
dopo avervi domandato di descriverle cosa mi era accaduto: accolsi con
gioia la
sua proposta, nutrendo la speranza di potermi così
riscattare dalla condizione
in cui mi trovavo non appena Susan mi aveva voltato le spalle:
condannato a non
ricevere il perdono della fanciulla padrona del mio cuore. E per quanto
mi
desse conforto confidarmi con lei, rivelarle apertamente la paura che
mi aveva
attanagliato con una stretta dolorosa, nello stesso tempo mi trovavo
incatenato,
inerme, la spada di Damocle sospesa sopra la gola: tutto sarebbe dipeso
dal
giudizio di Susan, colei che avrebbe potuto concedermi la grazia della
beatitudine, ma anche colei che avrebbe potuto togliermela, con una
sola
parola, facendo precipitare su di me quell’arma e annegandomi
in una pozza di
dolore.
Misuravo e
soppesavo
continuamente le parole che le rivolgevo, il tono con cui le proferivo,
i gesti
che accompagnavo per meglio spiegarmi: tutto era oggetto di un
intransigente
controllo. Non volevo addossare le colpe del mio comportamento
unicamente alla
forza che si era impadronita della mia mente, sottraendomene il
controllo,
tuttavia non era nemmeno mia intenzione che il parere di Susan fosse
troppo
negativo, che mi considerasse come un apprendista assassino e per
giunta pazzo.
Ma forse in quei
minuti di
angoscia e preoccupazione avevo dimenticato quale fosse
l’attributo che le
avevano affibbiato a Narnia, la Dolce.
E lei, rivolgendomi quelle parole in modo così delicato, con
quella voce che sembrava
un incantevole sinfonia, lei aveva finalmente impugnato
l’elsa della spada di
Damocle e l’aveva scaraventata via, lontano da me. Mi aveva
perdonato.
“Grazie”,
le mormorai
realmente commosso, accompagnando quella semplice e spontanea parola
con un
altrettanto genuino sorriso, un sorriso carico di gratitudine e di
riconoscenza.
Mi sorrise a sua
volta, Susan,
evitando però di incrociare troppo a lungo il mio sguardo,
posato sulla sua
angelica figura. Notai che l’attenzione che le stavo
dedicando cominciava ad
imbarazzarla e forse ad infastidirla (forse rivedeva nel mio sguardo
quello
bramoso e insaziabile del sergente?), e decisi quindi di focalizzarmi
unicamente sul percorso.
Sembrava che
stessimo
procedendo sempre per lo stesso, interminabile tratto: gli alberi
slanciati che
si susseguivano avevano l’aria di essere tutti uguali e il
panorama diventava
quindi non solo pauroso e tenebroso ma ora anche ripetitivo e monotono.
Certo,
non si poteva affermare che la compagnia che mi era stata concessa in
dono lo
fosse altrettanto…
“E’da
ore che camminiamo,
Peter! Penso che fermarci converrebbe, sarebbe utile sia alla nostra
salute fisica
sia a quella mentale!”
Susan
cercò di convincere
nuovamente suo fratello a fermarsi: lei si era dimostrata da subito
favorevole a qualche sosta, “serviva a
recuperare energie”, sosteneva, ma il biondo non sembrava
essere della sua
stessa opinione. A detta sua, dovevamo avanzare fino a quando non
fossimo stati
stremati, fino a non svenire inermi al suolo, perché
dovevamo necessariamente
rintracciare il segnale luminoso che ci aveva condotti in quel luogo il
più
presto possibile. In un primo momento, la Dolce non aveva obiettato
molto al
fratello, ma adesso, forse, la stanchezza cominciava a diventare
insopportabile, e la sua esigenza di far fronte al Magnifico
inevitabile.
“L’ho
studiato, era scritto a
grandi lettere nel mio libro di scienze!” ritenne necessario
aggiungere la
ragazza, augurandosi di trovare un valido sostegno nel testo scolastico
da lei
citato. Ma, evidentemente, si sbagliava, perché a Peter non
sembrò che questo
particolare potesse avere grande importanza e replicò alla
sorella con un secco
ed inequivocabile “NO”, scandendo con enfasi le due
lettere che componevano la
perentoria affermazione.
Susan
sbuffò sonoramente,
incrociando le braccia sopra il petto, innervosita
dall’irremovibilità di Peter.
“Sono stanca!”, ribadì per
l’ennesima volta, tentando di usare un’intonazione
della voce che rispecchiasse la condizione da lei denunciata a gran
voce.
Ma se a Peter
quell’affermazione non sembrò proclamare nulla di
nuovo, il mio cervello si svegliò,
sentendo quella frase sul suo affaticamento: quelle due parole fecero
balenare
nella mia testa un’idea che in una manciata di secondi
ritenni assolutamente
geniale, e, anzi, fui non poco meravigliato della lentezza che avevo
avuto per
rielaborare una simile soluzione al suo problema.
“Ti
porto in braccio”
Semplice. Chiaro.
Con un tono
che non ammette repliche. Un ordine, in poche parole.
Susan
indugiò un attimo alle
mie parole, fermandosi del tutto, un’espressione sul suo
volto che oscillava
fra lo smarrimento e lo sbigottimento, mentre tentava di elaborare
quanto il
suo apparato acustico era riuscito a captare.
Ma io non avevo
affatto
intenzione di darle il tempo sufficiente perché mi
comunicasse cosa ne pensasse
della mia brillante – e inaspettata, a giudicare dal suo
volto – proposta:
conoscendola, sarebbe stata capace di declinare il mio invito
– che di invito
non aveva proprio nulla - adducendo qualche banale scusa infondata, e
ciò non
doveva assolutamente accadere.
Senza un attimo
di esitazione,
la affiancai facendo solo un passo laterale, mentre con un gesto fluido
cinsi
la sua vita sottilissima con il mio braccio, per poi far scorrere
l’altro fino
all’altezza delle ginocchia, curvandomi leggermente verso il
basso. Con uno
slancio, sollevai le sue gambe da terra e la misi infine in posizione
orizzontale, sistemandomela meglio tra le mie braccia e avvicinandomela
al petto.
Fui talmente rapido e preciso nel compiere quella serie di meticolose
operazioni che Susan non sembrò cogliere
l’articolato processo che precedette
il ritrovarsi in un baleno vicinissima a me.
“Ma
Caspian, che stai
facendo?”, mi domandò, ancora sconvolta ed
attonita, un vistoso rossore che le
tingeva le gote un po’accaldate probabilmente per
l’imbarazzo.
“Rimettimi
giù! Sono troppo
pesante, e poi tu sei stanco, e … “
Cercava di
divincolarsi tra le
mie braccia, ancora ignara di quanto la mia presa fosse ferma e salda,
senza
sapere che ogni suo movimento per liberarsi e per sottrarsi a me non
faceva
altro se non favorire l’avvicinamento dei nostri corpi.
Quando finalmente
si rese
conto di non avere più via di fuga e constatò
amaramente come i suoi tentativi
fossero vani, incrociò con uno sbuffo le braccia al petto,
stavolta stizzita più
per le mie risa piuttosto che realmente scocciata dall’idea
che avevo avuto.
Continuai a
ridacchiare di
sottecchi per un altro po’, interrotto ogni tanto solo da
qualche occhiata
fintamente gelida di Susan, che seguitava a scuotere la testa e a
sospirare.
“Riposa,
dai”, le sussurrai poi
ad un soffio dell’orecchio, il sorriso sempre dipinto sulle
mie labbra.
“Come
faccio se continui a
ridere?” replicò lei, fulminandomi con il solito
sguardo, che mi proponevo di
imparare a decifrare e scrutare sempre meglio.
“Non
rido più, promesso” le
assicurai, accompagnando quell’ impegno con
un’espressione seria e solenne che
suscitò le risa della Dolce, la quale sembrò
convinta della mia parola: si
sistemò infatti meglio fra le mie braccia, voltando la testa
e appoggiandola
lentamente al mio petto, proprio lì, dove si trovava il mio
cuore.
“Scusami
e… grazie”, mi
bisbigliò poi, alludendo probabilmente al comportamento poco
cortese che aveva
avuto negli ultimi giorni passati nel campo.
Ma io quello
l’avevo già
dimenticato.
Riuscivo a
percepire come finalmente
cominciava a rilassarsi: il suo corpo si era fatto meno rigido e i suoi
respiri
più lenti e regolari ed anche il rossore che aveva colorato
le sue guance era
quasi del tutto scomparso.
Era bellissima
lì, così,
dolcemente raggomitolata tra le mie braccia. Sembrava un cucciolo
abbandonato
che aveva bisogno di protezione ed io, in quel momento, ero proprio
ciò di cui lei
necessitava.
E non mi
meravigliai che dopo
poco, chiusi gli occhi, si abbandonò ad un pacifico sonno
ristoratore, a cui
anelava da tanto tempo dopo la scomparsa di Lucy.
E dopo tutto quel
tempo in cui
avevo aspettato un momento simile, riuscii a sentirla finalmente mia.
*La dea Nemesi:
espressione
metaforica (mmm…) con cui si indica la Vendetta.
Angolo
delle autrici (che paroloneeee! xD)
*E
dopo un mese di libertà assenza,
ritornano Federica e Elena lanciando
zucchero e barattolini di miele a
volontààà*
Ehilàààà,
bella gente del fandom di Narnia! Masssalve!
Che
piacere rivedervi così presto xD Visto come siamo state
brave ad aggiornare
solo dopo un mese e quattro giorni?! Va bene, va beneee, non
è
poco, ve lo
concediamo, ma possiamo dire a nostra discolpa – come abbiamo
già comunicato ad
alcuni di voi nelle risposte alle recensioni – che siamo
state in vacanza e
quindi non abbiamo potuto usufruire del computer per dedicarci alla
nostra
tanto amata attività. In compenso, però, al mare
ci siamo fatte delle belle
nuotate e, esplorando il meraviglioso fondale marino, abbiamo trovato
tanta
ispirazione e… tanto zucchero e miele! xD Ma
d’altronde, lo dice anche
Sebastian nella celeberrima canzone de “La
sirenetta”! (“In fondo al maaaaar,
in fondo al maaaaaar, l’ispirazione, zucchero e miele si
troveraaaan! xD xD) …
! xD Ecco a proposito dimenticavamo di comunicare ufficialmente che in
fondo al
mar ci abbiamo pure lasciato quel poco cervello di cui disponevamo,
quindi
d’ora in poi dovremo farne a meno (si sarà
già notato, ci sa tanto xD)
Cooooomuuuunque,
non perdiamoci in chiacchiere! L’importante è che
adesso siamo tornate e siamo
cariche di tanta allegria, felicità e buon umore! =)
Prima
di tutto, un avviso molto importante: d’ora
in poi porteremo avanti la fic in UN SOLO ACCOUNT, QUELLO DI
EleMasenCullen,
dal momento che l’amministrazione ha eliminato la copia
contenuta nell’account di Freddy Barnes, poiché si
può disporre di una sola
copia nel sito anche se la storia è a quattro mani. Per le
recensioni che ci
avete lasciato in quell’account, non temete, riusciremo a
recuperarle e
recupereremo anche le risposte ai commenti che vi dobbiamo! Ci scusiamo
con
tutti del disagio causato da quest’eliminazione, sperando
vivamente che
continuate a seguirci anche se la fan fiction sarà
unicamente su questo account
^^
Passiamo
invece al capitolo, ora. Duuuuunque, il titolo: Beautiful monster.
Okay, non è
molto azzeccato, lo sappiamo (come d’altronde quello dello
scorso capitolo,
infatti ci proponiamo di cambiarlo, perché.. beh,
perché non c’entra un tubo
.__.), però eravamo troppo partite da quest’idea
quindi ci dispiaceva
abbandonarlo! xD E poi, vorremmo precisare che anche Caspian nel suo
Pov si
definisce mostro, per il gesto brillante scellerato che stava per
compiere, perciò lui
sarebbe un Beautiful monster pure luiiiiii! xD
Va
beh va beh. Detto questo, speriamo che il Pov Caspian si sia capito,
perché è
molto confusionario, ma volutamente, dal momento che, come si spera si
sia
intuito, il nostro amato re non era molto padrone di se stesso dopo
aver messo
piede nella foresta… Bah, stranezze della vita. Per non
parlare della spada,
naturalmente. Ma non corriamo troppo, ogni cosa a suo tempo *si
atteggiano a mo’
di piccole Aslan* … In ogni caso, se doveste aver perso
qualche passaggio
relativo a quanto è successo, non esitate a chiederci
spiegazioni, ve le daremo
molto volentieri! =)
Inoltre,
Lucy. Eeeeeggià, la nostra piccola Valorosa non è
morta, a quanto pare. Per
ora, si intende. *modalità sadiche: on* …
Perdonate anche se
la parte dedicata a lei vi appare un
po’confusionaria, vi abbiamo voluto dare solo input che
approfondiremo meglio
nel corso della storia. ^^… E che dire poi del nuovo
personaggino che è
comparso per la prima volta in questo capitolo?! Non sottovalutatelo
perché
ritornerà ancora, sì sì…
Comunque, nonostante questa nuova comparsa, non
riteniamo necessario aggiungere l’informazione
“Nuovo personaggio” nella scheda
iniziale della nostra fic, dal momento che si limiterà ad
essere un personaggio
secondario, i protagonisti rimangono sempre i cari Pevensie e quel bel
pezzo di
Re. xD
Abbiamo
scritto un sacco quest’oggi, ma prima di lasciarvi in
pace ci
tenevamo a ringraziare tutti coloro che ci
recensiscono, quelli che hanno aggiunto la nostra fic alle preferite,
seguite e
ricordate. Dulcis
in fundo, volevamo
dedicare questo capitolino alle nostre TheGentle95
e LadyVampira93,
per ringraziarvi di tutto il sostegno che ci avete dato
fin ora con i vostri commenti e ovviamente perché siete le
nostre più sfegatate
fan della coppia Suspian, con la speranza che la scena fra i due
piccioncini a
fine capitolo vi sia piaciuta =)
Grazie
mille a tutti della pazienza, al prossimo capitolo!
Un
bacione,
Federica
e Elena <3
PS:
Credits per il titolo a Ne-Yo,
Beautiful
Monster.
^^
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