La sua ultima sera Alice salì sul tram che era già morta.
Era novembre. I milanesi si portavano dietro il loro inespresso desiderio di
crepare, attraversando incroci impossibili a semaforo rosso, nella piena ferrosa
e gommata delle sei e mezza. Macchine macchine macchine e Alice dispersa nel suo
cappotto slacciato. Il freddo sotto la gonna di lana, a tagliare le calze; tra
le gambe l’umido diventava ghiaccio, spilli. Alice strinse le cosce e tirò su il
mento. Porta Genova e un treno oltre i muri gialli, che andava lontano o a
Mortara, i due limiti estremi del mondo. Lui si era infilato le sue mutandine in
una tasca dei pantaloni ed era scappato a nasconderle, o era scappato e basta.
Alice si era rimessa sulle spalle lo zaino, e aveva salutato Daniele che per
tutti era Sara, un pomeriggio passato a spaccarsi la testa sulla versione di
Cicerone, un’esistenza da liceale. Aveva conservato i quaderni con i compiti
finiti, puliti. Aveva conosciuto Daniele in discoteca e le era sembrato un
universitario: invece certi giorni metteva la cravatta e aveva un figlio e
qualche volta una fede al dito e una moglie al piede. Che brutta cosa il
matrimonio, le diceva. Ma Alice lo sapeva già. Si sentì molle e sporca salendo
sulle scale del due; bagnata infinitamente bagnata. Si fermò sul fondo incapace
di andare oltre, perché muoversi le faceva schifo e sedersi le avrebbe fatto più
schifo. Il cellulare vibrava in una tasca. Ed era lui che le spediva i
messaggini indifesi di ringraziamento. Che bella che sei Alice, che bella. Che
brava che sei Alice. O sua madre che le chiedeva cosa aveva voglia di mangiare
per cena, che le mandava i baci con le faccine perché aveva appena imparato e le
piaceva metterle dappertutto. Alice sorrise. E l’uomo ombra a metà del budello
stridente del tram la guardò da dietro, le guardò le gambe. Non ricordava chi,
ma qualcuno doveva avere già detto che sul fondo dei tram stanno le persone
finite. Lei pensò invece che sul fondo del tram stanno i fantasmi, quelle facce
pallide e gialle riflesse nei vetri con le loro teste deformi e mancanti, a
seconda di quanti lampioni restano illuminati per strada. Il nylon premeva,
premeva. Alice strinse. L’ombra la avvolse con gli occhi.
Alice non poteva ricordare, ma in altri giorni e in altri luoghi aveva
immaginato come sarebbe stato. Scendere alla fermata ignara, ragionando su
qualcosa di squallido, lì dove sotto il ponte faceva buio prima del solito.
Camminare verso casa senza guardarsi alle spalle. Forse non voler sapere come
succedono per davvero le cose così, come quella. Rispondere alla mamma: ‘inforna
la pizza che sto arrivando’. Poi le dita che ti prendono la gola sulle grate, in
quel punto dove la gente è sempre poca, vicino al parcheggio, lì, dove Milano ha
scelto di non fare luce. Scivolare cadere scalciare. Scalciare. Graffiare. Alice
non voleva, no. Quante volte l’aveva già fatto, era ancora lurida dell’ultima, e
magari l’ombra l’aveva trovata proprio così, annusando l’aria. Ma un’altra volta
no, così no. Urlare.
Alice era già morta soffocata, con le gambe spaccate, quando il cellulare rotolò
via dalla tasca. Di Alice rimaneva uno stivale dalla suola scollata allungato
sul marciapiede.
‘stasera pizza??? :)) :*’.
‘messa dentro. Ti amo tanto! :*’.
mamma.
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