Di trucioli, d'amore e di morte
Pinocchio ogni sera si
siede sull’orlo del teatrino di
Mangiafuoco e guarda verso l’alto, verso di lei, la bambola
di porcellana.
Ammira il suo vestito verde di taffetà, le lunghe ciglia
scure, i suoi limpidi occhi azzurro cielo, i folti capelli ramati che
le cadono morbidi sulle spalle, il suo viso rotondo e la sua pelle,
così rosea, così perfetta. Pinocchio fissa
incessantemente la sua amata, fino a colmarsi gli occhi di lei, fino a
sentir fremere qualcosa dentro al suo corpicino fatto di assi di legno
e chiodi. Ma lei non ricambia mai il suo sguardo, seduta altezzosa
sulla sua mensola guarda verso la finestra. Pinocchio darebbe di tutto
perché la sua amata bambola voltasse anche solo un secondo
il viso paffuto verso di lui; venderebbe l’anima al diavolo
se l’avesse. Ma la fragile creatura forse non lo sa, o forse
non le importa. Non si gira, continua a guardare il cielo.
Pinocchio ogni notte, coricato sulle assi del teatrino, piange lacrime
di vernice e segatura e sente i trucioli rimescolarglisi dentro. Pensa
alla sua bambola di porcellana e a come sarebbe incredibilmente bello
arrampicarsi fin sulla sua mensola, prenderla tra le braccia e dirle:
“ora, fuggiamo”. E sarebbe incantevole non avere
più fili, non essere più legati a niente, essere
liberi. E potrebbero viaggiare insieme, lui e l’oggetto del
suo desiderio, per mari e monti, fino all’altro capo del
mondo. E potrebbero vedere infinite albe e tramonti, tramonti e albe. E
tutto nei loro occhi di plastica allora apparirebbe così,
semplicemente, amabile. Non ci sarebbe più posto per lacrime
e paure.
Pinocchio ha deciso, non vuole più aspettare. È
giunto il momento di rischiare. Una sera, dopo che Mangiafuoco
è andato a dormire, il burattino, tendendo al massimo i suoi
fili, si avvicina alla cassetta dove il grosso burattinaio ripone i
suoi attrezzi di lavoro. È chiusa bene la cassetta ma
pinocchio dopo qualche sforzo riesce ad aprirla, scheggiandosi le
manine di legno. Guarda il contenuto della cassetta e prende quello che
cercava, una pinza. Pinocchio non sta più nelle pelle, non
vede l’ora di strappare i fili che gli impediscono di
muoversi liberamente e di fuggire con la sua amata bambola di
porcellana. Pinocchio solleva la forbice sopra di sé e zac, zac, una dopo
l’altra le catene della sua prigionia vengono recise. Ora
è libero.
Lo coglie una gioia irrefrenabile, vorrebbe correre, ballare e gridare.
Ma non c’è tempo, entro l’alba deve
riuscire a raggiungere la sua amata. Pinocchio allora scende dal
teatrino e raggiunge lo scrittoio che si trova sotto la mensola della
bambola di porcellana. Comincia ad arrampicarsi, incastrando le scarpe
ben verniciate tra i pomelli dei cassetti. Una volta giunto in cima gli
basterà allungare le braccia sopra il capo per aiutare la
sua amata a scendere dalla mensola. Potrà finalmente
stringerla a sé, potrà dirle le mille frasi
d’amore che ha pensato per lei ogni sera e lei
sarà sua, solo sua, per sempre.
Pinocchio però, troppo preso dai suoi felici pensieri non
s’accorge d’aver appoggiato il piede su un pomello
difettoso. Il pezzo di legno infatti, eroso dal tempo, cede. Il
burattino perde la presa e cade. Precipita verso il pavimento.
E’ un attimo, solo il tempo di pensare con tristezza addio mio dolce sogno
d’amore. Il burattino si scontra con il duro
pavimento di marmo, le giunture che tengono insieme le assi del suo
corpo si sfaldano, pezzi di legno, trucioli e chiodi si disperdono per
tutto il pavimento. Mangiafuoco l’indomani dovrà
darsi da fare pure ripulire tutto quanto.
La bambola di porcellana intanto, ignara e incurante di tutto, continua
a guardare il cielo.
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