Mi sveglio. Un dolore alla
testa mi martella incessantemente,
come se avessi bevuto; avverto un formicolio al braccio. Mi alzo e mi
guardo
attorno. Sono in un ambiente buio, presumibilmente una stanza di un
edificio
piuttosto grande; una fioca luce che filtra da una fessura nel soffitto
illumina appena le forme di quest’ambiente sconosciuto.
Cammino. Per terra sono
disseminate lattine e bottiglie
vuote, talvolta alcune cartacce. È indubbiamente un posto
poco accogliente, questo.
Non so se muovermi con circospezione, stando attento a ipotetici
antagonisti, o
se scappare il più velocemente possibile. Ma dove scappare?
Non si riesce a
comprendere la struttura di un così strano posto.
Come ci sono arrivato? Non
ricordo nulla. Non ricordo
nemmeno chi io sia e perché mi trovi qui. Non so dove andare
e, anche
sapendolo, non saprei come andarci. Decido di esplorare il luogo, alla
disperata ricerca di un segno, di una traccia che mi informi almeno su
qualcosa. L’aria è tiepida, il silenzio
è completo. Posso solamente udire
rimbombare il rumore dei miei passi mentre percorro con piede incerto
l’ignota
distanza che mi separa dal nulla.
Proseguo. Cammino a lungo, per
un tempo che pare eterno. In
questo luogo irreale lo stesso tempo sembra non avere consistenza,
sembra essere
ininfluente poiché tutto resta uguale. Mi sto veramente
spostando? Sì, a
giudicare dalle mie gambe e dalle bottiglie che mi lascio indietro; ma
è
l’unico indizio del mio moto senza meta.
Provo angoscia. Ho troppe
domande e nessuna risposta. Cosa
posso fare? Posso solo seguire il mio istinto! Grido. Chiedo se ci sia
qualcuno, se io non sia la sola anima che si aggira, solitaria, in un
luogo
vuoto. Nessuna risposta. Riesco solamente a udire la mia voce
rimbalzare sulle
pareti e tornarmi indietro sempre più flebile, gradualmente
affievolita,
proprio come le mie speranze di capire qualcosa.
Mi siedo, prostrato
dall’ignoranza completa. Mi metto le
mani davanti alla faccia, chiudo gli occhi.
L’oscurità non è molto maggiore di
quella in cui è avvolta la stanza. Riesco solo a sentire il
rumore delle mie
orecchie, l’unico che pare prodursi in un ambiente irreale.
Sono disperato.
Forse la natura umana non riesce a concepire
l’immobilità che è propria di
tante cose, la solitudine completa, il silenzio totale.
Crollo a terra. Mi rotolo su
quel pavimento sporco e
polveroso, grido, mi tiro i capelli. Non ho niente, non sono niente,
non penso
a niente. Il nulla mi avvolge, mi circonda, mi penetra in
profondità, finché io
stesso divento un tutt’uno con esso. L’insensatezza
delle cose mi appare
talmente evidente da non necessitare di essere spiegata.
Sto impazzendo: non ha
importanza nemmeno questo. Prendo a
gattonare come un bambino. Con la mia voce emetto un suono simile a una
sirena;
muovendo le labbra ne modulo la frequenza.
Non c’è nessuno che possa giudicarmi
un idiota per questi miei
comportamenti. Niente che possa essere disturbato dai rumori molesti
che io
provoco.
Proseguo nel mio atteggiamento
finché, avanzando carponi,
non pongo una mano su alcuni oggetti che non avevo visto. Mi abbasso
verso di
essi. Sono dei colori a olio ed un pennello. Li afferro: paiono in
buone
condizioni. Do un ulteriore, rapido sguardo al buio ambiente
circostante e,
guidato dalla poca luce disponibile, inizio a dipingere sul suolo.
Dipingo
segni casuali, disposti in modo totalmente illogico. Il pennello
percorre ampie
arcate, il colore si diffonde a mano a mano sul freddo suolo. Rido.
Forse sono
contento. Forse sono depresso, forse pazzo. Non importa. Mi viene
spontaneo
continuare in quel mio assurdo desiderio di dipingere.
Tutto ciò non ha
senso. Niente ha senso. Non importa nulla!
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