E
questa è la mia prima fan fiction nata dallo sclero di me
medesima che sono una fan di Harry Potter.
Non
tratta proprio di Harry ma di quello che è successo prima che
lui nascesse. Uno sguardo, in parole povere a quella che è
stata la vita ad Hogwarts di Lily, James, Sirius, Remus, Peter,
Severus & co.
Spero
che siate clementi. E che non mi lanciate contro le uova. È la
mia prima fic su Harry Potter... spero che vi piaccia...
ATTENZIONE:
leggete Harry Potter e pensate al piccolo maghetto con gli occhiali
che ha riempito le pagine dei sette libri della saga della Rowling.
E avete ragione. Io ho solo preso in prestito i personaggi della saga
fantasy e li ho introdotti in questa storia che altro non è
che la versione personale del prequel mai scritto dalla scrittrice
inglese.
Quindi,
tutti i personaggi citati, tranne quelli inventati da me, non mi
appartengono, ma sono della Rowling. La fan fiction non vuole
offendere la sensibilità dei fans dei libri o le opere della
scrittrice stessa, ma vuole solo rendere omaggio ad una delle opere
fantasy più belle e meglio riuscite degli ultimi anni.
Finito
questo pezzo che mi sembra d'obbligo se non mi voglio trovare
qualcuno a casa che mi chiede i diritti...
Comincia
la storia.... Buona lettura...
Erba
fondente, crine di unicorno: come tutto ebbe inizio
(primo
anno)
12
Luglio 1960
Tinworth,
Cornovaglia, Gran Bretagna.
Aredhel
sospirò passando una mano sulla pancia. Gli occhi erano pieni
di lacrime che lente scendevano sulle mani giunte sul ventre come
gocce di pioggia, come piccoli cristalli pianti da una roccia
millenaria.
Era
sola. Aveva paura. Paura che qualche cosa andasse storto, che nulla
sarebbe stato come prima dopo che la piccola che portava nel grembo
avrebbe visto la luce. E mancava davvero poco. Lo sentiva. Ogni
minuto che passava era l'inesorabile e lento avvicinarsi del parto.
Cosmo
si era Smaterializzato per chiedere aiuto ai suoi genitori. Sapeva di
essere partito già troppo tardi e che il parto di sua moglie
non sarebbe stato per niente facile, ma aveva pensato comunque che
andare dai suoi per chiedere aiuto sarebbe stata la scelta migliore.
Aredhel
sospirò affranta. Con gli occhi cercò per la stanza
qualche cosa che la potesse far distrarre, che la distogliesse da
quel dolore che sembrava spaccarla dentro. Si voltò e vide la
foto di sua madre e di suo padre abbracciati. Belli e felici. Sua
madre era vestita di bianco. Suo padre aveva il più bel
vestito da cerimonia e mostrava il suo sorriso più smagliante.
Lo sguardo di Aredhel indugiò sul ciondolo, il ciondolo a
forma di triangolo con un cerchio e un'asta al centro che l'uomo
portava al collo e un brivido di disgusto e di paura la percorse da
capo a piedi. Il ciondolo che portava al collo suo padre era stato il
motivo di rottura tra lei e la sua famiglia non meno di cinque anni
prima, quando sia lei che Cosmo, appena diciottenni, contro il parere
delle rispettive famiglie, scapparono e si sposarono.
Aredhel
ricordava poco di quel giorno, quasi nulla. Ricordava solo che un
colpo di bacchetta aveva aperto il suo baule e aveva cominciato a
riempirlo, mentre sua madre le gridava contro ogni tipo di insulto,
sputandole contro il suo livore e le sue peggiori maledizioni. Ma non
servì a nulla. Una volta svuotato l'armadio, Aredhel lasciò
la casa materna, mentre la madre, sulla porta, le gridava contro che
una volta lasciata la sua proprietà non avrebbe dovuto
metterci mai più piede. Non si voltò una sola volta.
Per la prima volta, Aredhel era davvero sicura di quello che stava
facendo. I suoi occhi erano puntati su Cosmo che le tendeva la mano.
Dietro di lui una moto. Cosmo amava gli oggetti meccanici Babbani e
si divertiva a inserirci quale magia ogni tanto rendendoli quasi
completamente magici. In quel caso aveva messo su una moto niente
male, che aveva vinto con una buona mano al poker nel pub vicino alla
chiesa di Godric's Hollow. Poco importava ai due fidanzatini quanto
fosse strano da vedere, almeno per dei semplici Babbani, una moto con
caricati sopra due vecchi e pesanti bauli. Quello che sapevano era
che dentro quei bauli che per sette anni avevano contenuto divise e
pergamene e libri della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts
stava rinchiusa la chiave della loro nuova vita e della loro libertà.
Quello che interessava ai due innamorati era solo di vivere il loro
amore senza essere più contrastati da nessuno.
E
così fu. Almeno fino a che Aredhel non si rese conto, dopo
cinque anni, di essere rimasta incinta. E fu in quel momento che con
orrore, la giovane si rese conto che quella era la sua punizione, il
risultato che almeno una delle maledizioni gridate da sua madre
avesse colpito il segno. La gravidanza non si dimostrò per
niente facile e sin dai primi mesi la giovane ebbe grossi problemi di
salute. Ben presto Aredhel si rese conto che mettere al mondo quella
bambina le sarebbe costato davvero caro, molto più di quanto
avrebbe mai immaginato. E la prova lampante era quel più che
probabile tragico epilogo.
Sollevò
gli occhi celesti verso la finestra. Cosmo non si vedeva. Possibile
che ci mettesse tutto quel tempo?
Il
cielo cupo sovrastava Tinworth e un forte vento spazzava le colline
altrimenti ordinate. Un lampo squarciò il cielo e subito il
tuono risuonò cupo tra i vasti spazi aperti e sconfinati della
pianura inglese. Aredhel gridò forte e si contorse. Il dolore
la stava spegnendo lentamente e lei si sentiva allo strenuo delle sue
forze.
Fu
allora che un liquido caldo scivolò lungo la gamba della
giovane.
La
pelle candida come la neve venne macchiata da un rivolo rosso che
scivolò lungo la gamba liscia e senza rumore si ruppe sul
pavimento. Per quanto la giovane non sapesse come nascevano i
bambini, era sicura che non era normale perdere tutto quel sangue.
Rovesciò
la testa sullo schienale della poltrona e portò una mano sugli
occhi e si rese conto che stava tremando. Aveva paura. Paura per lei,
per la sua bambina. Paura che Cosmo non arrivasse in tempo.
-Perché
non ho seguito il consiglio di Cosmo? Perché non sono andata
al San Mungo?-
L'ennesimo
grido disperato di Aredhel riempì la stanza, lacerando il
silenzio, senza che nessun rombo di tuono lo celasse.
Ma
perché Cosmo tardava tanto? Possibile che fosse accaduto
qualche cosa.
Aredhel
cercò di non pensare. Chiuse gli occhi e asciugò con
una mano le lacrime che le bagnavano le guance e le scendevano lungo
il collo. Il vento ululava sinistro fuori mentre la pioggia
cominciava a spazzare le colline verdi.
Una
tempesta era in arrivo. Aredhel odiava le tempeste. Aredhel odiava
tutto quello che distruggeva le cose belle. Perché Aredhel era
l'impersonificazione della bellezza. Aredhel era una Veela.
Cosmo
arrivò sulla soglia delle casa di famiglia. Nonostante si
fosse appena Materializzato, la pioggia batteva talmente forte che
bastarono quei pochi secondi di attesa che qualcuno aprisse affinché
lui si bagnasse completamente.
Dietro
il grande portone di legno vecchio e consunto, Cosmo vide apparire la
faccia altrettanto consumata dal tempo e da vari duelli di un uomo
anziano con i capelli bianchi e arruffati e gli occhi piccoli di uno
stupefacente azzurro.
“Cosmo?”
disse in un sussurro, allargando la sorpresa dalla voce a tutto il
volto che parve stirarsi da tutte le rughe e tutte le cicatrici. “Non
pensavo che ti avremo rivisto. Da quando sei scappato con quella
Veela non ci hai dato più tue notizie e...”
“Nonno...
Non ho tempo di stare a parlare... Dov'è la mamma?”
chiese Cosmo entrando senza nemmeno chiedere il permesso.
La
vecchia casa di Cosmo Prewett non era affatto cambiata da quando
l'aveva vista l'ultima volta.
Il
salotto era sempre troppo ingombro e nel caminetto stava un calderone
in peltro molto grande dove Demetra Prewett, madre di Cosmo, faceva
bollire nuove pozioni e nuovi intrugli per arricchire le sue scorte.
Loto Prewett, il vecchio nonno di Cosmo stava sempre seduto in una
vecchia e tarmata poltrona vicino al fuoco per -come era solito dire-
asciugare le ossa dall'umido accumulato in un intera vita.
Lana,
la gatta bianca che quando Cosmo lasciò la casa di famiglia
era poco più di un cucciolo, talmente piccola da stare tutta
in una mano, guardò il nuovo arrivato con i suoi occhi ambrati
e miagolò debolmente per poi, con passò svelto,
scappare verso il divano, dietro il quale sparì accoccolandosi
tra i cuscini.
Cosmo
non si curò di Lana, entrò a grandi passi nella casa e
disperato gridò:
“Mamma!
Mamma ti prego. Ho bisogno del tuo aiuto!”
Demetra
Prewett scese lentamente i pioli della scala in legno che si trovava
di fronte all'ingresso. Nel suo viso c'era dipinto lo stupore di
trovare in casa suo figlio e allo stesso tempo preoccupazione nel
vedere lo stesso ragazzo che aveva lasciato la sua famiglia per
seguire una Veela e che per cinque anni non si era degnato di mandare
un gufo alla sua famiglia per dir loro che stava bene e di non
preoccuparsi. Ma non era quello che faceva ribollire il sangue a
Demetra. Fosse stato il fatto che Cosmo aveva perso la testa per una
donna bellissima, con parte di sangue di Veela nelle vene, le cose
non sarebbero state così complicate. Quello che Demetra non
sopportava era che suo figlio avesse perso la testa per la figlia del
più fidato seguace di Gellert Grindelwald, il più
grande Mago Oscuro che la storia avesse mai conosciuto e che solo
Albus Silente, quindici anni prima, era riuscito a sconfiggere e
mettere in catene nella stessa prigione di Nurmengard, dove
Grindelwald rinchiudeva i suoi oppositori quando era al massimo del
potere.
Era
stato questo il motivo di dissidio tra le due famiglie. Aredhel era
la figlia di un Mago Oscuro e di una Veela incline anche lei al male.
A nulla valsero le ragioni di Cosmo quando cercò di spiegare
che Aredhel era differente. Che anche lei era una Grifondoro come
lui, che anche lei odiava la Arti Oscure e che appena maggiorenne
avrebbe lasciato sua madre per andarsene via. Demetra Prewett aveva
conosciuto la guerra e il dolore provocato da Grindelwald e non aveva
nessuna intenzione di far entrare in casa sua una giovane che avesse
nelle vene lo stesso sangue di un traditore.
Ma
in quel momento, cinque anni di silenzi si cancellarono davanti agli
occhi azzurro scuro del figlio che con i capelli biondi completamente
bagnati tremava per il freddo e per la paura.
Rimasero
a guardarsi per qualche secondo poi, rispondendo ad un impulso
interiore, Demetra abbracciò il figlio e scoppiando a piangere
disse accarezzandogli una guancia:
“Sei
tornato a casa. Finalmente... Sei tornato a casa!”
Dopo
un primo attimo di sorpresa, Cosmo accolse l'abbraccio della madre e
stringendola in lacrime le mormorò:
“Mamma...
Solo tu mi puoi aiutare...”
Demetra
sollevò lo sguardo e guardò Cosmo negli occhi. Era
terrorizzata e non capiva il motivo per cui suo figlio le potesse
chiedere aiuto. Cosmo prese un respiro profondo e disse:
“Mamma...
Aredhel sta per partorire. Ma io non posso aiutarla. Non so cosa fare
e...”
Il
viso di Demetra si indurì e in un solo attimo cinque anni di
silenzio si trasformarono in un muro invisibile che lei eresse tra di
sé e suo figlio. E dura rispose:
“Portale
i miei auguri...” e stava per allontanarsi quando Cosmo
cercando di convincerla esclamò:
“Stiamo
parlando di tua nipote accidenti! Come puoi mettere la tua rabbia e
il tuo rancore prima di tua nipote...” e prendendo un po' di
fiato con la voce incrinata, Cosmo aggiunse: “... come puoi
permettere che sia mia figlia a pagare gli errori miei e di mia
moglie...”
Ignatius
Prewett entrò dalla porta sul retro, dove stava il grande
giardino della casa. Doveva aver raccolto pus di Bubotubero visto che
una volta dentro portò dietro di sé un forte odore di
benzina.
“Che
succede!” disse poggiando la bacchetta su di un ripiano.
Cosmo
sentì il cuore stringersi. Se avesse cominciato a litigare
anche con suo padre, per Aredhel non ci sarebbero state speranze.
“A
quanto pare tu e tua moglie state per diventare nonni, figliolo
caro!” si intromise il vecchio Loto.
Ignatius
si irrigidì e guardò il volto del figlio ancora bagnato
dalla pioggia e dalle lacrime. Non riuscì a dire una sola
parola. Dopo anni di silenzi, Cosmo, il suo unico figlio, era tornato
a casa piangendo come un bambino per dir loro che stavano per
diventare nonni. Ignatius non capiva perché ma trovava il
tempismo del figlio inaudito. Curvò la schiena e poggiò
i guanti di pelle di drago sporchi dentro il lavabo e mormorò:
“Sono
felice per te!” e sollevando la testa chiese: “È
un maschio o una femmina?”
Demetra
continuò a guardare il figlio e rispose con un sibilo:
“Non
è ancora nata... Ma a quanto pare è una femmina!”
e dopo aver deglutito, con la voce che cominciava pericolosamente ad
incrinarsi disse: “Il parto è l'unica cosa che noi maghi
non possiamo risolvere con la magia. Deve essere la natura a fare il
suo corso...” e si stava allontanando quando Cosmo disperato
replicò:
“Non
è la maga che sto cercando. Sto cercando mia madre, una donna
che ha messo al mondo un bambino e che può aiutare mia moglie
a partorire mia figlia...” e piangendo concluse: “Mamma...
Ti prego... Dopo potrai chiedermi tutto quello che vuoi. Ma vieni ad
aiutarmi, ti prego!”
Demetra
si voltò lentamente e guardò il figlio. Due sentimenti
si fecero largo in lei: il primo di rivalsa sulla ragazza, che le
diceva di stare ferma dov'era e di lasciare che la natura facesse da
sola; il secondo era l'amore per un figlio che disperato chiedeva il
suo aiuto.
Sospirò
e voltandosi verso il marito disse:
“Ho
bisogno anche del tuo aiuto, caro... Nonno... È meglio che tu
rimanga a casa...” e guardando il figlio aggiunse: “Mi
Smaterializzerò con te... Non so dove abiti...”
Cosmo
annuì e poi sorrise.
Forse
aveva ancora qualche speranza.
Grimmauld
Place numero 12, Londra. Gran Bretagna.
Kreacher
seguiva la vecchia madre per la casa, attento a stare un passo dietro
a lei per rispetto, ascoltando con attenzione tutto quello che gli
diceva:
“Figlio
caro, ormai io sono una vecchia elfa. Tra poco avrò il giusto
premio per tutti i miei servigi... La padrona mi taglierà la
testa e l'appenderà vicino a quella di mia madre...”
La
vecchia elfa disse quella frase come se quello che la padrona stava
per fare non fosse un omicidio ma un atto dovuto, un regalo che
tutti, un giorno all'altro, avrebbero ricevuto. Kreacher deglutì
e guardò verso le scale dove altre due malinconiche teste
appartenute a sua nonna e al suo bisnonno pendevano sinistre nel
muro, come trofei di caccia. Un giorno anche quello sarebbe stato il
suo destino. Un giorno anche lui avrebbe aspettato con gioia il
momento in cui la padrona avrebbe messo fine ai suoi giorni
tagliandogli la testa. Ma per il giovane Kreacher quel momento era
ancora lontano.
“La
signora Walburga Black ha avuto un bambino, tu lo sai Kreacher. Io
non posso più curarmi di lui. Sono sorda e non sentirei quando
piange. E le mie ossa stanno marcendo...” sorrise rivolgendo
uno sguardo amaro al figlio che non colse il vero significato dello
sguardo e continuò a guardare stolidamente sua madre. L'elfa
riprese fiato con difficoltà e continuò: “Devi
farlo tu al posto mio, so che puoi farlo...” prese un grosso
respiro per l'ennesima volta e questo risuonò sinistramente
nella cucina. Per Kreacher fu come sentire quando qualcuno toglie la
testa fuori dall'acqua dopo essere stato per molto tempo in apnea.
Kreacher continuava a stare in silenzio e permise alla donna di
aggiungere: “Ormai hai raggiunto l'età per poter servire
il padrone da solo, senza il mio aiuto. E il padrone Orion si fida
di te...” e voltando gli occhi rossi verso il figlio aggiunse:
“... Tu sarai la sua spalla, la sua ombra... Il suo servo più
fedele. Amerai ciò che ama lui. Odierai ciò che odia
lui... E servirai i Black e le loro idee fino alla morte...”
Kreacher
annuì chinando la testa.
“Kreacher...”
La
voce di Walburga Black, la padrona di Kreacher, risuonò nella
stanza imperiosa e ostile. Kreacher senza nemmeno degnare di un solo
sguardo la madre uscì dalla stanza e con passo strascicato si
avvicinò alla sala dove stava la padrona. Fece un inchino
sull'uscio e si piegò talmente tanto che la fronte stava quasi
per toccare il terreno. E senza alzarsi chiese:
“La
padrona desidera? La padrona vuole che Kreacher faccia qualche cosa
per lei?”
Walburga
guardò Kreacher per un attimo, poi tornando a sistemare la
coperta nella carrozzina del figlio, con disgusto disse:
“Certo
che mi servi, piccolo idiota... Stai con Sirius! Io devo fare una
cosa. Ci metterò un po'!” e alzandosi lasciò il
piccolo nella carrozzina.
Kreacher
si fece da parte lasciando l'uscio libero alla padrona e chinandosi
di nuovo aspettò che la donna si fosse allontanata del tutto
prima di entrare nella sala.
Con
il solito passo lento e strascicato si avvicinò al carrozzino
del bambino e arrampicatosi sulla sedia occupata precedentemente
dalla padrona con qualche difficoltà, guardò dentro.
Vide un bellissimo bambino, che dormiva beato, con i pugni stretti e
la piccola bocca appena socchiusa. Il naso era piccolo, quasi
impercettibile nell'ovale e le orecchie erano perfette. I capelli
neri e lisci erano piuttosto folti e nonostante Kreacher non se ne
intendesse di bambini umani, per quanto avesse pochi mesi il piccolo
Black sembrava leggermente più lungo di quello che normalmente
erano i bambini degli umani.
“Il
padroncino deve dormire o la padrona si arrabbierà con
Kreacher se lui si sveglia...” mormorò Kreacher con un
ringhio basso e vagamente minaccioso con lo scopo di tenere calmo il
bambino. Sirius rimase addormentato, senza nemmeno curarsi di chi gli
stava vicino e Kreacher, lentamente, si mise seduto guardando la
punta degli orribili piedi che faceva dondolare annoiato seduto sulla
sedia.
Fu
allora che, nel silenzio della casa, talmente spesso che quasi si
poteva distinguere il respiro leggere del piccolo Sirius, che
Kreacher sentì il mormorio concitato di Walburga e di Orion.
Il piccolo elfo domestico tese le enormi orecchie in ascolto. Non
riuscì a comprendere nulla ma il rumore di una lama che
fendeva l'aria e il sinistro tonfo che riempirono il silenzio della
casa svuotandolo di qualsiasi altro suono esterno per quella che
sembrò un eternità, fece rabbrividire l'elfo che,
stupito, si accorse che la sua vista si stava annebbiando e le guance
erano bagnate da calde lacrime.
“Kreacher!
Kreacher vieni qua immediatamente! Devi pulire tutto questo schifo!”
gridò Orion con lo stesso tono usato dalla moglie poco prima.
Kreacher,
quasi per un secondo ebbe come l'istinto di trattenersi. Non voleva
andare in cucina. Sapeva cosa avrebbe trovato. E sapeva che non gli
sarebbe piaciuto. Ma lentamente, seguendo quel maledetto istinto di
elfo domestico, i piedi si mossero e, un passo dopo l'altro, arrivò
alla cucina con ancora gli occhi annebbiati dalle lacrime. Aprì
la porta e quasi svenne. Nel pavimento si era allargata una grande
macchia scura rossa. Sangue. Vicino, steso per terra, c'era quello
che poteva sembrare un mucchio di stracci ma che, dopo una seconda
occhiata più attenta, Kreacher si accorse, era un corpo.
Decapitato... Il corpo di sua madre.
Trattenne
un singhiozzo mentre Orion, mettendo il mantello disse a Walburga:
“Tu
stai con Sirius... Porto io ad impagliare la testa... E ordina a
quell'elfo di pulire bene. Non ho intenzione di mangiare sopra un
pavimento ancora lordo di sangue sporco di elfo domestico...”e
uscì dalla cucina, percorse il lungo corridoio buio e aprì
la porta e con un piccolo pop,
udibile nonostante l'uscio chiuso, si Smaterializzò
davanti all'ingresso della casa.
Walburga
sorrise per un attimo, pulendo le mani in un vecchio canovaccio. Poi,
voltandosi verso l'elfo disse severa:
“Hai
sentito cosa ha detto Orion? Pulisci tutto quel sangue, lurido elfo!”
e senza aggiungere altro andò verso il figlio che aveva
cominciato a piangere disperato.
Kreacher
guardò l'enorme pozza rossa in silenzio, con gli occhi
sbarrati, dal quale scendevano copiose lacrime. Poi, voltandosi
lentamente verso il lavabo, prese uno straccio si inginocchiò
sul pavimento di pietra, passò il dorso della mano dalle
lunghe dita sotto il naso per asciugare le lacrime che scivolavano
impietose e in silenzio cominciò a pulire il sangue. Fregò
con forza, senza badare all'odore nauseante di ferro che gli
perforava le narici e lo stomaco fino a che anche le sue mani e le
sue braccia ne furono piene. Poi con passo strascicato, piangendo si
avvicinò al lavabo, roteò la manopola del rubinetto e
lasciò che il gettito freddo lavasse via le impurità.
Non pensava a nulla, se non al corpo di sua madre gettato via come se
fosse la più comune immondizia e guardando il sangue che
riempiva il fondo bianco del lavandino cominciò a ripetere:
“Ora
lei è felice. Ora lei è felice. Ha avuto quello che
voleva”
Ripeté
quel mantra per un'ora. Poi, uscendo dalla cucina, pulì il
naso sulla federe sporca che usava come vestito e andò nel
salotto. La padrona stava leggendo un libro, il piccolo dormiva e
dei ferri da calza lavoravano a qualche cosa che all'elfo sembrò
una tuta per neonato.
“La
padrona desidera?”
Walburga
sollevò lo sguardo su Kreacher e tornando a leggere chiese
sgarbata:
“Hai
finito?”
“Certo
padrona! Posso aiutarla in qualche modo?” chiese Kreacher
inchinandosi e tornando a toccare il pavimento con il naso.
Walburga
si voltò e guardando l'ora nel suo orologio disse:
“Tra
poco mio marito tornerà a casa. Voglio che tutto sia pronto. E
smettila di stare lì chinato come uno stupido. Muoviti che ho
fame!”
Kreacher
annuì e sorrise. Ora era lui che si prendeva completamente
cura dei suoi padroni e del loro figlio. Ora era lui l'unico di cui
la famiglia Black non poteva far a meno.
Godric's
Hollow, West Country. Gran Bretagna.
Un
cane latrava forte nel giardino di una grande e bella casa nei pressi
di Godric's Hollow.
Charlus
Potter aprì un occhio e sollevò la testa dal cuscino.
Sua moglie Dorea si mosse nel sonno e sorridendo mormorò:
“Te
lo avevo detto io che prendere un Crup ti avrebbe impegnato, ma tu
hai voluto fare di testa tua!”
Charlus
guardò la moglie con rimprovero e sollevandosi dal letto mise
la vestaglia e disse:
“Adesso
abbiamo qualche cosa da difendere, non trovi?” e sorridendo
uscì fuori.
Guardò
con un sorriso verso la camera del loro figlio di appena due mesi e
poi scese le scale per raggiungere l'ingresso che lo avrebbe
introdotto nel bellissimo giardino posto nel retro della casa.
Rabbrividendo un po', Charlus Potter si strinse nella sua veste da
camera e uscì in pantofole nel giardino bagnato da una
pioggerellina fitta. Il piccolo Crup, simile ai Jack Russell Terrier,
si avvicinò al padrone, chinando la testa e scodinzolando.
“Truffle!
Che diavolo ti prende? Ti fa male la coda, eh?”
Qualche
giorno prima infatti, aiutato da un vecchio amico che amava curare le
Creature Magiche, decise di far tagliare la coda, altrimenti
biforcuta del giovane Crup, per attirare meno l'attenzione dei
Babbani.
Charlus
aveva pensato che fosse carino comperare un animale domestico in
concomitanza con la nascita del suo primo -e molto probabilmente
unico- figlio. Ma ben presto dovette fare i conti con l'età
che cominciava ad avanzare. Non aveva più le forze di un
ragazzino e curare sia un cane che un bambino di appena due mesi si
stava dimostrando un'impresa molto più dura di quanto avesse
immaginato.
“Caro
Truffle ho aspettato troppo per diventare papà, vero?”
chiese malinconico il mago.
Il
piccolo Crup gli leccò il viso e scodinzolò felice,
correndo poi nella sua cuccia di legno che Charlus aveva costruito
sotto una grande e secolare betulla al centro del giardino. Il suo
padrone sorrise e prima di allontanarsi si raccomandò:
“E
non abbaiare più, Truffle. Finirai per svegliare tutto il
vicinato, se continui!” e dando un rapido sguardo ai rami
ancora carichi di fiori di centinodia, al biancospino, agli agrifogli
che cominciavano a fiorire, rientrò in casa.
Il
salotto era quasi del tutto simile ad un comune salotto babbano.
Niente faceva presagire, a prima vista, che in quella casa abitasse
una coppia di maghi. Ma se si osservava bene, se si guardavano le
foto nelle cornici e i quadri antichi alle pareti, allora si notava
che i soggetti che vi erano raffigurati, più o meno composti,
dormivano e russavano dentro le loro cornici. Sul tavolino c'era la
bacchetta di Charlus -frassino, tredici pollici, anima di crine di
unicorno- poggiata su di una copia della Gazzetta del Profeta, che
raffigurava la foto di un giovane mago, tale Lord Voldemort -mai
sentito nome pi strampalato per un mago- che era stato nominato per
qualche proposta contro i Babbani e che, a quanto pareva, stava
riscontrando l'appoggio di molti purosangue.
-Ci
manca solo un'altra guerra e siamo apposto!- pensò Charlus
sistemando la piantina di malva che stava sul davanzale della
finestra tonda vicino alle scale e con passo stanco, un gradino per
volta, cominciò a salire.
Una
volta al piano superiore sospirò e guardò la camera di
suo figlio.
James
Potter era nato in marzo e sia Charlus che Dorea lo avevano atteso a
lungo. Era arrivato quando meno se lo aspettavano, quando non ci
speravano ormai più.
E
da quando era nato, Charlus Potter aveva sperimentato un nuovo amore,
molto più grande di quello che aveva provato per Dorea, quando
l'aveva conosciuta. Charlus Potter si rese presto conto che sapere
di avere un essere così piccolo tra le braccia era una
sensazione nuova, che non aveva provato nemmeno quando si era
sposato, quando aveva cavalcato per la prima volta una scopa, quando
aveva evocato per la prima volta un Patronus corporeo.
James
era suo figlio. Il regalo più grande che la vita gli potesse
fare.
Con
il passo lento di un uomo che comincia ad invecchiare, con tutte le
ossa che cominciavano a fare male, si avvicinò alla culla e
sporgendosi sorrise guardando il piccolo, girato di fianco, che
dormiva tranquillo. Allungò la mano e dolcemente lo accarezzò
mormorando:
“Tu
sei mio figlio. E io ti proteggerò da tutto il male che i
maghi e i babbani possono fare...”
“Charlus!”
si intromise la voce di Dorea.
L'uomo
si voltò e guardò la moglie che con le braccia
incrociate stava sulla porta e gli sorrideva. Anche per lei il tempo
era passato. Non era più una ragazzina e delle rughe le
solcavano il viso. Ma dopo la gravidanza, per Charlus, era diventata
ancora più bella.
Sorrise
di rimando alla moglie e avvicinandosi a lei sussurrò per non
svegliare il bambino:
“Hai
ragione... Non posso stare in piedi tutta la notte a guardare nostro
figlio... Ogni tanto devo dormire oppure mi licenzieranno a lavoro!”
e ridendo baciò dolcemente la moglie e tornò a dormire.
In
un normalissimo quartiere di Londra. Gran Bretagna.
Petunia
guardava Lily in cagnesco. Da quando era arrivata la neonata, la
primogenita della famiglia Evans aveva avuto la vita stravolta. La
cameretta nel quale giocava tranquilla era stata riempita con la
culla e il fasciatoio e spesso la mamma diceva di stare in silenzio
per non svegliare la sorellina che dormiva.
Quella
mattina, però, la piccola Lily aveva superato se stessa.
Seduta sul pavimento assieme alla sorella, la piccola gridava e
lanciava lontano i giochi, sempre contro la piccola Petunia che
disperata gridava per il dolore e per la rabbia.
In
quel momento di calma apparente, nella piccola stanza al primo piano
della casa, mentre fuori pioveva a dirotto e papà Evans si
godeva il primo giorno di meritate vacanze, Petunia, ormai stanca,
guardando in tralice la sorellina, le lanciò contro il
modellino di un cavallino di legno con cui stava giocando.
Lily
guardò la traiettoria del cavallino sorpresa da quelle
evoluzioni per aria, poi, con un grido indignato scoppio a piangere.
Subito dopo Petunia scoppio a piangere a sua volta.
La
differenza era che se la prima piangeva di rabbia, la prima piangeva
per lo spavento.
La
signora Evans, preoccupata, corse al piano di sopra ed entrò
nella camera delle bambine. Ed entrando lanciò un urlo. Per un
infinitesimo di secondo aveva creduto che quello che camminava tra le
bambine fosse un topo, ma dovette ricredersi. Trottando tranquillo,
stava tra le bambine il cavallino di legno di Petunia.
“Caro!
Caro corri ti prego!” esclamò terrorizzata la signora
Evans.
“Che
succede adesso?” chiese il signor Evans dal piano di sotto.
“Devi
assolutamente venire!” rispose la moglie.
L'uomo
salì le scale e si sporse a guardare dentro la camera,
poggiandosi sullo stipite.
Quello
che vide lo fece sbiancare. Guardò la moglie, poi le figlie e
poi di nuovo la moglie.
Prese
il piccolo cavallino di legno che nitrì indignato lo osservò
con attenzione e chiese:
“Hai
visto come è successo?”
La
moglie scosse il capo in segno di diniego. Il signor Evans tornò
a guardare il cavallino che cercava di liberarsi dalla sua mano e
tornando a guardare la moglie, con una lieve nota di panico nella
voce, chiese:
“Non
è mai successo prima, vero?”
La
moglie scosse di nuovo la testa e rispose:
“Non
lo so... Penso che questa sia la prima volta! Almeno non ho mai visto
niente di simile prima d'ora”
Il
signor Evans guardo Lily e Petunia e scosse la testa. E sollevando la
mano che teneva il cavallino di legno mormorò:
“Vado...
Vado a ro... Vado a ucc... Lo tolgo di mezzo, ok?”
La
moglie annuì e guardò Lily che tranquilla mise un dito
in bocca puntando gli occhi verdi sulla mamma. Sembrava quasi
divertita. Naturalmente non si rendeva conto che tutti attorno a lei
erano terrorizzati da quello che aveva fatto.
Ignatius
sospirò. Cosmo teneva in braccio la bambina più bella
che avesse mai visto.
Piangevano
tutti. La bambina, Cosmo, lui. Solo poche ore prima avevano
seppellito Aredhel nel piccolo cimitero di Godric's Hollow, nella
tomba di famiglia.
Demetra
stava preparando un tè e Loto, serio accarezzava Lana seduto
nella sua poltrona vicino al fuoco.
Nella
casa regnava un silenzio cupo. Nessuno aveva osato proferire una sola
parola. Eppure quello doveva essere un giorno felice. Tutti dovevano
ridere e scherzare, non piangere.
-Non
si deve mai mischiare la morte con una nuova nascita. È
cattivo presagio- pensò Ignatius guardando Cosmo perso ad
osservare il piccolo fagottino che teneva tra le braccia.
Qualcuno
bussò alla porta. Ignatius sollevò la testa come
svegliandosi dal torpore e andò ad aprire. Dietro apparve un
uomo con la lunga barba bianca e dei penetranti occhi azzurri
cerchiati da occhialetti a mezzaluna. Tutti si voltarono verso la
porta e quando Demetra vide il nuovo arrivato non resse più e
scoppiò in lacrime.
“Albus...
Oh! Non sai quanto è stata dura...”
L'uomo
le batté dolcemente una mano sulla spalla e serio rispose:
“Appena
ho ricevuto il gufo con la lettera di Loto sono corso qua...” e
con lo sguardo cercò Cosmo che, davanti al suo vecchio
Preside, si sciolse in lacrime e disse:
“Aredhel...
Non ce l'ha fatta. È morta...”
Silente
sospirò e mormorò contrito:
“So
tutto, Cosmo... So tutto... Ma niente è perduto. Aredhel è
morta per dare la vita, mio caro Cosmo e la vostra bambina è
il primo mattone per costruirne una nuova...”
Loto
annuì. Conosceva Silente da tanto, da quando lui abitava a
Godric's Hollow ed era un ragazzo imberbe. Era sempre stato al fianco
della famiglia Prewett e si era sempre dimostrato un amico leale e
fidato. Ed era l'unico che aveva sempre creduto che non bisognasse
giudicare Aredhel per quello che erano i suoi genitori.
Loto
lo aveva chiamato perché era l'unico mago che stimava
veramente. E non aveva sbagliato visto che, come sempre, Silente
trovava le parole giuste da dire.
“...
Tua figlia è il tuo nuovo inizio. E sono certo che Demetra e
Ignatius ti aiuteranno in questo difficile compito!” e
sorridendo conciliante aggiunse: “La posso prendere in
braccio?”
Cosmo
porse il piccolo fagottino al Preside che sorridendo notò:
“Aredhel
ha fatto un buon lavoro. Questa bambina è davvero
bellissima...”
Demetra
annuì e Silente chiese di nuovo:
“Come
si chiama?”
“Diane...”
rispose torpido Cosmo.
Silente
annuì e aggiunse:
“Credo
che avrai una bellissima vita Diane Aredhel Prewett.. La migliore che
un giovane mago può aspettarsi. Benvenuta tra noi!”
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