Diciassette Gradini

di LivingTheDream
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-Diffidate delle imitazioni, solo le originali possiedono il bollino!-

Nda: TA-DAH! Una dimensione decente!


«Seriamente, Sherlock, questo è
troppo. Questo è davvero troppo!» sbraito, incurante di Mrs. Hudson e dei vicini e della gente per strada e di chiunque abbia la sfortuna di trovarsi nel raggio di un chilometro. Probabilmente mi staranno sentendo anche i piccioni ad Hyde Park, domandandosi come io abbia fatto a resistere qui dentro fino ad ora.

 

Hanno ragione, loro. I piccioni, intendo. Penso che andrò a dirglielo, dopo.

«John, dai, stai esagerando. Era solo-»
«Non. Dire. Quella. Parola. A causa tua sto iniziando a odiarla.» raccolgo una sacca da viaggio e inizio ad infilarci il cellulare con il relativo caricabatterie, avvolgendolo così stretto che potrebbe rompersi da un momento all'altro, incastrandolo tra una camicia a prima vista pulita ed il libro che sto leggendo e che tirerei volentieri e ripetutamente su quella testaccia fin troppo piena.

«I risultati mi saranno utili, nelle indagini, quindi non-» alzo gli occhi al cielo, che non sembra essere dalla mia parte nemmeno oggi.
«Sherlock! Mi sono svegliato bendato ed incatenato al mio letto. Ti sembra una cosa normale da fare?»
«Era solo per dedurre lo stato di allarme nei soggetti appena svegli, e tu sei stato-»
«Io sono stato una cavia!» alzo la voce ancora di più, accentuando l'ultima parola con esasperazione. «Una cavia!»

Lui mi guarda, letteralmente appollaiato sul divano, con la testa inclinata da un lato. Ha la faccia di chi sta osservando un pazzo – e per fortuna non lo sono, anche se un altra settimana qui mi ci avrebbe fatto diventare.

«E non mi guardare con quella faccia.» continuo ad infilare nella sacca il portafogli, le cuffie, dei documenti, un portafoto, un bicchiere, una forchetta, tutto quello che mi capita sottomano. E non mi chiedo nemmeno cosa ci faccia, una forchetta nello studio.
Devo andarmene da qui. Devo. Andarmene. Da. Qui. Da che parte sono le scale? Ah, ecco.

«Sai cosa, Sherlock? Sono stanco. Sai che significa? Eh? Lo sai? Sai che vuol dire vivere con una persona impossibile, che si caccia nei guai, che ti ci trascina nei guai, che ti fa trovare parti di cadaveri ovunque – c'è un avambraccio, nel lavandino, a proposito – e che si diverte, con te? Si diverte!» rimaniamo una manciata di secondi nel silenzio più assoluto. «No. Tu non lo sai

Afferro quell'improponibile bagaglio e mi lancio fuori dallo studio, lasciando la porta aperta alle mie spalle. Non l'avessi mai fatto.

Sento il suo sguardo bruciarmi sulla nuca, sulla schiena, sulle mani e dappertutto. Torno indietro e sbatto la porta.

Sembro una donnina isterica – sono una donnina isterica. Mi ci ha fatto diventare, quel dannato.

Guardo in basso – dei gradini, pochi gradini. Solo quelli mi separano dalla libertà, e, soprattutto, da una vita normale.
Con i pensieri così in fiamme che, se fosse scientificamente possibile, mi uscirebbe il fumo dalle orecchie, poso il piede sul diciassettesimo scalino – se avessi un po' più di forza lo avrei già sfondato.

 

«John, stai bene?» gli chiese Sherlock, fermandosi di colpo in mezzo alla strada.
«Sì, ma non fermarti, sta scappando!»
«Rispondimi, John, stai bene?»
«Non pensarci, corri!»
«John!» urlò, mettendolo finalmente a tacere. Lui abbassò lo sguardo.
«La gamba. Mi ha colpito.»

Gli occhi di Sherlock andarono velocemente dal criminale, a John, al criminale, al sangue. Ringhiando – quasi volesse maledire se stesso – si gettò in ginocchio e lo aiutò ad alzarsi, mentre, con l'altra mano, chiamava Lestrade per comunicargli che «stavolta questo bastardo è stato più furbo di noi.»

 

Che? Un flashback? Ora?
Scuoto la testa – no, non posso assolutamente farmi venire gli scrupoli di coscienza. Devo andarmene, non importa quanto quella volta sia stato gentile. Nemmeno più di tanto, poi. Dopotutto mi ci aveva trascinato lui in quel casino, tanto per cambiare.

Scendo un altro scalino, un piede sul sedicesimo e uno sul quindicesimo. Su, John, sei più vicino, adesso.

 

Si era alzato di scatto dal letto, senza capire che cosa fosse realmente successo, con l'odore del sangue ancora appiccicato addosso. Ritrovatosi nel buio più totale, iniziò a sbracciarsi, alla ricerca di quel dannato cellulare, o dell’interruttore della luce, sempre troppo lontano dal comodino.

«John! Chi c'è? È entrato qualcuno?»

La porta era stata spalancata, ed ora la debole luce dello schermo di un cellulare lasciava intravedere il profilo di un naso aquilino e di un paio di labbra sottili.

John sospirò, rilassandosi. Era Sherlock.

«Sto bene. Un incubo, tutto qui.»

La luce si abbassò, probabilmente l'altro si era rilassato.

«Tutto qui? Hai urlato come se ti stessero sgozzando!»
«Beh, più o meno.» aveva ancora i brividi. Non avrebbe chiuso occhio fino al giorno seguente.
«Domani abbiamo un caso importante. Dormi, John.»
«Non penso di riuscirci più, dopo questo.»
Sherlock sbuffò. «Prima o poi ne parleremo seriamente.»

Seguirono minuti di silenzio, interrotto da un leggero ed esitante rumore di passi. Il cellulare era anche andato in stand-by – ma tanto, per quel poco di luce che faceva.

«Sherlock? Che fai?»
«Non si vede?»
«Ehm, no, direi di no.» ridacchiò John.
«Gli incubi ti rendono spiritoso, a quanto pare. Non si sente? Cerco di raggiungere il letto.»
«Tranquillo, ora sto bene. Vai pure a dormire, il detective sei tu. Io sono solo il tuo collega.»
«Amico.»
«Collega!»

Sherlock si concesse un sorriso, non visto, e si voltò per uscire dalla stanza.

«Allora vado. Dormi bene.»
«Sì, Sherlock, ma attent-»
«AHIA!»

Forse John si era dimenticato di dire che la porta, difettosa, aveva la malsana abitudine di richiudersi da sola, ed anche abbastanza silenziosamente.

«Ehm, John...» mugugnò Sherlock, dolorante. «E se rimanessi qui, stanotte?»

Il dottore, a quelle parole, si spostò per fare spazio al suo scaccia-incubi – personale ed infallibile – molto volentieri.

 

Beh, in effetti quella volta – che cosa sto dicendo? Non posso cedere ora! Non ora che finalmente ho avuto il coraggio di dirgli quello che penso!
Devo arrivare alla fine di queste dannate scale – per i piccioni, ecco, ricorda i piccioni. Devo andare a parlare con loro. Saranno di sicuro più simpatici di un certo psicopatico di mia conoscenza.

Quattordicesimo e tredicesimo scalino, su John, ce la puoi fare.

 

«Che si mangia oggi?»
«Cucina italiana.»

Sherlock storse il naso. «Mai assaggiata.»

«Mai? Beh, c'è sempre una prima volta. Ecco, prendi queste, sono lasagne.»
«Bah!» esclamò l'altro, prendendone un po' con la forchetta e portandole alla bocca. «Con un nome ed un aspetto» si interruppe per poter masticare il boccone «del genere, non possono che avere un sapore orr-»

Si bloccò di colpo, spalancando gli occhi. «Ma John! Sono ottime!»

Il dottore si fece scappare una risatina. L'altro non aveva mai mangiato nulla solo perché “era buono”, riteneva il cibo solo un modo per non morire di fame. Eppure era riuscito a fargli piacere qualcosa. Una bella vittoria, dopotutto.

«Lo so! Sono uno dei miei piatti preferiti!» aveva commentato, mentre prendeva anche la sua porzione e la rovesciava nel piatto di Sherlock.

«Che fai?»
«Zitto e mangia, che non fai altro che stare al computer da due giorni.»

John, dal canto suo, si sarebbe volentieri accontentato di un po' di frutta.

 

No, okay, devo pensare ad altro.
I calzini! Non ne ho portato un paio di ricambio! Ah, certamente non tornerò su. Piuttosto mi fermo all'angolo, c'è un negozio di biancheria, e la commessa è pure un tipo molto gentile. E carina. Non posso farmi fregare da quel torturatore ancora una volta, tanto più che ora sto facendo tutto da solo.

Dodicesimo ed undicesimo scalino. Ecco, prendo un bel respiro e vado avanti.

 

«Sherlock, sono a casa! Hai fatto la spesa?» chiese ingenuamente, salendo le scale.
«Sherlock? Ci sei?» nessuno rispondeva, ma John sentì una sedia spostarsi.
«Sherlock! Rispondi se sei in casa!» appena messo piede nello studio, si trovò addosso lo sguardo dell'altro, che lo osservava a metà tra lo sconcertato e il sollevato. Dopo meno di un istante, il detective si alzò ed andrò incontro a John, stringendolo per pochi secondi in un goffo ed innaturale abbraccio. Probabilmente non era una cosa che faceva spesso, anzi, forse era la prima volta che abbracciava – se quello non era un abbraccio, almeno gli somigliava – qualcuno di sua spontanea volontà.

Mentre ancora si chiedeva il perché di cotanto “affetto”, vide delle carte sul tavolino, con sopra poggiate le scatoline contenti le pillole che Sherlock era stato costretto a prendere dal quel pazzo de “Lo Studio in Rosa”. Su una di esse appariva un'etichetta, con su scritto “Sherlock – Mortale.”

Dopodiché, John si vide sorpassare, e sentì la voce di Sherlock chiamare Mrs. Hudson.
Sospirò, sorridendo. Nemmeno quella volta il suo coinquilino aveva fatto la spesa.

 

Possibile che io non sia nemmeno capace di controllare la mia mente? E poi, alla fine, quella volta ci beccammo una sgridata epica dalla stanca Mrs. Hudson, e la frase che ricordo sentimmo di più fu “Non sono la vostra domestica!”, tanto per cambiare.
Povera donna, già vivere con Sherlock è uno stress, se poi a quello mi aggiungo io che – lo ammetto – a volte non sono il massimo dell'ordine-
Cioè, ora mi sto anche incolpando di qualcosa? Capito, sto impazzendo.

Decimo e nono scalino. Sei a metà strada, John, forza. A metà strada.

 

Sto arrivando. SH”

Con venti minuti di ritardo, ma stava arrivando. Sempre meglio tardi che mai.

John strofinò le mani tra di loro, alitando di continuo sui palmi per riscaldarsi.
Stava sul bordo del marciapiede, appoggiato al bastone – con quel freddo la gamba gli doleva in modo incredibile, altro che disturbo psicosomatico. Gettò un'altra occhiata all'inizio della strada, ma nessuna traccia della giacca svolazzante di Sherlock.

Quando si voltò di nuovo verso il ristorante dove dovevano andare a mangiare, sentì un colpo al bastone che gli fece perdere l'equilibrio, ed un braccio avvolgergli il collo da dietro. Stava per urlare, quando del metallo freddo gli si posò sulla tempia.

«Fermo, tu. Caccia i soldi, se non vuoi controllare se questa pistola è carica o no.»

Con le mani tremanti e troppo debole per protestare, John cercò di resistere alle fitte alla gamba mentre cercava il portafogli. Stava allungando la mano per porgerlo al malvivente, quando sentì un forte colpo alle sue spalle. Sarebbe caduto insieme al suo attentatore, se non fosse stato per una mano che si tese ad afferrarlo per il bavero della giacca, giusto in tempo.

«Sherlock!» esclamò, quasi ridendo.
«Ti avevo detto che stavo arrivando.» anche l'altro accennò ad uno dei suoi impercettibili sorrisi, che sparì nel momento in cui John sollevò il bastone e fece per colpirlo.

«Ah! Preso, bastardo!»

Sherlock tirò un sospiro di sollievo. Il dottore non mirava a lui, ma al complice del criminale alle sue spalle, che ora giaceva steso a terra.

Si guardarono, ridacchiando.

«Ah. E bravo il mio blogger.»

 

Certo, quella volta fu davvero una fortuna averlo con me. Mi aveva quasi fatto congelare, a furia di aspettare, ma alla fine della serata pagò anche il conto, credo. No, un attimo, facemmo a metà, mi pare.
Beh, è già qualcosa.
Ma non posso perdermi in questi ricordi, non sono che una minima parte, paragonata a tutti gli orribili momenti che mi ha fatto passare. Devo andare avanti, devo avere il coraggio di lasciarmelo alle spalle.

Ottavo e settimo scalino. Già si intravede la porta.

 

I raggi dell'alba filtravano attraverso le persiane, ed illuminavano la camera di John di una luce innaturale, quasi come se il tempo si fosse fermato per lasciare a Sherlock tutto il tempo di svegliarlo con calma.

Questo, infatti, stava entrando silenziosamente. Erano le sei di mattina, mancavano tre ore all'appuntamento con il cliente, eppure lui era già sveglio e attivo dalle cinque. Scavalcò un vecchio baule in mezzo alla stanza, si avvicinò al letto dell'amico ed allungò una mano. La ritirò subito dopo.

In quel momento John si era girato, grugnendo, come se avesse avvertito la presenza di qualcun altro nella stanza. Si voltò verso la porta e riprese a dormire, tranquillo. Sherlock si bloccò davanti al letto.

Vederlo così, tranquillo, non stressato o arrabbiato o stupito o felice, era una cosa nuova.
Calmo, fermo e sereno. Una novità in tutto e per tutto.

Facendo attenzione a non svegliarlo, si sedette sul letto, appoggiandosi al muro, e lì rimase fino alle sette. Ad occhi aperti, una mano buttata in grembo e l'altra vicina alla gamba di John, senza sfiorarlo.

Quando, alle sette e mezza, suonò la sveglia, Sherlock balzò giù dal letto, e fece finta di essere appena entrato nella stanza.
John si mise a sedere, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.

«Uh, buongiorno Sherlock.»
«Buongiorno. Allora, si va?»
«Sì, arrivo.»

John non ebbe mai il coraggio di dirgli che, in realtà, si era svegliato precisamente alle sei meno cinque.

E forse era meglio così.

 

Sospiro, una, due, tre – troppe volte. Mi passo le mani sulla faccia, come se volessi scrostare tutti quei ricordi dalla mia pelle.
Ma è inutile. Più scendo, e più trovo buoni motivi per risalire. Però è anche vero che, se torno su, gliela darò vinta. Si sentirà libero di fare quello che gli pare, come gli pare e dove gli pare. Perché tanto il dottor Watson non se ne va.
No, devo resistere ed andarmene da qui.

Sesto e quinto. Vedo Mrs. Hudson affacciarsi dal corridoio, forse si starà chiedendo come mai sono da cinque minuti su questa dannata rampa di scale. Sto odiando questi gradini, seriamente.

«Tutto bene, dottore?» faccio cenno di sì, e la vedo sparire di nuovo nelle sue stanze, scuotendo la testa. Povera donna. Fossi in lei ci avrei già cacciati di casa.

Dicevo? Ah, sì. Sesto e quinto.

 

Sherlock era intento a pizzicare quel violino dalle otto della mattina.
John diede uno sguardo all'orologio, ormai erano le otto e mezza. Di sera, però.
Ed il violino si lamentava ancora come le unghie di un gatto sulla lavagna.

Un sonoro sbuffo uscì dalle sue labbra, esasperato. In casa – causa Sherlock – non poteva stare, fuori pioveva come se fosse stato mandato il secondo diluvio universale per punire solo il dottor John Watson, 221b Baker Street, Londra e, come se non bastasse, il suo amato iPod era stato spedito nel negozio di elettronica in fondo alla strada nel tentativo di strapparlo alla morte.

In poche parole, John non ne poteva più.

Fulminò Sherlock con un'occhiata assassina, dopodiché si alzò; forse in bagno le sue orecchie sarebbero state al sicuro.

Nemmeno il tempo di raggiungere le scale, che nell'aria si diffusero le familiari note di Every Teardrop Is A Waterfall, dei suoi amati Coldplay. Iniziò a canticchiare quasi subito.

«I turn the music up, I got my records on, I shut the world outside until the lights co-» si voltò di scatto verso il divano su cui era appollaiato Sherlock, stupendosi da solo per la sue lentezza celebrale; al che si rituffò in poltrona, gli occhi fissi sulle dita agili del suo amico.

Non avrebbe mai pensato ad un arrangiamento della canzone per violino – eppure funzionava, funzionava eccome.

 

Quella volta suonò il violino divinamente, non c'è che dire. Si fece perdonare, almeno.
Eppure non mi sembrava di avere tutti questi bei ricordi di lui e con lui, anche! È impossibile.
Non posso tornare indietro. Andrò in albergo, o magari da Sarah, finché non si sistema tutto. Sì, da lei per me c'è sempre posto, sono sicuro che per una volta mi farà dormire nel letto, soprattutto se le dico cosa ho dovuto subire.
Secondo lei mi faccio torturare da Sherlock, ed inizio a darle ragione. Anzi, ha centrato in pieno il punto.

Un veloce calcolo, quarto e terzo scalino. Se non fossi così nervoso farei un bel salto ed arriverei direttamente a terra.
Ma si sa, la gamba. Ribadisco, fottuto disturbo psicosomatico, come insistono a chiamarlo. Ma ad ogni modo, quarto e terzo.

 

«Dove vai?»

John si bloccò in mezzo alla stanza, rispondendo a Sherlock, che era piegato su un libro. Non aveva nemmeno alzato la testa.

«Da Sarah. È il suo compleanno.»
«Ah.» sbottò secco. Si alzò velocemente, senza nemmeno mettere un segnalibro – probabilmente memorizzava di volta in volta il numero delle pagine a cui era arrivato.
«E... quando torni?»
«Penso verso sera.»
«Oh, tutto questo tempo?»

John ridacchiò «Non ti sentirai solo, stai tranquillo. Sopravvivi benissimo anche senza di me, lo s-»

«Salti sempre a conclusioni affrettate, John.» il modo in cui disse il suo nome lo fece rabbrividire stranamente.

Sherlock era vicino. Pericolosamente vicino.

«Che intendi?»
«Mi piace vivere con qualcuno.»
«Anche a me.»
«Mi piace vivere con te.» precisò. John inghiottì a vuoto. Che stava succedendo al suo freddo ed insensibile coinquilino?

«Sherlock, non so cosa ti sia preso, oggi, ma sappi che io devo-» nemmeno lui sapeva cosa “doveva” con tanta impellenza, anche perché finì la frase sulle labbra dell'altro. Provò a serrare le bocca, ma una mano di Sherlock gli affondò tra i capelli, mentre gli si avvicinava all'orecchio. «John...» sussurrò solo, con un tono che lui non aveva mai usato prima. Sembrava quasi umano. Quasi sofferente.

John sospirò profondamente, chiudendo gli occhi e socchiudendo le labbra; subito sentì la lingua di Sherlock farsi spazio, e decise di lasciarlo fare.

Aveva aspettato tanto per un momento come quello, anche se non lo avrebbe ammesso mai. La schiena di Sherlock era leggermente piegata, per compensare l'altezza, e in seguito furono solo mani che si cercavano, che si infilavano quasi automaticamente sotto la stoffa; furono solo sorrisi troppo vicini e gemiti spezzati nell'aria.

Era ormai notte – inutile precisare che, stranamente, Mrs. Hudson non li aveva chiamati per cena – e Sherlock stava impiegando tutte le sue forze nella piacevole azione di carezzare il petto di John, mentre quest'ultimo giocava con i suoi riccioli neri. Nessuno dei due parlava, ma entrambi sorridevano rilassati.

«Uh, è mezzanotte!» fece per osservare John, poi si picchiò una mano sulla fronte, con grande disappunto di Sherlock che si vide impedito a continuare la sua occupazione. «Il compleanno di Sarah!»

L'altro alzò lo sguardo, sorridendo sornione. «Oh, vero. Era oggi!» esclamò, fingendo un tono innocente.

John lo avrebbe voluto picchiare, impiccare, appendere sottosopra – aveva aspettato apposta questo giorno per far scattare la sua trappola.

Invece, in modo quasi automatico, gli prese il mento e lo baciò. «No, Sherlock, sbagli. Era ieri.»

 

Sento il calore invadermi il volto, ed una sensazione piuttosto imbarazzante verso il basso a cui preferisco non prestare attenzione per ovvi motivi. Ci mancava solo quello.
Devo ammetterlo, fu una nottata meravigliosa, a pensarci mi vengono ancora i brividi. Non è stata né l'ultima né l'unica, a dire la verità, anche se più volte mi è venuto il dubbio che Sherlock mi stesse solo usando. Gliel'ho urlato, prima. Lui con me si diverte, ne sono quasi sicuro.
Lo fa ridere il pensiero di un cretino, ingenuo ed innamorato, che puntualmente si fa prima trattar male e poi sbattere su un letto – o una poltrona, o un tappeto, o dovunque – e solo quando lui ne ha voglia. Gli fa comodo.
Sento un martello picchiarmi sulle tempie, tutta colpa di quei pensieri che il mio cervello partorisce e rifiuta contemporaneamente.

Non ho assolutamente il coraggio di scendere, adesso, da queste dannate scale. Contento? Eh, dimmi, sei contento?
Ho paura; paura di scendere, paura di risalire, paura di tornare o di non farlo più. Paura dell'ultimo ricordo.

Eppure ci sono. Secondo, e primo. Sono alla porta.

 

«John?» urlò Sherlock, con una potenza che non ti saresti aspettato da un tipo del genere.
«John?» di nuovo.
«John!» ancora.
«JO-»

«SONO QUI! Sono qui.» rispose l'altro, piombando nel salotto saltellando nel tentativo di infilarsi l'altra gamba del pantalone senza rovinare al suolo. «Che. Cosa. C'è.»

«Devi prendere un pacco.» ordinò – perché dire “chiese” è un eufemismo – senza staccare gli occhi dalla finestra davanti a cui era seduto.

«Uh? Va bene. Ma non so se la posta è-»
«Chi ha mai parlato di posta?»
«Un uomo, allora? Oppure-» John si bloccò da solo, quando vide un pacchetto solitario sul tavolo. Rimase in silenzio per qualche secondo. «Ehm, Sherlock?»
«Hm?»
«Dimmi che non è questo sul tavolo, quello dietro di te.»
«Ah, ci sei arrivato!» rispose Sherlock, sempre senza voltarsi. «Potresti aprirlo?» l'altro sgranò gli occhi.
«Senti! Io non so tu per chi mi hai preso!» iniziò, mentre comunque rimuoveva la carta esterna «Se per uno schiavo, o un fattorino, o per la tua personale put-» le parole gli morirono in gola, e sentì la mascella allontanarsi lentamente dal resto della faccia, fino a quando non si ritrovò con un'espressione di puro stupore impresso sul viso.

Immerse le mani nell'imbottitura del pacchetto, e ne estrasse un iPhone di ultimo modello, uno di quelli che sono praticamente un computer tascabile, sul cui retro svettava un'incisione.

Nel momento in cui si azzardò ad accenderlo, vide che era già stato riempito – le sue canzoni preferite, i suoi contatti, il suo blog ed i suoi siti, tutti lì. Persino le sue password, ma non si chiese come facesse Sherlock a conoscerle. Soprattutto, dietro tutte quelle fastidiose icone, c'era una foto di loro due. John e Sherlock – che ultimamente sorrideva di più – insieme. L'aveva scattata Mrs. Hudson, con una di quelle vecchie fotocamere a rullino, ma poi la foto era sparita senza un perché. Anche se si tenevano per mano, e forse quello era un motivo più che valido, per Sherlock.

Eppure era lì. Nitida, colorata, felice. E la libreria era piena di loro immagini, di quelle della famiglia di John, delle foto fatte da lui stesso.

Dopo un tempo che gli parve interminabile, Sherlock si voltò.

«Già. Mi spiace di averti disturbato, ma non penso di poterti assicurare di non farlo p-» fu zittito dall'altro, che gli si gettò letteralmente addosso. Rideva e lo baciava, affondando le dita nei suoi riccioli. Rideva, e lo baciava, e non riusciva a fare altro.

Anche Sherlock sorrise, e John non poté fare a meno di pensare che, ancora una volta, era maledettamente, fottutamente e meravigliosamente bello. Affondò il volto nell'incavo ossuto della sua spalla, trovandolo comunque il luogo più comodo del mondo.

«Sherlock...»
«John.»
«Ti amo. Ti amo anche se so che non me lo dirai mai.»

Sherlock ridacchiò, baciandolo ancora una volta, di sua iniziativa. «Almeno lo sai.»

Rimasero così, abbracciati, l'uno sull'altro, per molto tempo – anche se, quando erano insieme, il tempo non sembrava mai essere abbastanza. John ignorò la sua gamba, che dopo un po' smise anche di lamentarsi, dato che la testa di Sherlock vi si era appoggiata sopra.

Quando Mrs. Hudson salì per avvertirli che la cena di Natale era praticamente pronta e che Mycroft, Harry e gli altri sarebbero arrivati a momenti, ci volle un po' per farla desistere dalla voglia di scattar loro una foto così, come stavano. Non ci riuscirono, e dopo Natale John dovette sostituire di nuovo lo sfondo del regalo del suo stupendo compagno.

 

Mi ficco la mano in tasca, quasi automaticamente, e il mio pollice sblocca velocemente l'iPhone, abituato ad un movimento così ripetitivo. La foto è sempre lì. I sorrisi sono sempre lì. Giro il cellulare, l'incisione è sempre lì. “Al mio blogger. SH”.

Sono ridicolo. Sono un coglione, un cretino, un demente e chi più ne ha più ne metta.

Nella mia testa i pensieri scorrono così velocemente che nemmeno li seguo, so solo che ad un certo punto chiudo gli occhi. Funziona, eh. Ora, quando li riapro, state a vedere che ho preso una decisione. Me lo insegnò mia madre, questo trucco. Tu chiudi gli occhi – diceva – e poi vedrai che quando li riapri saprai perfettamente cosa fare.

Peccato che dopo averli riaperti non ho più bisogno di decidere. Sono già sul diciassettesimo scalino, di nuovo.

E Sherlock davanti a me.
Sherlock. Davanti. A me.

Però sembra preoccupato. Forse stavolta temeva davvero di aver esagerato, o è solo una mia impressione? Poco importa.
È qui, dall'alto della sua statura, ma sembra meno imponente, più impotente, se mi si passa il gioco di parole.

Lascio cadere la sacca a terra, e il bicchiere che ci avevo infilato per non so quale motivo si fracassa al suolo.

Afferro con rabbia il colletto della sua vestaglia e lo tiro contro di me, lo tiro giù, giù da quell'altezza, giù da quel piedistallo, giù al mio livello. Lo bacio più con rabbia che con dolcezza, e lo sento lasciarmi fare. Le sue labbra sono secche, ma ci sono abituato. Lo mordo, non gli lascio prendere fiato, ma lui non oppone resistenza. E questo mi fa ancora più incazzare.

Stavo per andare via. Stavo per lasciarlo qui, per lasciarmelo alle spalle. Io sono un completo deficiente, lui no, e lui lo sa, lui lo sa bene.

Quando lo lascio andare, mi sento prendere con delicatezza, e mi ritrovo con il viso immerso nella stoffa sul suo petto.

È migliorato, con gli abbracci.

«Vaf. Fan. Cu. Lo.» gli scandisco, in un sussurro, arpionando le mani dietro alla sua schiena, e stringendolo ancora di più a me.

«John. Per favore non farlo mai più.» dice in un respiro, così velocemente che le ultime parole sono quasi attaccate tutte insieme. sgrano gli occhi, liberandomi dall'abbraccio. Cosa diavolo aveva appena detto?

«Cos- Sherlock! Stai bene?»

«Ora sì.» è tutta la sua risposta. Poi mi poggia una mano sulla schiena e mi conduce in salotto. «Ed ora muoviti, che la colazione si raffredda.»



Nda: questa storia partecipa allo SherlockFest_ita, con il prompt "Sherlock/John, diciassette gradini".

  

  





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