Romeo e Giulietta
- Variazione sul tema -
“Possa discendere il sonno sui
tuoi occhi, come la pace nel tuo cuore;
e foss’io quel sonno e quella
pace che riposano sovra sì care membra!”
(W. Shakespeare)
Londra, 1680
Non aveva mai amato nessun
altro, né mai l’avrebbe fatto.
“Non puoi farci niente: è il
tuo destino. Nella tua vita ci sarà sempre una bella che fugge e tu la che la
guardi andar via, ci sarà sempre amore e ci sarà sempre morte – tragica e
prematura, ingiusta quanto vuoi, ma immutabile, perché così è scritto. E tu, mio
piccolo Edward, non potrai mai farci nulla.”
Così gli aveva detto sua
madre, e dieci anni buoni erano passati – non che le avesse mai creduto, povera
vecchia – la chiromante era morta e lui invece vivo. Vivo e innamorato –
innamorato, che parola, ma era così. Innamorato di un fantasma, di una pallida
ombra, di una meravigliosa Giulietta di pura luce. Ma sempre innamorato era,
anche se il suo amore non aveva corpo e neppure nome, anche se lo visitava solo
di notte, e solo nei sogni. Quei sogni colpevoli dai quali si risvegliava col
ventre bagnato e un’angoscia infinita nel cuore, ma che poi lasciavano un
piacere soffuso e palpabile per tutta la giornata, morbido come i suoi
capelli, delicato come la sua pelle. Quei sogni che attendeva come il dono più
prezioso, che desiderava come un assetato una pozza d’acqua. Era innamorato, sì.
Altri lo dicevano pazzo, per quell’amore sconclusionato e senza speranza, altri
ancora scrollavano le spalle e lo chiamavano in altro modo: artista. Sì,
artista. Agli artisti è concesso tutto. Lo dicevano pazzo, artista – era quasi
un sinonimo, per loro – ma non se ne curava. E talvolta chiudeva gli occhi
aspettandosi di riaprirli e trovarlo lì, il suo amore, la sua Giulietta dagli
occhi azzurri e l’incarnato dorato dal sole.
«Signor Chambers! Volete
cortesemente degnarci della vostra attenzione?»
Edward Chambers sobbalzò
violentemente, dimostrando ancora una volta la sua palese distrazione.
«Un giorno o l’altro, signor
Chambers, voglio che mi spieghiate come riuscite a dormire in piedi» infierì
Gordon Walker, spingendo alla radice del naso gli occhialetti rotondi.
«Silenzio. Non perché ora vi fate chiamare “Hamlet” avrete da parte nostra più
riguardo di prima. È chiaro?»
Edward annuì, sopportando
stoicamente la ramanzina e gli sghignazzi degli altri attori. Non era stato lui
a scegliere quel soprannome, attribuitogli dal pubblico di Londra in occasione
della prima dell’Hamlet, appunto. Ma ne andava fiero, perché il pubblico
era l’unico metro di giudizio a cui volesse rifarsi, e l’unico destinatario
della sua arte. Walker era un ottimo impresario, ma non amava che si creassero
disparità tra gli attori, e dava il buon esempio trattando tutti con la
medesima, arcigna scortesia.
«Ora, se il signor Chambers
permette, assegneremo i ruoli per “Romeo e Giulietta”.»
Edward impallidì. «Romeo e
Giulietta?» mormorò. «Quando… quando è stata scelta quest’opera?»
Walker scosse la testa, con
aria esasperata. «Mentre voi vi crogiolavate nell’osanna del vostro pubblico,
evidentemente. Ne abbiamo discusso proprio ieri, qui su questo palco, e voi
eravate presente.»
Nuovo accesso di risate.
Edward alzò una mano in segno di scusa. «Scusatemi, l’avevo dimenticato»
borbottò.
«Bene. Dunque… Mercuzio:
Richard Phillmore; Tebaldo: Nathan Wayne… …e infine Giulietta: Francis Danton[1];
e Romeo: Edward Chambers. Studiate le parti, ci troveremo domani per le prime
prove.»
«Chambers? Il tuo copione.»
Edward alzò a malapena gli
occhi. Un ciuffo lungo e rossastro gli dondolò per un attimo davanti al viso.
Danton era un ragazzo affabile e di buon cuore, un bravo commediante e un amico
riservato, ma la prospettiva di stringerlo a sé recitandogli parole d’amore non
lo entusiasmava. Prese il copione che gli porgeva e accennò un sorriso di
cortesia. «Grazie. A domani.»
La notizia lo aveva turbato.
Conosceva l’opera, naturalmente, ma aveva pensato – sperato – che non
l’avrebbero mai messa in scena. Nessuno, nel suo pensiero, poteva essere una
Giulietta più degna del suo amore, ma col passar del tempo anche lui si era
andato convincendo che esso non fosse più che un’illusione, un sogno. Non aveva
smesso di amarlo – oh, no. Ma non credeva più che il destino gli avrebbe fatto
trovare la sua “bella che fugge”. Non credeva più che avrebbe avuto modo di
inseguirla.
Andò a casa. Desiderava
soltanto dormire, adesso, dormire e sognare il suo amore – per trovare in lui
conforto e ristoro. Dopo, ne era certo, il mondo gli sarebbe apparso migliore, e
avrebbe potuto cominciare a studiare la parte.
Mentre tornava a casa, osservò
distrattamente la coltre di neve accumulatasi quella mattina. Era quasi Natale,
sì. Ma per lui lo scorrere del tempo aveva un valore relativo, superabile. Ogni
tanto ne trovava un accenno in un filo grigio – prematuro in un uomo di poco più di vent’anni – che non si premurava di tagliare o nascondere. Nel complesso aveva un
aspetto sano, forte, giovanile. Ma erano passati tre anni e il suo viso mostrava
sempre lo stesso sentimento: rassegnazione. Giulietta non esisteva.
Quel pomeriggio non sognò
nulla e si svegliò più nervoso e intrattabile del solito, malumore che gli durò
fino a notte fonda.
Era ormai tardi e avrebbe
dovuto coricarsi, ma l’aveva colto il terribile presentimento che il suo amore
l’avesse lasciato – che avrebbe smesso di visitarlo e non sarebbe più venuto nei
suoi sogni, e non avrebbero più fatto l’amore in quel modo dolce e lento che
adorava. Il pensiero bastò a fargli passare il sonno, completamente. Prese la
giacca, incurante degli strappi sulle maniche, e uscì.
Londra era avvolta in una
cappa di oscurità e nebbia, notte perfetta per ladri, stupratori e assassini.
Edward neppure vi fece caso. Non aveva nulla da farsi rubare, neppure la sua
vita valeva granché. Se un ladro armato di coltello gli si fosse avvicinato,
probabilmente Edward si sarebbe limitato a tirar fuori la fodera vuota delle
tasche.
Ma cos’avrebbe fatto se
davvero il suo amore l’avesse abbandonato? Come avrebbe continuato a vivere?
Nonostante più d’uno fosse pronto a giurare il contrario, Edward non era pazzo.
Non si era mai messo a parlare da solo, non aveva mai sofferto di allucinazioni
e conosceva benissimo il confine tra il sogno e la realtà. Ma il sogno, i sogni
in cui lui lo visitava, erano l’unica cosa che gli rendeva accettabile il
resto. E se lui non fosse più venuto…
Si prese la testa tra le mani,
scuotendo forte il capo. No. No. No! Non poteva pensarci, non poteva neppure
considerare l’idea. Si sarebbe ucciso, piuttosto. Dio non poteva essere così
crudele da dare un senso alla sua vita e poi strapparglielo, così, da un giorno
all’altro, senza motivo.
«Non può essere… non di nuovo»
mormorò, appoggiando la fronte a un ruvido muro. «Non di nuovo…»
Di nuovo?
Edward risollevò il capo. Di nuovo, perché l’aveva detto? Non c’era stata una
prima volta… non aveva mai amato nessun altro, che ricordasse. Si passò una mano
sulla faccia. Forse davvero stava diventando pazzo.
Doveva tornare a casa e
cercare di dormire, o l’indomani sarebbe stata la volta buona che Walker lo
buttava fuori dalla compagnia. Ma aveva paura. Una paura folle di trovar
ragione dei suoi presentimenti. Di addormentarsi e non trovarlo, lì come al
solito, ad attenderlo. Il suo splendido, folle amore. Appoggiò la mano sul muro.
Avrebbe passeggiato ancora un po’, ma non troppo, patteggiò con se stesso.
Riprese a camminare. Il
quartiere non era dei migliori, ma Edward era disinteressato ai pericoli della
strada. Per gli stessi motivi non temeva di trovare la casa svaligiata, perché i
suoi pochi risparmi erano ben nascosti – ma erano veramente pochi. La
bravura di impresario di Gordon Walker consisteva anche nella tenacità con cui
riusciva a pagare una fame la compagnia di attori più acclamata di Londra.
La nebbia era così fitta che
le urla gli giunsero all’orecchio prima di riuscire a vedere chi le aveva
pronunciate. Una voce giovane, con una nota stridula di paura.
«Lasciatemi! Vi ho detto di
lasciarmi!»
A malapena vedeva a tre passi
di fronte a sé, tuttavia corse nella direzione della voce. Vide un’ombra, quella
che stimò avesse gridato, stretta da due più corpulente, e lo scintillio dei
pugnali. Senza pensare, approfittando del fatto che nessuno dei due l’aveva
scorto, afferrò il primo per le spalle e lo spinse contro il muro vicino. Il
ladro batté la testa e il pugnale cadde a terra; Edward lo raccolse in fretta.
Per la verità non sapeva neanche come si usasse, un coltello di quel tipo:
l’ultima volta che aveva avuto in mano un arnese simile l’aveva usato per
tagliare il tacchino di Natale. Comunque badò bene di non sembrare preoccupato,
anche se la nebbia nascondeva bene la sua espressione.
«Avanti!» lo incitò, e
d’improvviso si sentì di nuovo Hamlet in duello con Laerte. Ricordò le prove -
infinite – per imparare a tenere in mano una spada, anche se adesso disponeva
solo di un coltello. Le prove gli servirono: schivò un affondo diretto al suo
cuore e un altro più basso, tirato alla cieca. A furia di sentire la voce di
Walker che gli straziava i timpani, aveva imparato la postura corretta per un
duellante. Il ladro non l’aveva.
Il duello aveva raggiunto un
punto morto. Un ladro giaceva svenuto più in là. Il derubato guardava in
silenzio, o forse era scappato – non aveva il tempo di voltarsi a controllare.
Il suo avversario continuava a tentare affondi sempre più scomposti. E lui non
aveva alcun desiderio di ammazzarlo, giacché era riuscito ad arrivare alla
significativa età di ventidue anni senza spargere sangue, e intendeva
proseguire.
Il ladro gli si gettò addosso,
sbilanciandosi, poi senza apparente ragione incespicò e cadde. Il pugnale volò
via. Edward colse un’ombra – il passante che aveva soccorso – chinarsi a
raccoglierlo. Il ladro contemplò la nuova situazione e corse via, lasciando il
compagno svenuto al muro.
«Andiamo via» disse Edward.
«Non vorrei che si riprendesse proprio ora…» Malgrado la sicurezza del tono,
aveva il fiatone. Non era abituato ai duelli veri, e quello di Hamlet era
considerevolmente più breve e meno impegnativo. L’altro annuì.
«Vi ringrazio» mormorò il
ragazzo, perché tale sembrava dalla voce. «Non so come avrei fatto senza il
vostro aiuto.»
«Non è nulla» rispose Edward,
rigirandosi tra le mani il pugnale. Lo infilò in tasca. Poteva sempre tornare
utile, dopotutto; se non altro per tagliare il tacchino. «Questa zona è
pericolosa, non è consigliabile passeggiarvi da soli. Avete smarrito la strada?»
«Oh, no, no. L’asse della mia
carrozza si è rotto e così ho preferito proseguire a piedi, mentre veniva
riparato.»
«Doveva essere il destino…»
mormorò Edward, senza pensare.
«Come?»
«Nulla. Permettete? Edward
Chambers, al vostro servizio.» E si esibì in un elaborato inchino, retaggio
d’altri tempi – gesto che gli lasciò addosso uno strano ma piacevole senso di
déjà vu. «Forse mi conoscete di fama. A Londra mi chiamano “Hamlet”.»
Il ragazzo sorrise e gli tese
la destra. «Geoffrey Season. Forse conoscete mio padre, Lord Season, Pari
d’Inghilterra.»
Edward la strinse, ricambiando
il sorriso. Ma subito gli morì sulle labbra quando poté scorgere da vicino i
boccoli biondi del ragazzo, i suoi occhi grandi e azzurri, le sue labbra
sottili. Gli parve che tutto il suo sangue defluisse alle caviglie – che tutto
il suo mondo si sgretolasse in un attimo.
«Signor Chambers? Vi sentite
bene?»
«Voi… io… voglio dire…»
«Sì?»
Edward riprese fiato,
accorgendosi di averlo trattenuto fino a quel momento. «Casa mia non è molto
distante. Volete… posso invitarvi a bere qualcosa con me?»
Il ragazzo si rabbuiò. «No,
signore, scusatemi. È molto tardi e devo rincasare.»
«Aspettate!» Lo prese per un
braccio, disperato di perderlo. «Aspettate, vi prego, non pensate male di me.
Non ho cattive intenzioni, davvero. Forse voi pensate che voglia rapirvi per
chiedere un riscatto a vostro padre…»
«Possibile» mormorò il
ragazzo, ostile.
«No, no, non credetelo!»
ribatté Edward. «Non avrei bisogno di portarvi da nessuna parte, se fosse così.
Voglio… devo parlarvi. È una faccenda della massima importanza, credetemi.»
Il ragazzo si trasse indietro.
«Siete ubriaco, signore?»
«Mai stato più sobrio, milord.
Mai più di ora. Vi prego. Datemi fiducia.»
Geoffrey Season corrugò la
fronte, scettico, e fece per rifiutare recisamente… poi esitò. «Come avete detto
di chiamarvi?» domandò.
«Chambers. Edward Chambers.»
«Non ci siamo già conosciuti,
vero?»
Edward sentì che il suo cuore
premeva per sfondare il torace, impazzito. «Anche di questo vorrei parlarvi, se
me lo consentite» mormorò.
Ancora non sapeva quale demone
o dio si divertisse a giocare con la sua vita, ma guardando il ragazzo fermo in
mezzo alla stanza fu certo che, per una volta, aveva deciso di fargli un regalo.
Un meraviglioso, biondo regalo dagli occhi azzurri. Dopo tre anni, per la prima
volta Edward si sentì pronto a scommettere che i sogni non sarebbero più tornati
– e non ne provò dolore.
«Sedetevi, vi prego» gli
disse, allontanando una sedia dal tavolo.
Era una casa piccola e certo
troppo misera per il figlio di un Pari d’Inghilterra. Edward se ne vergognò
immensamente. Che gli era saltato in testa di portarlo a casa sua? Il ragazzo
avrebbe provato disgusto anche solo a sfiorare la sedia che gli porgeva. Avrebbe
dovuto invitarlo in un altro posto, ma dove? Una taverna?
«Perdonate se casa mia non è
Buckingham Palace, ma sono solo un attore» mormorò Edward, contrito.
«Credevo che Hamlet ricevesse
compensi pari alla sua fama» osservò Geoffrey, accettando la sedia.
«Mortificato di avervi deluso,
milord.»
Il ragazzo pareva nervoso, ma
indifferente alla povertà della casa. Stava in mezzo alla stanza, vestito
riccamente, coi guanti bianchi macchiati di polvere e le scarpe lucide, senza
rendersi minimamente conto della stonatura che la sua persona costituiva in un
tale ambiente.
«Di cosa dovete parlarmi,
signor Chambers?» domandò, guardandosi intorno come a cercare inesistenti
complici delittuosi.
«Edward. Solo Edward.»
«Bene, di cosa dovete
parlarmi, Edward?»
«Posso offrirvi del vino?»
«Di cosa dovete parlarmi?»
L’attore allontanò un’altra
sedia dal tavolo e sedette accanto a lui, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
«È una lunga storia… strana, molto strana, e forse quando la sentirete vi verrà
voglia di uscire di corsa da questa casa. Ma dovete promettermi di ascoltarla
tutta fino alla fine senza interrompermi. Me lo promettete?»
Geoffrey Season annuì.
Come poteva raccontare al suo
unico, grande amore – una persona normale, inconsapevole, indifferente – di
averlo amato per tre anni, ogni notte, in sogno? Come poteva sperare di non
essere considerato pazzo?
Cominciò dall’inizio, senza
guardarlo in viso se non raramente, a intervalli, per scrutare le sue reazioni.
Quando vide il rossore tingergli le guance – stava parlando della loro prima
notte – gli scappò un sorriso. Continuò a parlare, non seppe mai per quanto,
descrivendo il suo amore con parole accorate e dolci che mai nessuno, neppure
Romeo, Bassanio o Lisandro[2]
avevano pronunciato più sincere.
Alla fine, alzò gli occhi su
di lui e tacque. Geoffrey Season lo guardava imbarazzato. «È la verità, e non
sono pazzo» mormorò. «Dovete credere almeno questo.»
«Come posso… voi non state
bene, signor Chambers» ribatté il ragazzo.
«Sono sano di mente, Geoffrey.
Molti vi diranno il contrario, ma vi assicuro che sono perfettamente padrone di
me, e non vi ho detto altro che la verità.»
«Non posso credere a una
storia del genere. È… è folle!»
«Ma è vera» replicò
Edward.
Geoffrey Season si alzò in
piedi. «È stato un incontro gradevole, signore, ma adesso è molto tardi e, come
vi dissi…» consultò l’orologio «un’ora fa, devo rincasare. Vi sono grato per
l’ospitalità e per il vostro provvidenziale intervento…»
«Renato.»
«Come avete detto?»
«Renato. È il nome con cui mi
chiamate in sogno. Sempre lo stesso. Renato. Non vi ricorda niente?»
Il ragazzo impallidì
violentemente. «Questo… questo non è possibile» mormorò.
«È la verità, Geoffrey. Te lo
giuro su quanto ho di più…»
«No! Io penso che voi siate
pazzo, Edward Chambers, completamente pazzo, e non ho intenzione di ascoltare
una parola di più. Adesso io uscirò dalla vostra casa e vi prego di non tentare
di cercarmi, qualunque sia l’entità del vostro folle sentimento… questa cosa
distorta che voi chiamate amore. Io non vi conosco e non voglio conoscervi.
Addio.» E uscì dalla casa, in tutta fretta. Edward si precipitò fuori dopo di
lui, ma non ebbe il coraggio di inseguirlo.
… e tu che la guardi andar
via…
«Tre settimane!» gridò nella
notte. «Fra tre settimane al Royal Theatre! Non sono pazzo, Geoffrey! Non io!
Non…»
Sospirò. Geoffrey era
scomparso nella nebbia, come non fosse mai esistito.
Non si era mai sentito più
triste di quel primo mattino senza il ricordo soffice delle sue labbra.
«Signor Chambers, maledizione!
Avete tra le braccia la donna della vostra vita, non un manico di scopa!»
Edward scosse la testa,
ritirando le braccia dalla vita di Francis Danton. «Scusatemi» mormorò.
«Scusate un corno!» Per la
prima volta da quando lo conosceva, Gordon Walker scagliò il copione a terra in
un impeto di rabbia. (Orrore – gli attori impallidirono. Qualcuno si affrettò ad
afferrarlo e a batterlo tre volte sul pavimento in segno di scongiuro.) «Da
quando avete messo piede su questo palco non fate altro che sbagliare le
battute, fissare il vuoto e sbattere il povero Danton a destra e a manca!»
Sull217;affermazione si levò uno
scroscio di risate. Il ragazzo arrossì fino alla radice dei capelli.
«Silenzio! Non c’è niente da
ridere.»
Edward si passò una mano sulla
faccia, sospirando. «Signor Walker, non mi sento bene» mormorò. «Io… forse è
meglio che continuate senza di me. Scusatemi.» Senza aggiungere una parola,
saltò giù dal palco inseguito dagli improperi dell’impresario, raccolse la
giacca e uscì dal teatro.
L’avrebbe pagata cara, ma non
aveva mentito: si sentiva uno straccio. Camminò a casaccio per un’oretta, e alla
fine si accorse che i piedi l’avevano condotto a casa. Entrò senza neppure
richiudere la porta. Si gettò sul letto e cominciò a tirare pugni al muro, in
preda a un impeto di disperazione.
Non l’avrebbe più visto, mai
più. Perché il destino lo tormentava in questo modo? Gli sarebbe bastato
continuare a sognarlo, senza conoscerlo mai – se lo sarebbe fatto bastare. E
invece adesso conosceva il suo nome, aveva visto il suo volto e stretto la sua
mano, e non gli era mai stato più lontano di così. Geoffrey lo credeva pazzo, e
lui… oh, di questo passo lo sarebbe diventato sul serio.
Ed era passata solo una
settimana.
Chiuse gli occhi, sperando di
trovare requie nel sonno, e dopo qualche minuto precipitò in un dormiveglia
agitato.
«Chambers?»
Si riscosse di soprassalto. Si
passò una mano sugli occhi, constatando con fastidio che adesso aveva un sapore
amaro in fondo alla lingua e il collo dolorante. Chissà in che posizione aveva
dormito…
«Chambers? Allora è vero che
ti senti male…»
Gli occhi chiari di Francis
Danton – azzurri? No, verdi – lo fissavano vagamente preoccupati. Si tirò a
sedere, scuotendo la testa. «Come sei entrato?» mormorò.
«La porta era aperta.»
Edward scivolò giù dal letto.
«Hai bisogno di qualcosa?…»
«Volevo vedere come stavi.
Oggi eri pallido… anche adesso non hai una bella cera.»
«Sto bene» borbottò Edward.
«Ho dormito poco stanotte, tutto qui.»
Passò nella stanza attigua e
aprì gli sportelli della dispensa, da cui tirò fuori una bottiglia di vino
rosso. «Bevi, Francis?» domandò, prendendo due bicchieri.
«Qualche volta» rispose il
ragazzo.
«Bevi con me.» Riempì i
bicchieri e si sedette, indicandogli di fare altrettanto.
Il ragazzo obbedì, posando sul
tavolo un piccolo paniere di vimini. «Mia madre… ecco, ti manda queste mele.
Sono dolcissime, le ha raccolte lei. Il nostro melo ne produce più di quante ne
mangiamo, così…» Scostò il tovagliolo bianco dai bordi sfilacciati, prendendo un
frutto di un rosso acceso e invitante. «Vuoi assaggiarle?» domandò,
porgendoglielo.
Edward, il bicchiere accostato
alle labbra, si arrestò con un sorriso strano. «Scena biblica» mormorò, senza
fare un gesto.
Francis avvampò e lasciò
ricadere la mela dentro il cesto. «Io… va bene, te le lascio qui» balbettò,
ricoprendole con il tovagliolo.
«Ringrazia tua madre, Francis.
È sempre molto gentile con me, per quanto non mi abbia mai visto. Forse non sa
della mia pessima influenza…»
«Quella volta il signor Walker
non diceva sul serio.»
«Sarà» ribatté Edward,
guardando pensoso dentro il bicchiere. «Non bevi, Francis?»
Il ragazzo sorseggiò
distrattamente, senza staccargli gli occhi di dosso. «Edward…»
«Mmm?»
«Le ho raccolte io, quelle.
Mia madre non lo sa.»
«Ah.»
«Non sa neanche di te… credo.»
«Vale anche per il formaggio
dell’altra volta?»
«Sì… tutte le volte» mormorò
il ragazzo.
Edward scrollò leggermente le
spalle, senza fargli domande. «Ringraziala lo stesso per non essersene accorta.
O per aver fatto finta di niente.» Sorrise appena. «Grazie. Vorrei potermi
permettere di fare i complimenti, ma la verità è che Walker non mi paga da due
mesi.»
«Perché?» esclamò Francis,
sbarrando gli occhi.
Hamlet scosse la testa. «Quell’incidente
sul palco…»
«Quello non fu colpa tua, ma
di Brown!»
«Daniel è messo peggio di me.
Io non ho famiglia da sfamare, e quello che mi passa Walker mi basta… per ora.»
«Non è giusto, se il signor
Walker ti desse quanto ti spetta tu potresti… potresti vivere molto meglio di
così!» esclamò il ragazzo, animandosi.
Edward alzò gli occhi,
sorpreso. «Ma guarda» mormorò. «Non pensavo di essere messo così male da fare
pietà. Devo avere proprio un pessimo aspetto…»
«Non è pietà» balbettò Francis,
arrossendo. «Mi preoccupo per te, semplicemente… Tu sei il migliore di noi e
potresti…»
«Sto bene, Francis» disse il
più vecchio, alzandosi. «Vivo bene così, non mi importa se Walker fa la cresta
sulle nostre paghe o sulla mia soltanto; non mi importa di diventare ricco né di
avere una casa più grande. A che mi servirebbe? Sono solo. Mi basta che Walker
non mi affami, e per quanto ci stia provando con tutte le sue forze, ti assicuro
che in un modo o nell’altro ho sempre di che mangiare. Con questo spero di aver
placato la tua preoccupazione.»
«Io… io volevo solo… non
voglio che tu… che tu stia male, ecco» bisbigliò il ragazzo, gli occhi fissi sul
tavolo.
Edward sorrise leggermente.
Povero ragazzo, si preoccupava per lui. Era stato troppo duro. Sollevò le dita
ad accarezzargli la guancia, senza neanche stupirsi di vederlo arrossire.
Arrossiva sempre per così poco, Francis…
«Non ci si può fare niente»
mormorò. «Tocca a tutti, prima o poi. Ma tu non lo dirai a nessuno, vero?»
Francis prese la sua mano,
stringendola con forza. «Che cos’hai?»
«Ah, Francis…»
«Dimmelo, Edward. Non siamo
forse amici?»
Edward sorrise nuovamente, poi
scosse la testa. «Credevo che fosse chiaro ed evidente per tutti… non sono il
primo e non sarò l’ultimo a soffrire di questo male…»
«Che male?»
«Amore, Francis» mormorò
Edward, guardandolo malinconicamente negli occhi – sforzandosi di cogliervi una
sfumatura d’azzurro che li facesse assomigliare ai suoi. «Amore. Così
semplice, eppure così dannatamente complicato…»
Stavolta fu il ragazzo a
impallidire, ma Edward non se ne accorse. «Chi ami?» bisbigliò.
«Non posso dirtelo, Francis…
non vorresti più vedermi.»
«No, Edward, non è vero. Te lo
giuro» disse il ragazzo, stringendo più forte la sua mano.
L’attore abbassò lo sguardo
sul tavolo, seguendo le mille crepe e le mille fessure del legno. «Un ragazzo,
Francis…» alzò gli occhi, «un bellissimo ragazzo che non mi amerà mai.»
La reazione dell’altro lo
turbò. Era molto pallido, ora, e sembrava sul punto di scappare via da un
momento all’altro. Forse aveva esagerato – forse si era scoperto troppo. Che gli
era saltato in mente? A ripensarci, tra loro non c’era mai stata grande
confidenza. Ma aveva avvertito per la prima volta un desiderio irrefrenabile di
liberarsi del suo peso…
«Ti capisco se vuoi andartene»
mormorò Edward. «Lì c’è la porta. Esci pure, disprezzami, ingiuriami. Ti chiedo
solo di non parlarne con nessun altro.»
«Non lo dirò a nessuno.» La
voce di Francis gli giunse all’orecchio come un venticello carezzevole e caldo.
Edward trasalì nel trovarselo così vicino, il petto quasi appoggiato al suo, un
ginocchio contro la sua gamba. «Perché dovrei?» sussurrò il ragazzo. «Io… avevo
visto come mi guardavi, ma pensavo di sbagliarmi… pensavo che per te quegli
sguardi non significassero nulla…» Gli prese le mani, portandosele sui fianchi.
«Edward… io…» Si tese verso un Edward più stupito che mai e lo baciò sulla
bocca, con delicata intraprendenza. «Io ti amo…»
«Francis…»
«Shh.» Gli passò l’indice
sulle labbra, poi tornò a baciarlo. E intanto le mani del ragazzo correvano alla
sua camicia, allentando i lacci, cercando l’orlo…
«Francis, no» disse Edward,
tirandosi indietro. «Non posso… no.»
«Perché…» mormorò Francis,
baciandogli il collo. «Non lo saprà nessuno…»
«No.» Edward lo scostò da sé,
con decisione. «È meglio se vai via, Francis.»
«Come…? Perché?» disse il
ragazzo. «Te l’ho detto, io…»
«Tu mi hai frainteso» mormorò
Edward. Fece qualche passo nella stanza. «Io… non parlavo di te» confessò,
evitando il suo sguardo.
Ora il viso di Francis era
livido, contratto. Non disse niente. Il rumore della porta che sbatteva
risparmiò a Edward ulteriori spiegazioni.
Più abbattuto e più stanco di
prima, l’attore contemplò malinconicamente il cesto con le mele. Malgrado si
sentisse fisicamente come dopo tre ore di cavalcata, il sonno era scomparso.
Aveva bisogno di tenersi impegnato. Tolse il tovagliolo che copriva il cesto e
spostò le mele in un paniere vuoto. L’indomani avrebbe restituito a Francis il
suo.
Quando le ebbe tolte tutte
fece per mettere via il canestro del ragazzo – poi si accorse che ne aveva
dimenticata una. Era di un bel colore acceso. La prese, la strofinò
distrattamente sulla manica e le assestò un generoso morso.
Un vermetto bianco lo fissò
dalle profondità violate della mela. Per un po’ rimasero a guardarsi, lui e la
bestiolina senz’occhi, poi Edward voltò il capo di lato e sputò.
«Ad Adamo perlomeno è toccato
un serpente» commentò, buttando via la mela corrosa.
“Mi ami, Romeo? So che
risponderai affermando; e il tuo affermare mi empirà di gioia…”
Il coraggio di guardarsi
nuovamente in faccia mancava a tutti e due, probabilmente. Ma quando Edward vide
che Francis gli sfuggiva non trovò di meglio che inseguirlo dietro le quinte. Lo
afferrò per un polso, gesto al quale il ragazzo rispose rivoltandosi come un
serpente. «Che vuoi?»
Senza parlare, Edward lo
attirò a sé e lo strinse in un abbraccio serrato finché Francis non si abbandonò
completamente. «Mi dispiace» mormorò. «Giuro che non avrei voluto farti questo.
E capisco se ora mi odi. Ma dobbiamo lavorare insieme, e se continuiamo così
sarà un male per entrambi.»
Francis respirò contro la sua
spalla, senza rispondere.
«Se non riesci a perdonarmi,
almeno fingi di farlo. Sei un attore.»
«Sono uno stupido» mormorò il
ragazzo. Si staccò dal suo abbraccio. «Dimentichiamo tutto, ti prego.»
Edward annuì, stancamente.
«Vorrei amarti… sarebbe tutto più semplice» bisbigliò, pianissimo. L’altro non
lo sentì: se n’era già andato.
Tornò sul palcoscenico,
passandosi una mano sul volto. Aveva passato il resto della giornata studiando
il copione, e a ragione poteva dire di conoscerlo tutto. La memoria era l’unica
cosa veramente buona di lui. L’unica che gli avesse fruttato qualcosa nella
vita.
Che giornata, pensò, guardando
Francis che si soffermava a parlare con Richard Phillmore. L’alto commediante
che aveva la parte di Mercuzio era uno dei pochi amici di Edward, contati sulle
dita di una mano. Purtroppo, però, era ancor più legato a Francis, e Edward ebbe
lo spiacevole presentimento che quanto era accaduto sarebbe giunto presto alle
sue orecchie.
«Se avete finito di oziare,
signori, è ora di cominciare le prove. Non siamo al mercato!»
Phillmore prese un pugnale di
scena, uno di quelli con la lama che rientrava nell’elsa, e se lo conficcò nel
cuore cacciando fuori la lingua. Francis rise. Edward si sentì un verme.
Le sue giornate erano scandite
dalle prove. Era sempre stato così, da quando aveva cominciato a recitare.
Sveglia, prove, pausa pranzo, prove, pausa cena, prove, a letto. Altre
compagnie, che non avevano la fortuna o la disgrazia di essere gestite da Gordon
Walker, dilazionavano maggiormente il lavoro per non stancare gli attori. Ma,
come dire, Walker era un bastardo schiavista. Un fottuto bastardo schiavista. La
prima ragione della sua fortuna era la rapidità con cui riusciva a metter su uno
spettacolo. Per una compagnia, il tempo speso nelle prove era tempo bruciato –
tempo in cui non si guadagnava un soldo. La gente non sborsava per vedere le
prove. Walker riusciva a realizzare un ottimo spettacolo nella metà del tempo, e
a guadagnarci il doppio. Un po’ come mietere il raccolto due volte l’anno,
mentre gli altri stavano ancora arando il terreno.
Tutto ciò, comunque, per
Edward aveva sempre avuto un’importanza marginale. Nella routine delle prove
interrotta solo dagli spettacoli viveva bene, la fatica non era un problema. E
negli ultimi tre anni l’unica cosa di cui aveva avuto veramente bisogno l’aveva
visitato ogni notte.
Era mezzogiorno, ormai. Walker
concesse loro un’ora di pausa, e tra gli attori ci fu un collettivo sospiro di
sollievo. Edward non pensò neanche al pranzo. Uscì fuori dal teatro a prendere
una boccata d’aria.
La neve si stava sciogliendo
sotto un sole tiepido, malaticcio. Pensò che mancava poco al Natale,
distrattamente, con l’attenzione minima che riservava a tutte le festività.
Pensò che avrebbe volentieri scambiato la sua parte di Romeo con quella della
balia, se in cambio avesse potuto rivederlo – una volta, una sola, da lontano.
Non aveva finito di pensarlo
che gli parve di vedere Geoffrey passargli accanto. Scattò in piedi e afferrò il
giovane per un braccio. «Geoffrey!»
«E voi chi diavolo siete?»
No, non era lui. Balbettò una
scusa e si fece indietro.
Dormiva così poco… Non avrebbe
retto per molto. Con un sospiro si passò le mani sulla faccia, tirando indietro
i ciuffi scomposti.
«Ti senti bene, Edward?»
«No.»
Phillmore gli sedette accanto,
scrutandolo.
«Ho dormito poco e male.»
«E…?»
«Nient’altro, Rick.»
Il Mercuzio dagli occhi scuri
mormorò qualcosa riguardo al tempo, più uggioso che mai. «Sarà per questo che
siete tutti di malumore, oggi. Francis ha il morto davanti.»
«Avrà i suoi motivi» mormorò
Edward, guardando altrove.
«Lui sì, ma tu?» Gli diede di
gomito. «Che ti prende? Ieri notte la fanciulla bionda ti ha lasciato in sogno?»
Si alzò. «Vado a ripassare la
parte.»
Non era mai stato più
disinteressato alla prima di uno spettacolo. Il fatto poi che fosse anche il 25
Dicembre lo lasciava del tutto indifferente. Nell’osservare dalle quinte la
gente che prendeva posto in teatro, il suo pensiero era uno solo: “Non verrà”. E
tuttavia non riusciva a staccarsi da quell’osservazione morbosa.
«Edward? Chi cerchi?»
Neppure si voltò. «Chi vuoi
che cerchi?»
«La ragazza…? Non esiste solo
nei tuoi sogni?»
«No.»
«La conosci?»
«Mi crede pazzo.»
Richard rimase un attimo in
silenzio. «Forse non avresti dovuto tirar fuori tutta la storia…»
«Non importa.» Si voltò,
richiudendo il lembo del sipario. «Non verrà.»
Mercuzio gli morì tra le
braccia, a metà dello spettacolo, ma Giulietta rimase fino alla fine. Edward si
sentiva distante, estraneo al suo stesso corpo – come se la sua anima avesse
preso il posto di uno spettatore laggiù in fondo, invisibile, mentre il resto
continuava ad andare avanti come al solito.
Recitò bene. Era quasi un
fatto meccanico, ormai. Non si lasciava influenzare da niente, non dall’umore e
a volte neanche dal malessere fisico. Ma non mise un briciolo di passione in
quel che faceva finché, a metà dello spettacolo, il defunto Mercuzio lo spronò
dietro le quinte: «Un po’ di vita, Edward! Sembri un cadavere messo in piedi!».
Lo guardò, offeso, prima di
riconoscere a se stesso che aveva ragione. Da quel momento recuperò la verve
che ci si aspetta da un Romeo alla prima dello spettacolo.
Pianse lacrime vere sulla
Giulietta sbagliata, morta per finta.
«Aspetta.»
Lord Geoffrey Season si fermò
in mezzo al teatro, infilandosi nervosamente un guanto bianco. «Magnifico
spettacolo, signor Chambers» disse, continuando a voltargli le spalle.
«Posso parlarti?»
«Ho… molta fretta.»
«Solo qualche minuto.»
Il biondino si diresse verso
l’uscita. Edward era stanco e sudato, e il trucco scenico sbavato ai lati degli
occhi gli dava un’aria vagamente oscena, tuttavia Geoffrey parve non notarlo.
«Sono felice che tu sia venuto» mormorò l’attore, le braccia immobili lungo i
fianchi, le mani nervose.
«È stato un bellissimo
spettacolo. Non avevo mai assistito a…»
«Credevo che non volessi più
vedermi.»
Il giovane scosse la testa.
«Sono stato oltremodo sgarbato, quella volta. Debbo domandarvi scusa.»
«Mi chiamo Edward.»
«Lo so…»
Gli sembrava che Geoffrey
stesse tentando in tutti i modi di mantenere la conversazione su un piano
neutro, impersonale, ma non era questo che lui voleva. Lo strattone al cuore che
aveva sentito vedendolo tra il pubblico tornava a ogni parola.
«So che mi credi folle.
Anch’io, tante volte, l’ho pensato. Ma… nessuna follia può spiegare ciò che ho
visto… nessuna può spiegare te, e ciò che so di te…»
Il ragazzo inspirò,
lentamente. «Se tu sei folle, forse lo sono anch’io. Da quando ti ho incontrato
faccio… sogni strani.» Si passò una mano sulla fronte. «Renato…»
«Michele» mormorò Edward.
Geoffrey alzò gli occhi.
«Vorrei parlarti. Se accetti
di venire a casa mia, o in qualunque altro posto tu vorrai, dove si possa stare
in pace, io…»
Cadde un silenzio faticoso e
imbarazzato.
«Io ti amo» concluse Edward,
con un filo di voce.
Geoffrey aprì gli occhi
azzurri nei suoi. Esitò solo per un attimo, poi mosse leggermente il capo in
segno di assenso.
E così, per la seconda volta,
lord Geoffrey Season era suo ospite.
Aveva sperato in quel momento
per tre infinite settimane. Si era ripetuto in mente tutto quello che avrebbe
voluto dirgli, tutto ciò che aveva visto in sogno. Avrebbe voluto parlargli
della propria vita e domandargli della sua.
E invece riuscì soltanto a
rimanere in silenzio, appoggiato alla porta come l’ultimo degli stupidi.
Con lentezza meticolosa,
Geoffrey si sfilò i guanti e li posò sul tavolo. «L’abbiamo… l’abbiamo fatto,
vero?»
«Molte volte» rispose Edward,
sottovoce.
«Nei tuoi sogni…»
«Sì.»
«Io non ricordo niente di
tutto questo» mormorò Geoffrey.
Edward trattenne il respiro.
«Se lo desideri, posso raccontarti…»
«Sì» rispose il ragazzo, senza
esitare. «Sì. Voglio sapere come…» Si interruppe e arrossì leggermente.
«Insomma… in qualche modo deve essere successo.»
Edward non trovò il coraggio
di sorridere, di sperare. «Lasciami solo il tempo di cambiarmi. Questi abiti di
scena sono scomodi.»
Sparì nella stanza attigua,
socchiudendo la porta. Geoffrey trasse un lungo sospiro. Doveva essere uscito di
senno. Andare a cacciarsi in caso di un estraneo, così, senza neppure pensarci!
Aveva ragione suo padre, quando gli dava dell’incosciente e dell’impulsivo. Sì.
E tuttavia non si sentiva a disagio accanto all’attore dai capelli scuri e gli
occhi profondi, nero pece. Avrebbe voluto toccarli, quei capelli arruffati dopo
lo spettacolo, lisciare indietro le ciocche scomposte, pettinarli con le dita.
Se fosse stato impulsivo come suo padre diceva, l’avrebbe fatto, no? Da quando
l’aveva visto non desiderava altro. Invece si era trattenuto…
«Arrivo subito, solo un
attimo» disse Edward, dall’altra stanza.
Geoffrey si alzò in piedi e si
avvicinò alla porta. Non avrebbe dovuto farlo, ma… Inspirò. Lo spiraglio
dischiuso tra lo stipite e la porta lasciava intravedere l’interno. Una camera
da letto trasandata, un piccolo tavolino con un catino d’acqua, e al centro…
Avvampò. Edward. Nudo.
Ecco il momento giusto per
tornare dov’era. Mosse il piede indietro. Ma poi l’attore si chinò in avanti per
raccogliere la blusa scivolatagli a terra, e un brivido lunghissimo percorse la
schiena di Geoffrey fino alla nuca, dove i capelli corti fremettero e vibrarono.
La sinuosa falcata della schiena, le natiche magre, le gambe ornate dal delicato
rilievo dei muscoli… Edward si rialzò e volse il capo nella sua direzione. Il
più giovane sbarrò gli occhi.
Rimase dov’era, la tempia
appoggiata allo stipite della porta, le mani nervose contratte sulle maniche.
Edward non disse niente. Si infilò lentamente la blusa, senza staccare gli occhi
dai suoi, poi sempre in silenzio prese i calzoni e li indossò.
Geoffrey lo guardava inquieto:
il suo sguardo percorreva il corpo dell’attore su e giù, le guance in fiamme.
Terminata la vestizione,
Edward si accostò al tavolino e si lavò rapidamente la faccia, cancellando le
tracce di trucco nerastro che gli segnavano gli occhi.
Il figlio di lord Season era
tornato al suo posto.
«Geoffrey…»
Il ragazzo aveva in mano una
delle mele posate nel cesto a centro tavola.
«No!»
Lasciò ricadere il frutto come
se scottasse. «Scusa.»
Edward gli si accostò, e
d’improvviso Geoffrey si sentì la vita cinta da due braccia forti. Trasalì. «Non
sono buone, quelle» mormorò l’attore, le labbra a neanche un pollice dal suo
orecchio.
«Perché… perché mi stai
abbracciando?» soffiò il ragazzo.
«E tu perché mi stavi
guardando?»
Si sentì baciare l’angolo
della bocca e gli parve di scottare, una sensazione piacevolissima e intensa che
si estese al viso e a tutto il corpo. Ancora imprigionato nelle braccia di
Edward, si voltò per guardarlo in faccia. «Non dovremmo farlo…»
«Non sfuggirmi un’altra
volta…»
Geoffrey tentò di distogliere
lo sguardo. «Forse… era destino che accadesse…»
«Dimmi cosa devo fare per
farti innamorare di me.»
«Non lo so» rispose Geoffrey,
arrossendo. «Non ho mai fatto innamorare un uomo…»
«Hai fatto innamorare me.»
«Ma io non ho fatto niente…»
«Temo che dovrò sforzarmi più
di così per conquistarti.»
La bocca del ragazzo attaccò
la sua, con dolcezza, mentre le mani si aggrappavano alle sue spalle. Edward si
sottomise senza un pensiero, uno solo, per la mente.
«Devo tornare a casa…»
«Basta scappare» mormorò
l’attore, e l’attirò nuovamente a sé.
Geoffrey sospirò, arrendendosi
suo malgrado ad appoggiare la guancia sulla sua spalla. «Non mi interessa cosa
faccio nei tuoi sogni. Da sveglio è un’altra cosa.»
«E… cosa vuoi fare?»
Chiuse gli occhi, sorridendo
leggermente. «Ascoltarti mentre me li racconti.»
Le labbra di Geoffrey si
premurarono di strapparlo dolcemente al sonno. Edward emise un verso soffuso,
una specie di mugolio, poi lo attirò a sé alla cieca per approfondire il
contatto. Ma Geoffrey si tirò indietro, costringendo ad aprire gli occhi.
«Il vostro letto è troppo
piccolo, signor Chambers. Mi avete dormito addosso per tutta la notte.»
Sorrise contro il cuscino,
richiudendo le palpebre. «Vi rivelo un segreto, milord. Volete conoscerlo? L’ho
fatto apposta.»
«Ho mal riposto la mia
fiducia, allora.»
«A quanto pare.»
Il biondo figlio del Pari
d’Inghilterra tornò al letto, che si incurvò sotto il suo peso. «È molto tardi.
Dovrei andare a casa» mormorò, sfiorandogli i capelli.
«Il
giorno è ancora ben lungi: fu la voce dell’usignolo, non dell’allodola, che ti
ferì[3]…»
«Il tuo compagno era una
Giulietta deliziosa.»
«Io pensavo solo a te.»
Geoffrey gli baciò le labbra.
«Ci vedremo questa sera. Non voglio subire i rimproveri di mio padre.»
«Me lo prometti?»
«Te lo giuro.»
«Non reciterò, altrimenti.»
«Verrò… verrò a salvarti la
paga» ridacchiò Geoffrey, rivestendosi in fretta. Uscì dalla porta mentre ancora
Edward si riprendeva dal torpore del sonno, stordito e felice.
A stasera,
pensò l’attore, mandando un bacio alla porta.[4]
Quella sera si diede a quella
che sempre, anche dopo la sua morte, sarebbe stata ricordata come la migliore
interpretazione della sua carriera. Quando baciò Giulietta – Francis gli si tese
contro, rigido come una corda di violino, eppure al tempo stesso completamente
abbandonato – la sala non contenne gli applausi. Il nome di Hamlet risuonò forte
per il teatro, come un’invocazione. Dovettero restare così, fermi, le labbra ora
disgiunte ma vicinissime, Francis leggermente inarcato indietro e le sue mani
che lo stringevano alla vita, trattenendolo, finché non poterono tornare a
recitare.
Forse aveva esagerato, ma
Francis in quel momento – con quella riccioluta parrucca bionda e le guance
arrossate dal trucco – in quel momento per lui era Giulietta, e Giulietta era
Geoffrey, e Geoffrey… Geoffrey l’unica bocca che avesse mai voluto baciare e
l’unico corpo che avesse mai voluto far suo. Lo lasciò andare, lentamente. Il
ragazzo aveva le lacrime agli occhi.
Al termine dello spettacolo
non corse giù dal palco, ma dietro le quinte, a cambiarsi. Anche se il desiderio
di rivederlo gli martellava il petto, preferiva prima rendersi presentabile.
Incrociò Francis mentre si spogliava degli abiti di scena. Il ragazzo non lo
guardò.
Avrò tempo domani per
domandargli scusa.
Raccolse la sua roba e uscì
dalla porta secondaria.
Fuori il suo sogno biondo,
stretto nel mantello e nei guantini bianchi, gli lanciò uno sguardo e un sorriso
e si incamminò per la stessa stradina che li aveva fatti incontrare la prima
notte. Edward lo raggiunse, lo sospinse in quello stesso vicoletto buio e lo
baciò affamato, per dimostrargli che solo a lui aveva pensato e non ad altri,
no, non ad altri.
«La mia carrozza attende qui
vicino» mormorò Geoffrey, accarezzandogli il volto.
Edward gli baciò il collo. «Se
è un invito, giuro di non averne mai ricevuto uno più dolce.»
«Non è un invito, signor
Chambers, è un ordine.»
«Allora è giusto obbedire,
milord. Sono il vostro servo, portatemi dove volete.» Arricciò uno dei suoi
boccoli intorno al dito. «E fate di me quel che volete» aggiunse, sulle sue
labbra.
La prima volta quel vicolo gli
era parso oscuro, minaccioso, malfamato; ora gli sembrò caldo, perfino
accogliente. Lo baciò di nuovo, godendosi il suo abbandono fiducioso, la
morbidezza della sua carne – proprio come la ricordava, così diversa dalla
magrezza legnosa di…
La prima cosa fu il dolore.
Poi un lampo rosso gli balenò al cervello. Gli girarono gli occhi. Trattenne il
fiato, incapace di respirare. Geoffrey gridò, forse. Aveva le orecchie ovattate.
Sentì di scivolare a terra, le gambe fragili, Geoffrey… Geoffrey che non lo
sosteneva più.
Il pugnale venne estratto, con
una torsione che spalancò la ferita, mentre il sangue gli si allargava a
ventaglio tra le scapole. Gemette, cadendo. Nella penombra riuscì appena ad
appigliarsi al mantello del suo assassino, tirandolo via, scoprendogli il viso
celato dal cappuccio.
Un attimo, appena in tempo per
vedere il pugnale – quello stesso pugnale – completare l’opera immergendosi nel
petto di Geoffrey. Edward sbarrò gli occhi, il sangue alle labbra. Il peso
leggero di Geoffrey gli si accasciò addosso.
E pensò, nell’ultimo pallido
momento della sua esistenza, che era davvero una bella ironia morire così, il
suo unico amore tra le braccia, nel giorno della Nascita di Cristo. Come a dire,
esalò, che nel nuovo ciclo della Vita del Mondo non c’era posto per loro.
Il pugnale, rosso fino
all’elsa, cadde tremante sui loro corpi. «Come dice il Bardo, Edward…» mormorò
Giulietta. «“L’Amore irride solo colui che non fu mai
ferito dai suoi dardi[5].”
Tu mi hai ferito, e non fosti gentile né cortese, nel farlo. Non ti dispiaccia
se nel ripagarti mi prendo anche la tua Giulietta.»
Geoffrey si tese, nell’ultimo
spasmo d’agonia.
Sipario.
Gli applausi scrosciarono come
una pioggia. Dall’altra parte del telone rosso Edward Chambers si alzò,
spolverandosi gli abiti, e tese la mano a Lord Geoffrey Season. L’assassino,
Francis Danton, contemplò la scena con un sorriso. L’adrenalina andava scemando,
ma restava ancora la parte migliore.
Un Mercuzio-regista raccolse
gli attori in semicerchio, prima di dar ordine di tirar via il sipario. Li
presentò, uno ad uno, mentre raccoglievano i meritati applausi.
«E infine, ultimi ma non
ultimi… Geoffrey Season, Michele Rinaldi, e Edward Chambers, Renato De Luca!»
L’attore Edward, o Renato,
avvicinò amorevolmente il viso a quello di Michele. Sorrise. «Buon Natale,
Geoffrey.»
«Ehi, guarda che la recita è
finita…»
«Allora buon Natale, Michele.»
Il sipario si chiuse di gran
carriera sulle loro lingue che si intrecciavano.
~ Fine ~
[1]
Com’è noto, nel 17esimo secolo alle donne era proibito esibirsi nei teatri.
[2]
Tutti personaggi shakespeariani, rispettivamente: “Romeo e Giulietta”, “Il
mercante di Venezia”, “Sogno di una notte di mezza estate”.
[3]
Romeo e Giulietta, Act. III Sc. V.
[4]
Se vi state chiedendo se Edward e Geoffrey abbiano “consumato”, mi dispiace,
ma non lo saprete mai. Così come in Romeo e Giulietta, lo spazio è aperto a
ogni interpretazione del lettore. Se volete pensare a una casta notte
trascorsa l’uno tra le braccia dell’altro, non sarò certo io a vietarvelo…
[5]
Romeo e Giulietta, Act.
II Sc. II
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