hurt.
Ancora non capisco se mi ha fatto più male perderti o averti.
Quanto
tempo impiegato per lasciarti andare. Pensarci ora lo fa sembrare anche
un po’ ridicolo, tutto quell’attaccamento che provavo,
tutto quel bisogno di darti un’altra possibilità, senza
che tu la chiedessi, senza che tu ti rendessi conto d’aver
fallito nella precedente. Ricordo che avevi sempre quell’aria
sospesa tra le nuvole, come se non ti accorgessi dei problemi che ci
allontanavano pian piano: eppure il tuo sguardo non era leggero ed
ingenuo. No, i tuoi occhi erano pieni di orgoglio, di rabbia, di
risentimento e di dolore. Forse ho sbagliato a dire che eri tra le
nuvole, forse sarebbe più azzeccato immaginarti tra mille
insormontabili e pesanti macigni, in grado di oscurare il Sole,
sottraendo la luce alla tua vita. D’altra parte, io non sono mai
stata abbastanza dura con te e probabilmente avrei dovuto: ci voleva
più pugno di ferro, più forza, perché da solo non
potevi spostare quei massi e avevi bisogno che qualcuno lo facesse al
posto tuo. Il problema di fondo, però, quello che mi impediva di
aiutarti e di starti vicino, era non sapere. Mi tenevi così
all’oscuro di tutto che potevo soltanto vagamente immaginare i
tuoi problemi, disegnarli nella mia mente come ovvi e comprensibili,
perché non mi fossero tanto sconosciuti. Ma chissà, forse
tu soffrivi per questo e io immaginavo quello; A ti feriva, mentre io
mi scervellavo su B, C, D e tutto il resto, soltanto perché ogni
passo avanti verso di te, per toccarti, per abbracciarti, per non
lasciarti andare via, era uno sforzo vano. Non sono riuscita a fare
breccia nella tua cortina di fumo, non sono riuscita a capire.
Comprendevo solo in parte, una parte minima ed insufficiente
perché potessimo davvero considerarci amici, perché ci
sentissimo, per un istante, vicini.
* * *
Non so
individuare con precisione il momento in cui tutto è cambiato,
non solo per te, intendo. Tu eri almeno dieci passi avanti rispetto a
me: mentre ti lasciavi inconsapevolmente alle spalle il nostro
rapporto, non cercandomi più, non rispondendomi più, non
guardandomi più, io ancora tentavo di venire a capo. A quel
tempo lavoravi al bar di Ezio, caro, vecchio e tirchio Ezio. Eri
incastrato da parecchio in quell’impiego, sin dall’ultimo
anno di liceo. Tu stesso ammettevi che ti sottraeva più tempo di
quanto avessi a disposizione, eppure qualcosa ti spingeva a non
licenziarti. All’università avanzavi spedito, voti
altissimi, esami impeccabili, tutto ti era comprensibile, immagazzinavi
informazioni come un automa. Ero esterrefatta dalla tua intelligenza,
ma il tuo era un sapere avido: non ti piaceva scoprire, non eri
curioso, ciò a cui avevi sempre mirato era essere il migliore.
Rispetto a chi, non l’ho mai saputo, e per chi... tantomeno.
Trascorrevo spesso e volentieri del tempo al bar, mentre tu lavoravi:
mi sedevo al solito tavolino vicino alla vetrata, quella che dava sul
parco, e portavo con me un libro o un giornale. Ero capace di
trascorrere ore lì, aspettandoti. In effetti, è sempre
stato questo, ti ho atteso seduta nell’anticamera della tua
confusione: ogni tanto ho gridato domande o frasi colme
d’affetto, ogni tanto mi sono alzata per cullarti quando avevi
paura, ogni tanto ho pestato i piedi arrabbiata per il tuo
comportamento. Però tutto questo non cambiava il fatto che ero
lì, avevo il mio posto insieme a tutte le altre persone che
tenevi fuori, che sistemavi come più preferivi per non sentirti
impegnato con nessuno, soffocato o in dovere. La nostra amicizia
è nata in un’esplosione di meraviglia, sembrava promettere
un futuro splendente, pieno di fiducia...
Tanta armonia e
tanta bellezza avrebbero dovuto mettermi in guardia. Tutto filava
troppo liscio: non dico che avremmo dovuto litigare, non dico che per
essere uniti sarebbe bastato scontrarsi una volta, non è questo.
L’assenza di dossi, però, era pericolosa. Potevano anche
non esserci attriti tra di noi, ma di certo nella vita dell’uno e
in quella dell’altro c’erano delle gioie, delle sorprese,
delle sofferenze e delle delusioni, eppure di questo non sentivo
nemmeno l’eco. Io mi raccontavo, mi spogliavo di ogni protezione
perché tu entrassi nella mia vita, ti parlavo di problemi e
paure che nemmeno a me stessa volevo confessare, ma nel rispetto del
bene che ti volevo e della fiducia che riponevo in te, facevo un
grandissimo sacrificio e mi abbandonavo alla sincerità. Era
spaventoso il modo in cui tu reagivi e soprattutto come mi facevi
sentire: quando l’ultima delle mie parole si spegneva, tu
rispondevi “Eli, lascia stare, non ci pensare, non è
importante”, come se fosse così riduttivo e banale. Che ti
parlassi di un’esperienza felice o di un dubbio che mi
perseguitava, che l’argomento fosse positivo e meno, tutto
ciò che eri in grado di fare era lavartene alla svelta le mani,
arrogandoti il diritto di farmi sentire sciocca. Questo, però,
non è stato un tuo sbaglio, bensì mio, che ti ho lasciato
giocare con le mie convinzioni, con i miei pensieri, con le emozioni e
con la positività che non mi vergognavo di mostrarti. L’ho
sempre pensato e ne sarò convinta finché vivrò:
mai permettere a nessuno di farti dubitare di te stessa. Sì, gli
amici o l’amore o i parenti o anche uno sconosciuto possono
spingerti a riflettere sulla persona che sei e sui tuoi difetti,
possono aiutarti a migliorare, a risolvere un problema, ad aprire gli
occhi sulla verità o sugli errori commessi; ma nessuno, amandoti
davvero, ti farà mai pensare di non essere all’altezza.
Ora, quale
poteva essere l’amara conclusione, secondo te? Se tu, con i tuoi
gesti e le tue parole, mi facevi sentire inetta, illusa, piccola ed
ingenua? Se sparivi quando cadevo, se non c’eri quando ti
cercavo, se non avevi spazio, né tempo, né pensieri per
me, come pensavi che potesse terminare il nostro spicchio di esistenza
comune?
* * *
Ricordo di una
mattina in cui non riuscisti a nascondermi il tuo sguardo triste. In
realtà, non sei mai stato bravo come credevi: le tue bugie sotto
i miei occhi erano lampanti. Quando dicevi di star bene e non era vero
lo capivo, ma non potevo continuare ad insistere perché mi
schivavi abilmente. Però quel giorno le tue difese calarono un
po’, non abbastanza perché un altro se ne accorgesse, ma
per me era tanto, una svolta notevole che, come dovetti costatare, ebbe
breve durata. Mi hai chiesto di abbracciarti e siamo rimasti in
silenzio per una decina di minuti. Poi il tuo cellulare ha squillato e
ti sei allontanato, cioè sei tornato al tuo posto distante, con
indosso la tua aria spavalda e intoccabile. In quel breve lasso di
tempo, ho visto il mio amico e poi l’ho osservato sbiadire sotto
i miei occhi, per la prima volta. Non sembravi nemmeno più tu ed
ho cominciato a rendermi conto che stavi creando una persona diversa,
una tua nuova e fredda personalità che sopprimesse ciò
che sei sempre stato nel profondo: ferito.
* * *
C’è
stato un periodo di buio totale, con te, durante il quale ti mandai un
paio di messaggi e ti chiamai, senza nessun risultato soddisfacente. Ho
incontrato persino tua madre, dopo due settimane di nulla, rimasta
sconcertata nel sapere che non ci vedevamo da così tanto tempo.
“Sei la sua amica più cara!”, commentò. Non
sapevo se ridere o piangere, infatti scrollai semplicemente le spalle:
non ero la tua amica più cara, perché altrimenti non mi
avresti posto nel dimenticatoio. Spesso ho pensato di essere egoista,
di non giustificarti abbastanza. Spesso mi sono detta “sono i
problemi che lo fanno agire così”. Mi sentivo cattiva e
sbagliata, pur di non ammettere che la responsabilità poteva
essere anche tua. Ci siamo ritrovati giorni dopo al bar di Ezio e come
se niente fosse tu mi hai portato del caffè ed una ciambella e
mi hai chiesto come stavo. Ti ho guardato allibita e senza parole,
comprendendo al volo un atteggiamento che per anni non avevo messo a
fuoco: eri certo di me, eri sicuro, avresti scommesso tutti i tuoi
soldi, tutti i tuoi averi, forse persino te stesso, se ti avessero
chiesto “lei ci sarà?”. Non avevi il benché
minimo dubbio che ti avrei accolto a braccia aperte per
l’ennesima volta, figliol prodigo, sapevi che avrei ripreso a
parlare di me, dei miei studi, degli amici, della situazione a casa.
Pensavi bene di poter mettere in pausa la nostra amicizia quando
più ti faceva comodo e tornare a riprenderla se ne avevi
l’occasione. In quel momento mi chiesi cosa sarebbe successo se
non ci fossimo incontrati al bar, quanto tempo sarebbe passato prima di
sentirti o vederti e compresi che non ero disposta ad essere un
part-time, per te. Ti ho risposto in modo naturale, ma conoscendomi
sapevo che quel tono celava un cambiamento: mancava la più
profonda nota di affetto. Voleva dire che, pur soffrendo, stavo
pensando di lasciarti andare.
* * *
Non ti incolpo
per come è andata tra di noi. Non mi interessa scovare i
perché, ciò che è accaduto è irreversibile
e noi lo sappiamo bene. Le persone possono deluderti e ne siamo
consapevoli. Infatti non serbo rancore e il pensiero di te mi fa
sorridere, perché, a prescindere da tutto, ti ho voluto bene
come a nessun altro prima. Per me questo è tanto, per me questo
basta e la speranza è tornata, dopo la tristezza.
L’unica
nota dolente nel mio pensiero è che non riuscirai a vederla allo
stesso modo. So che per te una delusione è una macchia
indelebile e che la tua fede si spegne giorno dopo giorno. Ho sempre
pensato a te come ad una persona forte, in grado di agire sostenendo le
conseguenze delle sue scelte e di sopportare le inaspettate
sregolatezze della vita, ma ho dovuto ricredermi. Un dolore ti sfianca,
non ti permette più di credere in nulla, gli lasci portar via la
magia e non ti stupisci più. Una volta mi è stato detto e
dimostrato che quando tutto va male, si può tornare a sorridere
e a sperare. Questo grazie alla meravigliosa abilità di chi ci
ama o di chi incontriamo improvvisamente di ricondurci in un mondo
incantato, anche solo per un istante. Ecco, so che tu non daresti mai
peso a queste parole, so che abbasseresti il capo, scrolleresti la
testa e ridendo borbotteresti “Bah, non ne sono sicuro”.
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