Fa Ancora Freddo
Il titolo è riferito ad un racconto pubblicato a Novembre,
“Fa Freddo”, il quale suggellò il mio esordio su EFP. Tale racconto adesso non
lo troverete tra le mie opere, è presente solo sul mio hard disk. Era
decisamente troppo personale e –rileggendolo adesso- un po’ ingenuo. Questo non
può essere un seguito, ma credo che “proseguendo” su quella linea, su quelle
emozioni, possa arrivare sempre più vicino alla chiusura. Ci ho messo tante
allegorie che altro non sono che intime confessioni.
Nonostante fosse molto freddo non potevo proprio fare a
meno di andare ad osservare un’ultima volta il mare, coltivando da lontano
l’illusione di poter un giorno essere più vicino a quelle soffici onde. Chiuso
fuori dal bisogno di dare quest’ultima occhiata alla pianura più azzura che
avessi mai visto, ero quasi sicuro di essere uscito senza le chiavi. Tanto, se
le avessi avute, le avrei gettate in acqua senza esitazione.
“ I’m sorry mom but this is
where I stay “
Da quella zona leggermente rialzata potevo vedere il
silenzio della costa bagnata dalla notte, senza però poterlo udire; nelle mie
orecchie, infatti, solo il richiamo continuo e ormai irritante della voglia di
scendere e farmi vedere dal cielo mentre davo quell’ultimo saluto al mare.
Ritenevo infatti questione di fondamentale importanza essere visto dal mio
tutore e mentore. Non ero sicuro però del carattere di quest’azione. Se da una
parte poteva essere un modo per cercare l’ultima e suprema conferma della
necessità di intraprendere il viaggio che stavo per affrontare, dall’altra
poteva essere l’ultima occasione per essere commiserato e violentato
dall’illusione della riuscita incondizionata nell’impresa che avevo deciso di
compiere. Avevo paura di vedere nel cielo un volto rassicurante e sempre
accondiscendente, io che ero semrpe stato convinto di ammirarne solo la
bellezza, avevo da poco compreso che amavo sentir parlare quella cupola
azzurra, quel foglio cobalto dallo spessore indefinibile. Amavo discorrere per
ore intere con lui, quando la mia vita aveva perso ogni significato e non mi
rimaneva che fissare il soffitto, quando avevo bisogno di sapere come fare mia
l’ultima stella del Paradiso che in caduta sulla terra tracciava un’iperbole di
pura bellezza, priva di narcisismo o guadagno. Lui, il cielo, tacitamente
rispondeva ad ogni mia domanda esprimendosi in curiosi sbuffi bianchi e
vagamente deformi. Dico vagamente, perché per moltissime persone lo sono del
tutto, ed in effetti è difficile dare loro torto, bisogna però precisare che la
loro deformità per me non era altro che un alfabeto.
Quella sera il cielo sembrava muto. Ovunque riuscissi a
scorgere nella notte – e il mio sguardo era piuttosto avvezzo a quelli
strapazzi notturni- non c’era traccia di scrittura bianca e soffice. Solo
un’immensa volta che minacciava di risucchiare chiunque si provasse a contarne
le stelle, gioielli troppo preziosi e numerosi per poter essere oggetto di
classificazioni e censimenti. Quello che è fatto di luce liquida dovrebbe
sfuggire alla comprensione umana. Io, nonostante questo loro aspetto
aristocratico e prezioso, le trovavo più belle di qualsiasi diamante terrestre.
Forse, era proprio il paragone coi diamanti che le rendeva così belle ai miei
occhi: vedere gioielli di simile bellezza a milioni di anni luce di distanza,
lascia uno spazio quasi infinito all’immaginazione soggettiva. In piedi sulla
Terra, col naso incollato al cielo, potevo immaginarne forma, dimensione,
colore, persino l’odore. Non ero così capace di attribuire loro un prezzo,
triste caratteristica di tutto ciò che è umano, quindi tangibile. Credo proprio
che oggi anche la tristezza abbia un prezzo, e l’unico modo gratuito per
formentarla è la pioggia. Quando non è acida.
Avrei dato una risposta anche a questo nel mio viaggio,
probabilmente la risposta sarebbe stata il diretto corollario di qualche
teorema che sarei riuscito a dimostrare.
Adesso però, era venuto davvero il momento di ricacciare
ogni dubbio nell’abisso delle mie consapevolezze e di imboccare la strada che
senza mezzi termini e con un tragitto piuttosto rapido e privo di spunti
riflessivi mi avrebbe condotto al cospetto delle onde.
Molta gente in città quella sera, e mi stupii di non
riconoscere nessuno dei volti che
incrociavo per strada, riuscivo quasi a sentirmi uno straniero in casa mia,
avevo quasi l’impressione di parlare una lingua diversa dalla loro anche nel
mio silenzio. Esatto, mi sembravano attoniti e perplessi di fronte alla mia
camminata sicura verso il mare, come potrebbe essere una persona che in piena
estate vede un uomo gettarsi in acqua vestito con abbigliamento da sci. O come
qualcuno che per la prima volta sente parlare una ligua esotica e sconosciuta,
che in questo era quella altamente idiomatica e lessicalmente ricca tipica del
silenzio. Il lessico del silenzio sono gli sguardi ed i gesti, senza la
conoscenza dei quali è semplicemente impensabile comprendere la lingua orale.
Prima impara a stare zitto, poi prova a parlare. Di tempo ne hai quanto ne
vuoi.
Sulla spiaggia, come avevo immaginato, non c’era nessuno.
Questo mi dette di che pensare. Cosa poteva aver tenuto la gente lontana dalla
spiaggia un sabato sera? Il freddo non era una scusa adeguata. Tutto sembrava
far parte di un disegno ben più complicato. Istintivamente alzai lo sguardo e
senza eccessiva sorpresa scorsi una nuvola appena sbucata; la lessi.
Abbassando nuovamente lo sguardo nella posizione originale,
persi la cognizione del confien tra cielo e mare. Non si vedeva più la sottile
linea all’orizzonte che separa i due colori e impedisce loro una perversa
commistione. La linea era del tutto scomparsa, invisibile su tutto il fronte,
invisibile anche sulle colline. Non avevano paura di esser inghiottite
anch’essere da quel colore assurdo?
Era il colore che adesso occupava tutta la mia visuale,
potevano essere onde nel cielo e nuvole nel mare per quanto potessi vedere io,
anzi ero convinto che i due universi si stessero unendo in un solo cielo
bagnato. La tonalità dominante era una lotta estenuante anche solo alla vista
tra viola e blu oltremare, si dominavano a vicenda e sembravano godere di
questo loro orgasmo congiunto.
Ero terrorizzato ed in estasi di fronte alla perdita di
cognizione dei limiti dello spazio e degli elementi, un po’ come lo ero sempre
stato al cospetto di quell acommistione di amore ed odio alla quale ero
perennemente assoggettato. Proprio su quella si sarebbe basato il mio viaggio,
per questo adesso mi convinsi che farlo partire dal mare non sarebbe stata una
buona idea.
Sentivo il bisogno di aumentare il terrore in me, ne
desideravo sempre di più, iniziavo ad essere irritato al solo pensiero di non
fare parte di quell’orgasmo inspiegabile ed estremamente sensuale.
Dovunque mi voltassi, nient’altro che tonalità identiche,
seppure nella loro commistione di colori. Questo connubio stava diventando un
pattern ripetitivo.
Nel terrore ormai mi sentivo a mio agio, e avevo smesso da
un pezzo di avvertire quella sensazione di rigurgito del cuore.
“ Non distinguere tra due concetti opposti dev’essere una
cosa quotidiana per te…” sentii la sua voce arrivare da molto vicino, e mi
stupii di non averlo sentito attivare. Me ne vergognai quasi.
Tuttavia, non mi voltai, quell’affermazione suonava come un
accusa da chi ne ha fatte le spese.
“ E non voleva essere un’offesa…” aggiunse poi, facendosi
più vicino. Lo avvertivo accanto a me, ma non riuscivo ancora ad avvertire il
suo respiro. Mi venne da sorridere, e così feci. Ebbi la sensazione di aver
aperto una porta senza possederne le chiavi.
“ Da quanto sei qui?” chiesi voltandomi verso di lui.
Riuscivo a distinguerlo chiaramente anche al buio. Si stagliava contro il cielo
che ingravidava di nuvole il mare.
“ Qualche minuto, ma non pensare che ti abbia seguito…”
rispose lui. Avrei potuto usare il principio “scusatio non petita accusatio
manifesta”, ma il suo tono di voce non tradiva code di paglia.
“ Lo so, tranquillo…” dissi dopo qualche secondo. Stava
osservando quello spettacolo. La sua figura, più bassa della mia, si avvicinata
di qualche passo al mare. Per un momento ebbi paura che potesse essere coinvolto
in quel coito.
“ In partenza, suppongo…” disse poi tornando accanto a me.
Fui investito da un’ondata di calore e profumo. Pensare di baciarlo non sarebbe
stato del tutto fuori luogo.
“ Già…” risposi io. Improvvisamente mi vidi che fissavo il
soffitto mentre pensavo che la mia vita fosse ufficialmente persa. Ero quasi
imbarazzato del fatto che lui sapesse ogni cosa. Se avessi potuto, avrei
cancelato ogni sua consapevolezza.
“ Una volta hai fatto un viaggio anche per me allora?” mi
chiese poi. Lasciandomi di stucco peraltro. Sapevo di potermi aspettare di
tutto, ma ogni limite è stato creato non a caso. Tuttavia, mi sembrava giusto e
quasi opportuno rispondergli. Sembrava uscire naturale.
“ Certo che l’ho fatto.. e sono rimasto vittima della
migliore opportunità della mia vita, e lo sai meglio di me..” risposi. Non ci
pensai due volte.
“ Una cosa che mi piaceva di te era il tono di voce con cui
dicevi – ti amo-….” disse senza guardarmi in volto, continuando a fissare
quell’orgia naturale.
“ è carino?” mi chiese poi, riuscendo a fingere una
curiosità positiva.
Sospirai e sorrisi. “ Sì… qualche dubbio sui miei gusti?”
risposi io quasi ridendo. Non ci pensai subito, ma quello poteva suonare come
un complimento verso di lui, e la cosa non mi dispiacque.
Arrossì nel profondo della sua felicità.
“ Sei tranquillo” gli feci notare abbracciandolo.
“ Anche tu” rispose lui baciandomi delicatamente sulla
guancia.
Una serie imprecisabile di ricordi mi si parò davanti. Ma
uno in particolare mi sembrò estremamente importante.
Eravamo all’inizio del liceo, forse avevamo iniziato da un
paio di mesi il primo anno. Ricordo molto distintamente che quel giorno di
novembre fuggii più velcoe che potevo in bagno per scappare dal soffitto che
sembrava sempre precipitarmi addosso, e delle stelle che cadevano sulla terra
avevo una paura matta. Rasentavo le convulsioni e il malessere si traduceva nel
dolore a qualsiasi contatto. Quel giorno lui mi volle seguire, preso da non so
quale istinto, fattostà che lo fece e lo fece maledettamente bene, perché mi
trovò quasi subito. Non ricordo assolutamente quello che mi disse, perché il
mio ritorno alla percettività coincide col momento in cui le sue labbra si
appoggiarono per la prima volta sulla mia guancia. Il soffitto ci sprofondò
addosso, ma non ci facemmo assolutamente nulla, al riparo tra le sue braccia
era ora di vivere.
Lo stesso bacio che adesso mi aveva regalato: delicato e di
una naturalezza che solo un bambino può mostrare.
Passammo un’ora filata in quella posizione.
“ sinceramente non riesco ad immaginare un tuo fallimento”
mi disse dopo un po’. Ci stavamo facendo inghiottire da quel colore maledetto.
“ io sì…” risposi.
“ Parti, per favore, e non dire sciocchezze…” mi abbracciò
nuovamente, e ci baciammo. Non sulla guancia. Ma fu una cosa talmente naturale
che non riuscimmo a sentirla come amore. È quello che può succedere quando due
anime si sono esplorate in ogni più nascosto angolo e hanno poi deciso di
continuare a cercare anime da eplorare altrove. Non hanno però potuto sacrificare
la totale armonia tra di loro. Baciare il mio migliore amico era l’unico modo
per ringraziarlo, anche se in seguito al mio viaggio avrei probabilmente dovuto
inventare un altro modo…
Mi accarezzò i capelli e mi diede una spinta giocosa.
“ Via da qui, hai da fare!” mi disse.
Pochi secondi dopo sparii dalla sua visuale col sorriso più
soddisfatto della mia vita, adesso vedevo chiaramente le stelle cadere sulla
terra, e non riuscivo a sentirmi lo stesso. Il viaggio doveva iniziare. Dissi
questo con gioia immensa, mentre cielo e mare tornavano ad essere due corpi
distinti.