Illusions, dreams and Farplane
[
Terza classificata
al contest «Just a Yaoi Wish!»
indetto da Akira Haru Potter ]
Titolo: Illusions,
dreams and Farplane › Breaking
the World 1.5
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale
Coppia/e: Stephen
O’Neal
/ Jonathan Wilson
Lettera e numero scelto:
Lettera J › Chiavi
arrugginite / Numero
8 › Color
limone
Tipologia: Doppia
One-shot
Genere: Drammatico,
Romantico (Dipende molto
dai punti di vista e dall’idea di romantico), A tratti
vagamente introspettivo, Malinconico
Rating:
Giallo / Arancione
Prompt per la challenge:
18° Argomento: Futuro › Desiderio
Avvertimenti: Slash,
Vagamente - o forse
anche troppo - nonsense
Nota1: Spin
off
della storia Breaking
the
World
Nota2: Nel
corso
della storia potrebbero
essere presenti espressioni come “Aye” e
“Nay”, che significano rispettivamente
“Sì” e “No” in
italiano, e “Och”, che è un rafforzativo
del “Sì”. Esse non sono
un errore, bensì una scelta personale dell’autore,
ormai affezionatasi a tale
dicitura.
Nota3: La
prima
parte della seguente
storia è ambientata tra la fine del terzo e
l’inizio del quarto capitolo di Breaking
the
World,
precisamente durante gli avvenimenti accennati in
quest’ultimo.
La
seconda parte, invece, non si ricollega ad avvenimenti precisi,
bensì è un
frammento intuibile solo da chi ha letto anche il quinto capitolo del
racconto.
Introduzione: Even if this is
an illusion shown by my left eye, I won’t stop believing.
Non
mi ero mai soffermato sul pensare a cosa avrei potuto chiedere se mi
fosse
stata concessa la possibilità di realizzare un mio qualsiasi
desiderio. Se
fosse stato davvero fattibile, però, avrei sicuramente
chiesto che
quell’incidente in cui ero stato coinvolto non capitasse,
così da poter
continuare la mia carriera da giocatore di baseball ed evitare quei
miei
strambi viaggi nel tempo.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
ILLUSIONS, DREAMS AND FARPLANE [1]
Even if this is
an illusion shown by my left eye,
I won’t stop
believing.
Non mi ero mai
soffermato sul pensare a cosa avrei potuto chiedere se mi fosse stata
concessa
la possibilità di realizzare un mio qualsiasi desiderio. Se
fosse stato davvero
fattibile, però, avrei sicuramente chiesto che
quell’incidente in cui ero stato
coinvolto non capitasse, così da poter continuare la mia
carriera da giocatore
di baseball ed evitare quei miei strambi viaggi nel tempo. Era
ciò a cui
pensavo mentre aspettavo Stephen, seduto su una di quelle sedie di
plastica
nella sala attigua allo studio di Dawson Morrison, il vecchio legale
della
famiglia O’ Neal.
Quella era già la seconda
volta che
andavamo a trovarlo, ma Stephen si guardava bene dallo spiegarmi il
perché. Non
che mi aspettassi che lo facesse, d’altronde; sapevo bene che
quell’uomo,
sebbene ne avesse l’aspetto, non era il mio miglior amico e
non mi doveva
nessuna spiegazione. Per lui ero soltanto una sottospecie di
semisconosciuto
che gli era piombato in casa meno di quattro giorni prima.
Dopo quella che mi sembrò
l’ora
più
interminabile della mia vita, tanto che avevo quasi rischiato di
addormentarmi
su quella sedia, mi sentii picchiettare la spalla e alzai lo sguardo,
incontrando il viso di Stephen. Aveva un’espressione che
avrei definito a dir
poco contrariata, ma non avevo intenzione di indagare sul
perché, giacché avevo
imparato che quell’aria burbera che aveva non era soltanto
una facciata. «Andiamocene,
forza», mi esortò, facendo un cenno verso
l’ingresso prima di cominciare ad
incamminarsi da solo, senza aspettarmi.
Mi sgranchii braccia e gambe e lo seguii
svelto, scroccando anche il collo mentre di tanto in tanto gli gettavo
qualche
occhiata. Gli occhi verdi erano quasi ridotti a due fessure e
bofonchiava fra
sé e sé a labbra serrate, difficile
però capire esattamente cosa stesse farfugliando.
Persino il modo in cui camminava lasciava trapelare il suo nervosismo,
e
probabilmente non me ne sarei nemmeno dovuto meravigliare.
«Lì dentro
è successo
qualcosa?»
domandai di getto, guadagnandoci qualche mezza imprecazione prima che
lui
appuntasse lo sguardo su di me, nervoso.
«Niente»,
sbottò.
«Non
è successo niente
di niente».
Niente, certo. Per chi mi aveva preso?
Ma
non insistetti, anche perché non sarebbe servito. Quel lato
del suo carattere
era identico a quello del mio amico Steve: testardo fino alla fine.
Quella sua
sottospecie di sosia mi stupiva ogni giorno di più.
Restammo in silenzio per
tutto il tragitto, attraversando strade e viali innevati ghermiti di
gente.
Sebbene non fossi realmente sicuro del mese in cui ci trovavamo,
quell’atmosfera
che si respirava era simile a quella carica d’attesa del
Natale: ero più che
certo che non fosse quel periodo, visto che in giro non c’era
nessun addobbo,
però sarebbe anche potuto mancare un mese senza che io lo
sapessi. Veniva da
chiedersi perché non lo domandassi direttamente a Stephen,
ma avevo ormai
deciso di restare all’oscuro di quel particolare. Era forse
stupido credere che
saperlo avrebbe potuto provocare un paradosso? Probabile.
Quel che era certo, però, era
che i
volti sorridenti delle persone che incontravamo sembravano farci
dimenticare
momentaneamente il problema in cui eravamo coinvolti, e non era affatto
una
cosa del tutto positiva. La miniera era ancora un’incognita,
ma dal momento in
cui c’era stata quella sparatoria in casa ero più
guardingo di Steve. Mi
preoccupavo più io della sua vita che lui, il che mi
sembrava quasi assurdo,
visto che lui faceva di tutto per tenermi fuori da quella questione.
Sebbene
gli avessi spiegato cos’ero capace di fare e
perché mi ero dunque ritrovato nel
suo giardino, non mi credeva ancora del tutto. E la situazione stava
cominciando a diventare un tantino snervante.
Quando passammo dinanzi alla vetrina di
una libreria mi fermai ad osservarla, poggiando su di essa i lati delle
mani
per dare una scorsa all’interno sotto lo sguardo stranito e
scocciato di
Stephen. La vasta gamma di titoli presenti mi illuminava gli occhi,
quasi fossi
stato un bambino che scartava i propri regali la mattina di Natale.
C’era
persino La sposa di
Lammermoor [2],
il libro
preferito del mio Stephen.
«Ehi, muoviti», mi
richiamò
il sosia di
Steve. La sua voce era scostante e mesta, come se in quel momento la
sua testa
fosse altrove. «Dobbiamo andare in un posto».
Mi lasciai sfuggire un lungo lamento
mentre mi allontanavo - con una certa delusione, bisognava aggiungere -
dalla
vetrina, lanciando a Steve un’occhiata. «Non da un
altro avvocato, spero»,
dissi, vedendolo scuotere di poco il capo prima di rimettersi in
cammino. Non
mi disse il luogo in cui eravamo diretti, però mi limitai
semplicemente a
scrollare le spalle, seguendo le impronte lasciate dalle sue scarpe
nella neve.
Il freddo non era intenso come gli altri giorni, però
piccole nuvolette di
vapore si condensavano in aria ogni qual volta aprivo la bocca.
Attraversammo quello che portava il nome
di quartiere Mayfair, dove le persone cominciavano già a
scarseggiare a causa
dell’umidità e della maggior presenza di neve. Era
un bel posto, non c’era
alcun dubbio, e ricordava quasi quei luoghi un po’
all’antica che ero abituato
a vedere solo nei vecchi film anni ’50. In una stagione come
la primavera, poi,
sarebbe sicuramente stato un gran bello spettacolo grazie alla
vegetazione
presente, giacché sembrava quasi di trovarsi in un giardino
su vasta scala.
Sorpassammo un paio di villette a due
piani circondate da siepi che delimitavano il territorio, svoltando a
destra
per raggiungere invece quelle case condominiali tipiche di Londra, dove
il
proprietario affittava camere che sembravano veri e propri
appartamenti. Avevo
cominciato ad avvertire al tempo stesso uno strano brivido serpeggiare
lungo la
mia spina dorsale, e in un periodo come quello non era mai un buon
segno quando
capitava. Stava soltanto a significare che c’era qualcosa che
non andava, e
forse non ci voleva un indovino per capirlo.
Fino a quel momento non avevo fatto
nessuna domanda, però me ne lasciai sfuggire una quando
Steve estrasse dalla
tasca del giaccone un paio di vecchie chiavi. Sembravano parecchio
arrugginite
e incrostate di sangue - e sperai fosse solo l’impressione
che dava quel colore
bruno-rossiccio -, e le guardava assorto nel palmo della mano, quasi
avessero
per lui un valore particolare.
«Dove siamo?»
domandai, vedendo lui
trarre un lunghissimo sospiro prima di stringere forte quel mazzo di
chiavi.
«Sean abitava qui»,
sussurrò,
alzando
gli occhi per osservare attentamente quella casa di mattoni gialli che
ricordava un grosso limone. Le finestre erano opache, come se nessuno
le
pulisse ormai da tempo, ed ero sicuro che, se non ci fosse stata la
neve,
l’erba sarebbe stata alta fin quasi lo steccato dipinto di
azzurro. «Il suo
appartamento era al piano di sopra. L’aveva affittato per
mostrarsi
indipendente agli occhi di nostro padre, volendo vivere come un
semplice
ragazzo che si pagava da solo gli studi», a quel suo stesso
dire sorrise un po’
tristemente, quasi si stesse perdendo nei propri ricordi, «e
ha vissuto qui
anche dopo aver terminato Oxford, andandosene solo una volta sposato.
Quella
stronza di Margaret non gli ha permesso di portare niente di suo, nella
nuova
casa. E lui lo ha accettato. Lui, lo Sean che non si sarebbe mai
separato dalla
sua collezione di dischi in vinile dei Beatles [3],
aveva
accettato quella condizione senza fare storie». Strinse
più forte la mano a
pugno - tanto che non appena l’avesse aperta si sarebbe di
sicuro ritrovato
l’odore di ruggine e lo stampo delle chiavi sul palmo -,
voltandosi appena
verso di me. «Dawson non poteva scegliere momento peggiore
per darmi queste
stupide chiavi». Guardò nuovamente la casa,
raschiandosi il labbro inferiore
con i denti. «Già, non poteva scegliere momento
peggiore».
La malinconia che trasparì
dalla sua
voce fu capace di stringere il mio cuore in una morsa,
giacché potevo benissimo
capire cosa stesse provando in quel momento. Io non avevo mai avuto
fratelli,
ma mio padre era morto in seguito ad un infarto sette anni prima,
dunque potevo
comprendere il dolore della perdita. Avevo ancora mia madre, certo, ma
non
avevo la minima idea di dove fosse. L’ultima volta che
l’avevo sentita si
trovava nell’Ohio, però era famosa per il suo
sparire nel nulla in pochi
giorni. Forse questo era stato uno dei motivi per cui mi ero legato a
Stephen:
anche la sua infanzia non era stata delle migliori.
Mi avvicinai a quello Steve e gli
poggiai una mano su una spalla, stupendomi che non l’avesse
allontanata.
Guardava invece quella casa, verso le finestre del secondo piano,
estraneo al
freddo che cominciava a calare e a tutto ciò che gli
capitava intorno. «Forse
ci converrebbe rientrare», gli dissi piano, non volendo
disturbare quel momento
di quiete che ci aveva avvolto. «Sta cominciando a far
freddo».
Non mi rispose ma, dopo aver abbassato
brevemente le palpebre, si ritrovò ad annuire, trovando il
coraggio di dare
finalmente le spalle a quella casa per lasciare lì i suoi
ricordi. Anche se non
lo dava a vedere, sapevo che soffriva già abbastanza senza
che si perdesse nel
suo passato.
Sulla via del ritorno non ci soffermammo
su niente in particolare, osservando di tanto in tanto gli oggetti
esposti
nelle vetrine dei negozi senza un reale interesse, per nulla vogliosi
di
intavolare un qualche discorso. Quella visita a quel vecchio
appartamento,
sebbene non ci fossimo entrati, aveva scombussolato anche il mio animo,
non
soltanto il suo. E non era strano che mi ritrovassi a pensare che, in
fin dei
conti, quello Stephen non era poi tanto diverso dal mio miglior amico.
Il suo
modo di porsi era diverso, questo non lo negavo, ma nei meandri del suo
cuore
albergava un frammento dello Stephen O’Neal che avevo sempre
conosciuto, quello
Steve che adorava Star Wars e che aveva una cotta per i picchiaduro. Lo
Steve
che avevo imparato ad amare.
A distrarmi da quei miei pensieri, fu
l’entrata di una macchina nel mio campo visivo. In essa non
c’era niente di
così strano, in realtà, a parte forse il colore,
che ricordava un limone maturo
proprio come la casa che avevamo da poco lasciato. Io e Stephen
procedevamo sul
marciapiede in direzione dell’Illusions,
e fu quando vidi quell’auto venirci in contro che sentii che
qualcosa non
quadrava; prima ancora che potessimo rendercene conto la macchina
sgommò,
scivolando sul ghiaccio che ricopriva i lati del marciapiede per
puntare dritta
verso di noi. Lo stridio dei freni fu così forte da
trapanarmi il cranio, e
riuscimmo ad evitare quell’auto solo per un soffio,
gettandoci sulla neve nello
stesso istante in cui la vettura si schiantò contro un
edificio alla nostra
destra.
L’urlo sconnesso di una donna
mi riempì
le orecchie, e boccheggiai mentre mi issavo a fatica, cercando di
riordinare i
pensieri nella mia mente stordita dallo shock; non mi accorsi neanche
della
mano di Steve che afferrava la mia per aiutarmi a rimettermi in piedi,
né tanto
meno delle parole sconclusionate che lui e la gente che aveva assistito
stavano
pronunciando. Era come se mi trovassi in una bolla di sapone: attutiva
i suoni
ma era al tempo stesso pronta ad esplodere.
«Ehi, tutto okay?»
mi venne chiesto da
qualcuno, e fui solo quando fui certo di aver capito bene la domanda
che
risposi, limitandomi a fare un breve cenno affermativo con la testa. Mi
aggrappai inconsciamente alle spalle di Stephen, quasi rappresentasse
per me
un’ancora in mezzo a quel caos che imperversava nel mio
cervello, giacché avevo
la terribile sensazione di aver già vissuto una scena
simile. Cosa poteva mai
significare? Non lo sapevo, ma quando sentii anche il suono delle
ambulanze
quella stessa sensazione aumentò, lasciandomi letteralmente
senza fiato.
Venni trascinato via di peso qualche
istante dopo, però non mi opposi; avevo il pressante bisogno
di andarmene da
lì, di raggiungere un luogo sicuro, di lasciarmi alle spalle
quello che era di
sicuro stato un tentativo di omicidio. Non potevo esserne sicuro al
cento per
cento, ma dopo quella sparatoria in casa, beh... qualche dubbio sulla
casualità
di quell’incidente potevo anche averlo.
Eravamo fuggiti dal luogo
dell’incidente
prima ancora che arrivasse la polizia, probabilmente perché
anche Stephen aveva
a sua volta pensato che dietro a quella storia ci fosse Margaret.
Quella
miniera doveva nascondere qualcosa di ben più prezioso dei
diamanti se spingeva
una donna già ricca a macchiarsi di non uno, ma
bensì due omicidi. Prima suo
marito, poi Stephen... che cosa c’era dietro tutta quella
storia? Forse
chiarire i miei dubbi sulla morte di Sean avrebbe in parte aiutato.
Quando giungemmo finalmente
all’Illusions,
i miei
nervi
ebbero un attimo
di tregua; ci sedemmo al solito tavolo come se quasi mezz’ora
prima non fosse
successo assolutamente niente, sebbene nell’aria aleggiasse
quell’atmosfera di
ansia e nervosismo che avrebbe dovuto farmi desistere dal restare
tranquillamente accomodato lì.
«È stata Margaret,
non è
così?» dissi
d’un tratto, stupendomi della mia stessa voce. Sembrava bassa
e stridula come
il primo miagolio di un gattino.
Nel sentirmi, Stephen mi
guardò attentamente
e, nonostante apparisse calmo, il tremore all’angolo
dell’occhio sinistro
lasciava intendere che fosse più agitato di me. Anche Steve,
quand’era nervoso,
aveva quella specie di tic all’occhio. «Non voglio
mentire a me stesso nel
credere che sia stato solo un caso», rispose pacatamente,
«quindi, aye, è
sicuramente stata lei. Quella era di certo un’auto dei suoi
dipendenti, e quel
povero disgraziato che la guidava doveva essere uno di loro».
«Si sta esponendo
troppo», gli feci
notare, scandendo bene le parole prima di umettarmi le labbra e
deglutire. «Mi
hai forse nascosto qualcosa? Non posso aiutarti se non sei sincero con
me».
«Ti ho detto tutto quello che
so»,
ribatté immediatamente, forse persino indispettito.
«Se c’è altro, è qualcosa
di cui solo Margaret è a conoscenza».
Mentiva o diceva la verità?
Dalla
lucidità dei suoi occhi verdi sembrava proprio che dicesse
sul serio, e, a ben
pensarci, che bisogno aveva di mentirmi? Sarebbe stato controproducente
sia per
me che per lui. Sospirai e cercai di mettermi comodo sulla sedia,
osservando
con finta attenzione il menù che avevo dinanzi prima di
tornare a fissare lui. «Allora
devo chiederti una cosa molto importante», cominciai,
tentando di essere il più
delicato possibile per non urtare la sua sensibilità. Lo
vidi però farsi
attento, così decisi di prendere il coraggio a quattro mani;
trassi un lungo
sospiro e socchiusi di poco gli occhi, arrivando infine al nocciolo
della
questione. Sapevo che avrebbe potuto ignorarmi e basta, ma dovevo
tentare. «Se
è troppo doloroso puoi anche non rispondermi, ma vorrei
sapere com’è morto tuo
fratello».
Per qualche secondo continuò
a
guardarmi, non aprendo però bocca. Sembrava assorto in
qualche ragionamento che
io non comprendevo, come se stesse cercando le parole adatte per
rispondermi o
non volesse farlo affatto. Alla fine socchiuse gli occhi e si
voltò,
ritrovandosi a guardare poco distante la figura di Janet, la cameriera
dell’Illusions,
senza però vederla davvero.
«In
seguito ad un infarto, secondo il medico legale»,
sussurrò. «Ha avuto un
infarto del tronco encefalico dovuto ad un’occlusione
arteriale. Mi disse che
era stata causata da una dissezione spontanea dell’arteria
vertebrale». Sospirò
pesantemente. «Però nel sangue di Sean sono state
trovate tracce massicce di
benzodiazepina [4],
e lui non ha
mai preso nessun farmaco per l’insonnia né ne ha
mai avuto bisogno. E’ proprio
per questo motivo che ho l’assoluta certezza che ad ucciderlo
sia stata
Margaret». A quel suo stesso dire sorrise amaramente.
«Non sai quante volte ho
desiderato che Sean non l’avesse mai conosciuta»,
stornò rapidamente lo sguardo
su di me, fissandomi con occhi febbrili. «Da parte mia
è forse egoista
desiderare una cosa del genere?»
Quella era una domanda che esigeva
risposta, ma cosa avrei mai potuto dirgli? Potevo capire che amasse
ancora il
fratello e avrebbe voluto per lui ogni bene, però...
«Se lui era felice, se ti
fossi intromesso nella sua vita, Sean ti avrebbe soltanto
odiato», dissi di
slancio, forse senza neanche riflettere. «Per quanto tu
voglia bene ad una
persona, devi anche imparare a lasciarla andare».
«Sembra che tu sappia bene di
cosa stai
parlando». Quelle sue parole, dette con quel tono duro e al
tempo stesso mesto,
mi spiazzarono, probabilmente perché, senza volerlo, io
stesso avevo aizzato un
argomento piuttosto delicato. Avevo dato a lui quei consigli, certo, ma
in
realtà avevo parlato a me stesso e non me n’ero
reso conto.
Fu quindi il mio turno di guardare
altrove, sebbene mi sarebbe piaciuto molto di più trovarmi
da tutt’altra parte.
«Diciamo che ne ho un’idea», risposi
semplicemente, sfiorando con due dita la
saliera sul tavolo. Il motivo per cui avevo parlato in quel modo
portava
soltanto un nome, e quel nome era Stephen. L’amavo, certo, ma
non avevo mai
avuto il coraggio di confessargli apertamente i miei sentimenti, forse
perché
temevo che un suo rifiuto avrebbe potuto compromettere anche la nostra
amicizia. Avevo dunque taciuto per paura che potesse allontanarsi da
me, ma non
era cambiato un accidenti di niente per quanto riguardava il peso che
mi
portavo dentro. Non potevo smettere di amarlo né tanto meno
volevo perderlo
come amico. Quella situazione era un gran bel casino, sul serio.
«Forse sarebbe meglio
smetterla di
perdere tempo in chiacchiere», esordì
d’un tratto Stephen, capendo
probabilmente che non avrei più aperto bocca. Mi comprendeva
più di quanto io
stesso mi aspettassi, e non sapevo dire se fosse un bene o meno.
Così non
discutemmo più, concentrandoci solo sulla nostra cena non
appena arrivò.
Era stata una giornata stressante e
speravo solo che fosse terminata lì, senza altre sorprese ad
attenderci. Ma non
ne ero più così certo, ormai.
«Johnny!»
La voce di Dean si levò nel
chiasso che
vigeva nel locale, sovrastando la moltitudine di parole sconnesse e
suoni che
imperversavano al suo interno. Quella notte era stracolmo, e
l’aria viziata che
si avvertiva fin dentro le narici sembrava non infastidire nessuna
delle anime
presenti. Erano venuti tutti per divertirsi, e anch’io,
almeno ufficialmente,
ero lì per lo stesso motivo. Peccato che non me ne
importasse un emerito
niente. Avevo raggiunto i ragazzi soltanto per far contento Dean, il
più
giovane, ma la mia voglia di uscire era pari allo zero da mesi, ormai.
E prima
che venissi richiamato me ne stavo giusto andando. Avevo raggiunto il
mio
limite.
Facendosi spazio fra la calca di corpi
sudati che affollavano la pista, Dean mi raggiunse tutto trafelato,
guardandomi
con tanto d’occhi. «Dove stai andando?»
mi chiese, aggrottando di poco le
sopracciglia mentre si detergeva il sudore dalla fronte. Era il
più giovane del
gruppo, e lo si capiva subito solo vedendo l’espressione
fanciullesca che aveva
in viso. Anche in quello stesso momento, nonostante il lieve accenno di
barba
che gli ricopriva il mento, nessuno gli avrebbe mai dato più
di vent’anni.
Scrollai di poco le spalle,
massaggiandomi poi il braccio sinistro. «Sono stanco,
Dean», risposi
semplicemente. «Ho bisogno di dormire almeno un’ora
o due».
«Fatti almeno accompagnare da
Stan», mi
disse. «Casa tua è distante».
Sorrisi appena, scuotendo poi la testa.
Capivo il perché della strana ansia che aveva cominciato a
trasparire dalla sua
voce. Aveva paura che mi addormentassi al volante e che, con la
sfortuna che
avevo, incappassi in un altro incidente stradale. Beh, su quel punto un
po’
tutti i miei amici erano diventati parecchio super-protettivi.
«Tranquillo,
Dean, non avrò nessun altro incidente», lo
rassicurai ad alta voce per far sì
che mi sentisse, ma quelle mie parole, come c’era da
aspettarsi, non sortirono
l’effetto sperato. Sospirai, alzando lo sguardo al soffitto.
«Andrò da Steve,
d’accordo? Così sarete tutti più
tranquilli», soggiunsi, vedendo il viso di
Dean sgretolarsi come una maschera di cera. La solita espressione
divertita che
aveva continuamente stampata in volto era scomparsa, lasciando posto ad
una
accigliata e preoccupata.
«Johnny»,
mormorò,
raschiandosi il
labbro inferiore e tormentandosi le dita di entrambe le mani, quasi
fosse
nervoso. Fece persino per aprir bocca e continuare, ma non gli permisi
di
farlo; senza aspettare che mi richiamasse ancora lo salutai svelto,
dandogli le
spalle per uscire in fretta e furia dal locale, neanche avessi il
Diavolo alle
calcagna. Sapevo cosa mi avrebbe detto Dean, ma la mia mente e il mio
cuore si rifiutavano
di ascoltarlo.
Barcollai fino alla mia macchina,
aprendola con mani tremanti prima di sedermi al posto di guida, con le
chiavi
strette nel palmo della destra e la fronte poggiata contro il volante.
Respiravo a grandi boccate e avevo una disperata voglia di piangere, ma
sapevo
che farlo non sarebbe servito a niente. Dalla tasca interna del
giaccone trassi
le vecchie chiavi arrugginite della mia mustang, girando la testa sul
volante
per poterle guardare quasi con venerazione, lasciandomi sfuggire un
mezzo
sorriso nonostante tutto. Le conservavo da quel giorno, come se per me
rappresentassero una reliquia insostituibile e preziosa. In un primo
momento
avevo solo desiderato di disfarmene, però non ci ero mai
riuscito.
Ero soltanto uno stupido, ecco
cos’ero.
Uno stupido sentimentalista che non aveva avuto le palle di dire due
stupide
parole prima che il mondo gli crollasse addosso. Ero certo che me
l’avrebbe
detto anche Steve, se si fosse trovato lì con me in quello
stesso istante.
Avrebbe riso e, dandomi una pacca su una spalla, mi avrebbe spronato a
parlare
senza indugi, ascoltando ciò che avevo da dire fino alla
fine. Peccato però
che, adesso, non avrei mai più saputo come avrebbe reagito
se gli avessi detto «Ti
amo».
Era per questo motivo che Dean aveva
cercato di parlarmi, nel locale. Aveva tentato di ricordarmi che
Stephen era
morto, che illudermi che non fosse così era da stupidi e che
farlo mi avrebbe
solo fatto stare ancora più male, e tutto perché
sapeva fin troppo bene quanto
mi avesse distrutto quella perdita. Per mesi e mesi avevo delirato ed
ero
andato in psicanalisi, senza che quelle mie sedute sortissero
l’effetto
sperato.
E anche adesso, inconsapevolmente,
continuavo ad illudermi e a sognare, distorcendo la realtà
che ero costretto a
vivere. Se non l’avessi fatto la mia sanità
mentale ne avrebbe risentito più di
quanto non stesse già facendo, e io preferivo
auto-suggestionarmi che
auto-distruggermi, sebbene i miei amici cercassero in tutti i modi di
riportarmi alla realtà, a quell’amara e triste
realtà dove la morte di Stephen
era un dato di fatto.
Io, però, non volevo. Volevo
credere che
Stephen, il mio
Stephen, fosse ancora vivo da qualche parte, non
importava esattamente dove né tanto meno in che tempo. Ero
certo che mi avrebbe
accolto con il suo solito sorriso, abbracciandomi e invitandomi ad
accomodarmi
sul divano per seguire con lui la maratona di Star Wars. Avremmo riso e
scherzato insieme, esattamente come se quell’incidente non
fosse mai accaduto,
e io avrei anche trovato il coraggio per dirgli ciò che
provavo nei suoi
confronti, senza più temere niente.
Dovevo aggrapparmi a questa
convinzione. Dovevo
farlo. Era un desiderio che non si sarebbe mai
realizzato, questo lo sapevo fin troppo bene anch’io. Eppure
volevo continuare
disperatamente a credere che non fosse così e che, un
giorno, l’avrei raggiunto
anch’io.
ILLUSIONS, DREAMS AND FARPLANE ›
BREAKING
THE WORLD 1.5
FINE
[1] E’
il nome del Café presente nella long fiction
“Breaking the World”.
Il
titolo sarà chiaro solo alla fine della storia. Le frasi in
corsivo al di sotto
di esso, invece, sono prese dalla doujinshi “Munich,
1921” del circolo
Ninekoks.
[2] Romanzo
storico ambientato in Scozia e scritto da
Walter Scott nel 1819. Esso narra la relazione amorosa tra Lucy Ashton
e Edgar
Ravenswood, nemico della sua famiglia.
Scott si ispirò ad una
storia realmente accaduta, almeno secondo la tradizione locale. Verso
la metà
del 1600, nella famiglia scozzese Dalrymple, la sorella più
anziana di Sir
James, Janet, venne promessa in sposa a David Dunbar, erede di Sir
David Dunbar
di Baldoon.
Il matrimonio fu
combinato dai genitori della ragazza, ma lei era innamorata di
Archibald, terzo
Lord Rutherford, la cui famiglia non aveva alcun possedimento. I
genitori di
Janet si opposero fermamente al matrimonio dei due, proibirono la
relazione e
la forzarono a sposare David.
Come imposto dalle
tradizioni Janet sposò David nella Chiesa di Old Luce, a
pochi chilometri dalla
sua casa a Carsecleugh Castle. Sebbene la giornata estiva fosse molto
calda i
fratelli della ragazza ricordano che le mani di Janet erano fredde come
ghiaccio mentre camminava lungo la navata. La notte stessa, quando la
giovane coppia si ritirò nella camera da letto a Baldoon
Castle, si sentirono
grida provenire dalla stanza. La porta venne forzata e il personale
trovò David
Dunbar accoltellato e quasi morto. La giovane Janet brandiva un
coltello ed era
coperta di sangue, piangente e in preda al delirio. Janet venne
giudicata
insana di mente e morì di lì a un mese.
Esistono
diverse versioni della storia che descrive quanto accadde nella stanza
da letto
a Baldoon Castle. Una seconda versione rispetto a quella appena
descritta vede
un Archibald deluso nascosto nella stanza, che accoltella lo sposo e
fugge
dalla finestra verso il giardino. La tradizione locale aggiunge una
terza
versione in cui è il Demonio ad uccidere Dunbar e a
tormentare Janet sino a
farla impazzire.
[3] Con
questa nota si intende il set di dischi in vinile
del gruppo musicale britannico chiamato “The Beatles
Collection”, messo in
commercio nel 1978 per il mercato inglese e nel 1979 per quello
americano.
Erano in formato stereo ed era presente anche un disco bonus intitolato
“Rarities”, contenente versioni alternative delle
canzoni e rarità varie dei
Beatles.
[4] Anche
se forse questa nota potrà essere inutile, le
benzodiazepine sono farmaci con proprietà sedative,
ipnotiche, ansiolitiche,
anticonvulsive, anestetiche e miorilassanti. Sono spesso usate per
alleviare
per periodi di breve durata gli stati d’ansia o di insonnia.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest
“Just
a Yaoi Wish!” indetto
da Akira Haru Potter,
e si
è
classificata terza
con mio grande stupore. La dedico tutta a visbs88.
Ammetto comunque che è stato bellissimo poter scrivere
questo spin off.
Come
già accennato nello specchietto introduttivo, appartiene
alla storia Breaking
the
World, scritta precedentemente per un altro contest. Durante
la stesura di quel racconto avevo idee su idee per vari spin off su di
essa, e
il tuo contest ha fatto sì che io ne potessi mettere in atto
almeno uno,
spiegando gli avvenimenti solo accennati nel quarto capitolo della long
fiction.
Stendere
questo spin off, dunque, è stato un vero e proprio piacere,
forse perché mi ero
anche affezionata al personaggio di Johnny. In verità mi
affeziono alla maggior
parte dei personaggi che creo, ma credo che questo sia piuttosto
normale *Ride*
Spero
che la storia vi sia piaciuta. ♥
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