Vodka
e ghiaccio
Erano
in pochi a conoscere l'esistenza di Blue Grado, una città
immersa
nelle nevi e nei ghiacci siberiani che, secondo la leggenda, da tempi
immemori custodiva il passaggio verso la mitica Atlantide. Forse, si
disse Camus, perché era ubicata in una regione talmente
ostile della
Siberia da far desistere anche i più incoscienti tra gli
esploratori.
Lui,
però, non era né un esploratore né,
tanto meno, un incosciente.
Era un aspirante Cavaliere di Atena, addestrato tra i venti e le nevi
di quella regione ostile e perciò abituato al freddo. Gli
era
bastato indossare una semplice giacca imbottita sopra la tenuta da
allenamento per sentirsi completamente a suo agio nella bufera che
imperversava in quel momento.
Il
vecchio abitante che lo precedeva non sembrava di molte parole e a
Camus stava bene. Non gli erano mai piaciuti i chiacchieroni. Da quel
vecchio non voleva sapere altro che l'ubicazione dell'entrata per
Atlantide, se mai esisteva. La sua mente matematica e razionale
faticava ancora a credere nell'esistenza di una dea incarnata e
cercava ancora una spiegazione logica ai poteri sovrannaturali che
aveva scoperto di possedere e che, a quanto aveva capito, erano
propri anche di altri giovani come lui. Accettare che, sotto i mari
gelidi dell'Artico, ci fosse un intero regno, però, era
troppo per
lui. Eppure il vecchio non si era scomposto alla sua richiesta di
accompagnarlo al passaggio. Si era aspettato un'occhiata stralunata o
che l'uomo gli scoppiasse a ridere in faccia dicendogli che era
vittima di uno stupido scherzo, invece aveva grugnito qualcosa di
simile a “Ti stavo aspettando” e gli aveva fatto
cenno di
seguirlo. Nei pochi minuti di passeggiata lenta e silenziosa tra le
vie di Blue Grado, la curiosità di Camus non aveva potuto
fare a
meno di crescere. Se Atlantide esisteva davvero tutto il suo mondo
razionale veniva messo in discussione e la prospettiva, in qualche
modo, lo elettrizzava.
Il
vecchio si fermò in mezzo ad una piccola piazza ricoperta di
neve,
con uno stagno ghiacciato al centro sul cui bordo di marmo stava
seduto un ragazzo, molto più imbacuccato di lui ma
apparentemente a
suo agio. Nell'attesa di chissà cosa, stava disegnando
qualcosa di
simile ad un ragno sulla neve con la punta dello stivale. Non aveva
molto di particolare, a parte un fisico visibilmente allenato, ma
Camus sentì subito che c'era qualcosa di più
sotto
quell'espressione annoiata e noncurante.
Il
vecchio si avvicinò di qualche passo al ragazzo in modo che
lo
notasse e, quando questi alzò lo sguardo, notò
subito Camus dietro
all'anziano accompagnatore.
“Ah,
finalmente sei arrivato! È parecchio che sto qui ad
aspettare”
disse in greco, con un mezzo sorriso, per poi alzarsi dal bordo della
fontana. “Allora, andiamo o aspettiamo di congelare
tutti?”
Andiamo?
pensò
Camus. Quindi anche lui
doveva raggiungere Atlantide? Per fare cosa?
“Scusa,
tu vieni con
noi?” gli domandò nella stessa lingua, allora,
Camus, non celando
un certo disprezzo.
“Già,
ce ne andiamo
tutti insieme ad Atlantide, contento?” rispose l'altro
allegramente
e apparentemente non toccato dallo sdegno di Camus.
“E
cosa ci devi fare ad
Atlantide, ammesso che esista?” continuò Camus.
“Esiste”
bofonchiò
il vecchio, ma nessuno gli badò.
“A
quanto pare la mia
armatura d'oro è lì sotto e devo
recuperarla” ribattè di nuovo
il ragazzo, con una noncurante alzata di spalle.
“No,
ci deve essere un
errore” affermò sicuro Camus, scuotendo la testa.
L'altro si
accigliò.
“Perché?”
“Perché
anche io devo
recuperare la mia armatura d'oro là sotto”
Il
ragazzo contorse il
volto in un'espressione addolorata. “Beh, questo è
un problema”
“Avete
finito? Non ho
tutto il giorno” li interruppe il vecchio, per poi proseguire
verso
la loro meta senza attendere alcuna risposta.
Camus
lo seguì a ruota, non senza aver lanciato un'occhiata torva
all'altro ragazzo, che andò a chiudere la fila poco dopo.
Proseguirono in silenzio, ma la mente di Camus lavorava a pieno
ritmo. Chi era quel ragazzo? Un altro aspirante Cavaliere d'Oro? Era
lì perché era l'ultimo ostacolo da superare per
la conquista
dell'armatura? Perché non era stato informato di nulla?
Quando
la scogliera si
delineò davanti a lui, Camus si impose la calma. Se al
Santuario
volevano che prevalesse su quell'estraneo, così sarebbe
stato.
Sarebbe diventato ciò per cui era stato addestrato a
qualunque
costo.
“Quello
è il
passaggio” indicò loro il vecchio, riferendosi ad
un promontorio
ghiacciato che sporgeva sul mare più del resto della
scogliera. I
due ragazzi si avvicinarono per andare ad osservare l'inquietante
vortice d'acqua che si apriva sotto i loro occhi.
“Giusto
per facilitarci
il lavoro, eh amico?” commentò l'altro,
guadagnandosi
un'occhiataccia da Camus. Questi non perse tempo in chiacchiere e si
tuffò senza timore nel vortice.
L'acqua
gelida lo
sommerse in un istante, mozzandogli il respiro. Nuotare non serviva a
niente, la corrente del mare era troppo forte per poterla
contrastare, inoltre gli sembrò saggio risparmiare le forze
per
recuperare, poi, l'armatura. L'impatto col fondo del mare fu
più
duro del previsto e gli procurò due o tre serie ammaccature
e
qualche graffio. Era atterrato in una zona completamente asciutta del
fondo del mare, con le acque che lo sovrastavano come un'immensa
volta celeste in tumulto.
Era
zuppo ed
infreddolito, ma il clima in quel luogo incredibile era mite e
piacevole. Si alzò in piedi per iniziare l'esplorazione del
fondale,
ma non ebbe il tempo di fare un passo che venne travolto in pieno da
qualcosa, o meglio qualcuno.
“Ouch!
Scusa, amico!”
disse subito l'altro ragazzo, dopo che ebbe realizzato su chi era
atterrato.
Camus
se lo scostò in
malo modo di dosso e si rialzò per guardarlo dall'alto in
basso,
severo.
“Chiariamo
una cosa:
io-non-sono-tuo-amico” scandì il francese, per poi
voltargli le
spalle.
“Guarda
che la capisco
benissimo la mia lingua madre! Non c'è bisogno di fare lo
spelling”
gli urlò dietro il ragazzo, prima di seguirlo a breve
distanza.
Camus
dimenticò in
fretta la presenza del suo inaspettato compagno, totalmente rapito
dal panorama che gli si presentò davanti agli occhi. Mentre
osservava l'immensità del mare sopra di lui, si
sentì piccolo e
insignificante, una formica al cospetto dell'universo. Non fosse
stato per quella distesa azzurra, il resto del paesaggio
rassomigliava molto ad altri della terraferma, con alture e valli,
colline e prati. Conchiglie e coralli prendevano il posto di fiori e
arbusti e lo accompagnarono nell'esplorazione di quel luogo magico
che stava mettendo a dura prova la sua razionalità. Quali
leggi
fisiche potevano permettere l'esistenza di un posto simile in fondo
al mare? Chi erano gli uomini straordinari che erano riusciti a
compiere quel miracolo dell'ingegneria, se mai di questo si trattava?
“Accidenti,
questo
posto è da paura!” esclamò la voce
allegra del ragazzo alle sue
spalle, risvegliandolo dai suoi quesiti. “Ma hai visto che
roba,
amico? Ah giusto, io-non-sono-tuo-amico”
Il
greco si affiancò a
Camus, che si era fermato su uno spiazzo ad osservare tutt'attorno.
Questi cercò di ignorarlo, cosa che si rivelò
subito un'impresa
ardua.
“Che
razza di posto è?
Quando mi hanno detto che dovevo andare ad Atlantide, dopo essere
scoppiato a ridere, mi ero immaginato qualcosa tipo il Santuario, ma
di sicuro non questo... insomma, sembra di stare dentro un
acquario”
“Ma
tu parli sempre
così tanto?” gli domandò Camus alla
fine di quel monologo,
esasperato.
“Solo
con la gente che
mi stimola. Dovresti sentirti onorato”
“Onoratissimo”
precisò Camus, del tutto privo di entusiasmo.
Il
francese riprese la
marcia, nella speranza di scongiurare una ripresa della conversazione
da parte dell'altro ragazzo. Questi rimase leggermente indietro a
bofonchiare tra sé e sé, ma fu più
semplice per Camus ignorarlo.
Passato
lo stupore, il
giovane guerriero iniziò a pensare ad una soluzione per il
grosse
problema che gli si presentava davanti: trovare l'armatura
dell'Acquario in mezzo a quella vastità prima del greco. Il
suo
compagno di viaggio accorse inconsapevolmente in suo aiuto.
“Cavolo!
Quella non è
roba che si vede tutti i giorni. Guarda un po' anche tu,
non-amico”
Camus
lo accontentò solo
nella speranza che poi sarebbe stato definitivamente alla larga da
lui, ma dovette incredibilmente dargli ragione.
Alla
loro destra, non
molto lontano, si ergeva una struttura di ghiaccio tanto imponente
che sembrava toccare la volta marina. Spuntoni e artigli circondavano
quella che sembrava la parte centrale, un'alta torre ghiacciata che
riverberava alla luce flebile del sole che arrivava là sotto
a
stento.
Un
brivido caldo percorse
il corpo di Camus e una strana sensazione lo permeò, come se
quel
luogo lo stesse richiamando. Sentì il suo cosmo rispondere
al
richiamo accendendosi e circondandolo con quell'aura dorata che ormai
conosceva bene e che, anni prima, gli aveva rivelato la sua vera
natura.
Subito
percepì anche un
altro cosmo, di intensità pari alla sua e molto vicino.
Scoprì con
stupore che apparteneva al ragazzo che era sceso lì con lui
e che,
in quel momento, si stava incamminando verso la struttura di
ghiaccio.
Era
l'ennesima prova che
anche quel greco era un potenziale Cavaliere d'Oro, e quindi un
concorrente per quell'armatura che, forse, era celata sotto quei
ghiacci eterni. Tuttavia Camus era abituato a non fallire e non aveva
intenzione di farlo in quell'occasione. Si affrettò a
raggiungere
l'altro ragazzo e a superarlo, finché non si
ritrovò a correre tra
scogli e coralli, fermamente intenzionato ad arrivare primo.
Arrestò
la sua corsa a meno di un metro di distanza da uno degli spuntoni di
ghiaccio che contornavano la torre, ad occhio e croce il più
imponente.
La
sensazione di richiamo
si era fatta più insistente e gli martellava in testa quasi
fino a
fare male. Era segno che la sua intuizione riguardo l'ubicazione
dell'armatura era giusta.
Senza
staccare gli occhi
dall'imponente formazione, sentì i passi dell'altro ragazzo
avvicinarsi. Gli sembrò stranamente silenzioso, ma non
tentò
minimamente di riaccendere la conversazione.
Quando,
però, il greco
emise un'esclamazione di dolore, si voltò d'istinto verso di
lui.
“Ahi!
Ma che
diavolo...?” il ragazzo infilò una mano nella
tasca del giubbotto
per estrarne quella che, probabilmente, era la causa del suo dolore.
Dopo aver tirato fuori la mano dalla tasca, lasciò cadere
ciò che
ne aveva estratto e iniziò a scuotere la mano, come se si
fosse
scottato.
Camus
rivolse
l'attenzione all'oggetto a terra. Sembrava un aculeo, aveva un
intenso colore rosso e, a giudicare dal vapore che emanava, doveva
essere incandescente.
“Che
cos'è?” domandò
Camus, spinto dalla curiosità.
“Non
ne ho idea, non
sapevo nemmeno di averlo in tasca” rispose il compagno,
allarmato.
“Certo, somiglia molto al mio”
“Al
tuo?”
Il
ragazzo mostrò
l'indice della mano destra a Camus, che vide l'unghia tingersi
rapidamente di rosso e crescere fino a farsi lunga e appuntita quasi
quanto l'aculeo a terra. Non aveva mai visto niente del genere in
vita sua e, stando a quanto gli avevano detto riguardo al custode
della Casa dell'Acquario, quell'aculeo non c'entrava niente con le
energie fredde che il Cavaliere dell'Undicesima presiedeva. La
domanda che pose subito dopo quelle riflessioni al ragazzo di fronte
a lui gli sorse spontanea.
“Ma
tu chi sei?”
Il
greco non fece però
in tempo a rispondere, perché l'aculeo ai suoi piedi prese a
vibrare
e ad illuminarsi da tanto era incandescente. Come l'ago di una
bussola, poi, puntò verso la struttura di ghiaccio e vi
penetrò
alla velocità di un proiettile, lasciandosi dietro un
sottile foro.
I
due ragazzi rimasero a
fissare il punto d'entrata dell'aculeo, all'erta e in silenzio
totale, per poter così percepire anche il più
minimo rumore.
Tutto
iniziò con un
sottile sibilo che fuoriusciva dal foro e che crebbe fino a diventare
un fischio fastidioso, quindi una fragorosa esplosione di ghiaccio.
Vennero
sbalzati entrambi
indietro dalla detonazione. Camus si rimise subito in piedi, per
trovarsi faccia a faccia con la cosa più mostruosa che
avesse mai
visto. L'enorme bestia aveva due buchi dorati al posto degli occhi,
contornati da un corpo sottile e triangolare fatto di un turbine di
roccia, acqua e frammenti di ghiaccio. Sei zampe spuntavano dai lati
del corpo, precedute da un paio di enormi chele che la bestia
sollevò, insieme alla sua vera arma. Dal fondo della coda
segmentata
spuntava un aculeo rosso, lo stesso che il greco si era trovato in
tasca, solo cinque volte più grande.
“Ciao,
bellezza”
ghignò il ragazzo, prima di accendere il suo cosmo e
sfoderare il
suo aculeo rosso. Camus se lo vide sfrecciare davanti agli occhi e
saltare agilmente sull'enorme scorpione urlando qualcosa di
incomprensibile. Tre luci rosse andarono a colpire l'animale, che
subito emise un verso stridulo e prese a contorcersi per disarcionare
il suo avversario, il quale era riuscito a montarlo, seppur con
qualche difficoltà. Le chele dello scorpione tentarono di
afferrare
il greco, ma questi riuscì sempre ad evitarle, portando la
bestia a
colpire se stessa.
Camus
era rimasto a terra
ad osservare, impressionato e intimorito allo stesso tempo, il duro
scontro tra i due, finché l'altro ragazzo non lo
richiamò
all'attenzione.
“Datti
una mossa! Vai a
prendere l'armatura!” riuscì infatti ad urlare,
tra un assalto e
l'altro dell'enorme aracnide.
Camus
si ridestò e portò
l'attenzione dietro lo scorpione. L'esplosione aveva aperto un
passaggio nel ghiaccio abbastanza largo da permettergli di passare.
Lanciato un ultimo sguardo allo scontro, prese a correre verso la
galleria, ripromettendosi che sarebbe tornato in aiuto del compagno
di viaggio, una volta recuperata l'armatura, come l'etica dei
Cavalieri di Atena comandava.
La
galleria d'entrata
continuava in un sistema di cunicoli di ghiaccio naturali che,
dedusse Camus, doveva attraversare tutta la struttura. L'atmosfera
surreale che quell'ambiente creava lo rapì subito,
portandolo ad
arrestare la sua corsa per guardarsi intorno. Intrappolati tra i
ghiacci c'erano gli oggetti e gli animali più disparati. Il
guerriero riconobbe frammenti di un tempio greco, un triglifo che
raffigurava quello che sembrava un tridente, il pezzo di un capitello
e molto altro, tra cui pesci, coralli e conchiglie. Sembrava quasi
che il ghiaccio avesse travolto tutto, senza dare scampo a nessuno,
intrappolando nella sua fredda morsa l'immagine della distruzione che
aveva causato, per sempre.
Camus
procedette in quel
labirinto ghiacciato seguendo solo i suoi piedi, che sembravano
conoscere perfettamente la strada, al contrario di lui. Man mano che
procedeva una forte malinconia si faceva strada dentro al suo cuore,
una strana sensazione di ricordi lontani e destini sbagliati.
La
mano scorreva sulla
parete trasparente, permettendogli di percepire la storia che quelle
pareti raccontavano e di dare un senso a quella marea di sentimenti
che l'aveva invaso e che aveva sottomesso con forza la sua stoica
razionalità.
Quando
giunse al cuore
pulsante di tutto il complesso, la malinconia dentro di lui ebbe
infine un volto, anzi due. L'immagine che gli si presentò
davanti
era degna di un'opera d'arte del Louvre, una bellezza neoclassica
mischiata con un tocco di impressionismo dato dal ghiaccio che
circondava le due figure.
Venne
immediatamente
rapito dallo splendore della donna, una giovane ragazza dalla pelle
candida, priva di abiti e circondata da una corona di capelli quasi
bianchi e fini. Sorrideva fiduciosa al ragazzo poco sotto di lei,
tanto da lasciarsi accarezzare il volto da lui.
Fu
quando posò lo
sguardo sul ragazzo che il cuore di Camus perse un battito. Era
giovane e bello anch'egli, ma non era quella la cosa importante,
quanto l'armatura dorata che gli copriva il corpo.
Camus
la riconobbe
istintivamente. Era l'armatura dell'Acquario. La sua armatura. Come
poco prima, posò la mano sul ghiaccio che lo divideva dal
suo
obiettivo e subito il suo cosmo rispose, accendendosi e pulsando al
ritmo del suo cuore. L'aura dorata intorno alla sua mano
riuscì a
penetrare il feretro e a raggiungere l'armatura, che entrò
in
risonanza col suo cosmo.
In
questo modo, Camus
riuscì ad entrare in contatto con quella che
pensò fosse l'anima
dell'armatura, che gli confermò quanto aveva percepito lungo
il suo
percorso. La storia dei due ragazzi davanti a lui era triste e
segnata dai tradimenti, ma aveva avuto il suo lieto fine in quella
tomba di ghiaccio che aveva reso immortale i loro giovani volti e
l'affetto evidente che li legava l'uno all'altra.
Seraphina,
non sarai più sola...
La
frase gli rimbombò
nella testa come un'eco lontana nel tempo ma vicina e penetrante.
“...D'ora
in poi io
veglierò assieme a te...” concluse Camus in un
sussurro, volgendo
lo sguardo verso il volto di porcellana di Seraphina.
Lo
fissò per istanti
interminabili, finché gli occhi socchiusi della ragazza non
si
spalancarono all'improvviso. Camus sobbalzò per la sorpresa
e
indietreggiò, mettendosi in guardia. Il feretro di ghiaccio
prese ad
incrinarsi pian piano e a vibrare, come poco prima aveva fatto
l'aculeo dello scorpione. Prevedendo l'esplosione, il francese si
nascose in uno dei tanti cunicoli che conducevano a quel santuario,
trovando riparo dalle schegge di ghiaccio appena in tempo. Un stridio
acuto riecheggiò per tutte le gallerie, abbattendo le pareti
più
sottili di alcune di esse, tra cui quella che aveva riparato Camus.
Il ragazzo potè allora vedere coi suoi occhi cosa aveva
provocato
quello sfacelo.
La
figura angelica di
Seraphina aveva lasciato il posto alla versione mostruosa di lei,
fatta degli stessi materiali dello scorpione di poco prima e
altrettanto spaventosa. Per Camus fu subito chiaro che quell'essere
era il suo ultimo ostacolo nel cammino verso la conquista
dell'armatura.
La
donna puntò gli occhi
dorati sulla sua preda e passò all'attacco, allungando una
mano ad
artiglio per afferrare Camus. Questi la evitò con
agilità, ma venne
afferrato dall'altra mano e sbattuto contro la volta di ghiaccio, che
si incrinò all'impatto con la sua schiena.
Il
guerriero accese il
suo cosmo nuovamente e lanciò la Diamond Dust direttamente
sul viso
di Seraphina, che lasciò la presa su di lui per coprirsi il
volto.
Memore dei suoi combattimenti contro gli orsi polari durante il suo
addestramento in Siberia, Camus si lanciò verso le gambe
della
gigantesca donna, ma venne nuovamente intercettato ed imprigionato a
terra dalla sua mano. Le lunghe dita, poi, gli circondarono il corpo
in una morsa soffocante e la vista gli si annebbiò.
Seraphina se lo
portò davanti al viso deforme e spalancò la
bocca, da cui fuoriuscì
un soffio gelido di morte. Camus, sempre più vicino alla
voragine,
approfittò di un momento di lucidità per
individuare una stalattite
che spuntava dalla mano del mostro, strapparla via con tutte le sue
forze e piantargliela nel palato roccioso poco prima che Seraphina
chiudesse le fauci intorno a lui. La creatura lasciò di
nuovo la
presa con lo stesso urlo stridulo di poco prima.
Camus
cadde a terra e vi
rimase in preda ad una fame d'aria mai provata. Quando ebbe
riacquistato un minimo di respiro, tornò in piedi e
ritentò
l'assalto alle gambe di Seraphina, ma dovette bloccarsi poco dopo.
Mentre
si contorceva dal
dolore, la gigantesca donna aveva inarcato la schiena mettendo in
vista ciò che nascondeva dentro il petto. L'armatura
dell'Acquario
era custodita all'altezza del cuore, circondata da un bozzolo d'oro e
ancora pulsante e luminosa. Sembrava quasi che lei stessa stesse
dando vita a quel mostro apparentemente imbattibile. La sfida
consisteva quindi nello sconfiggere il suo stesso obiettivo, dedusse
Camus con un sorriso. In parole povere, l'armatura voleva che
superasse se stesso.
Camus
si raddrizzò e
chiuse gli occhi, alla ricerca della parte più intima del
suo cosmo,
di quella scintilla che lo avrebbe fatto bruciare fino all'estremo.
Caduto
in una profonda
concentrazione, non vide che Seraphina aveva smesso di lamentarsi e
che lo stava fissando minacciosa, né la guardò
mentre caricava il
braccio per afferrarlo nuovamente.
Camus
evitò l'enorme
mano solo quando questa era arrivata a pochi centimetri dalla sua
testa. Le dita di pietra lo sfiorarono, il polso gli diede l'appoggio
per spiccare il primo salto, l'altra mano, che cercava febbrilmente
di prenderlo mentre era in aria, quello per il secondo e ultimo. Il
mostro davanti a lui si risollevò e allargò le
braccia, pronto a
schiacciarlo come una zanzara tra i due palmi. Camus si
ritrovò
davanti il cuore completamente scoperto, si mise in posizione e
lanciò l'Aurora Execution contro la sua armatura. Il colpo
passò il
torace di Seraphina da parte a parte. L'aura dorata che scorreva
dentro al mostro venne via via meno e di lui non rimase che un cumulo
informe di pietra e ghiaccio.
Quando
Camus atterrò
sopra le macerie, faticò a riconoscere il suo stesso corpo.
Un
attimo prima aveva indosso pochi indumenti laceri e impregnati di
sudore. Ora era quasi completamente ricoperto da quella stessa
armatura contro cui aveva rivolto il suo colpo più potente.
Le
vestigia dell'Acquario
erano calde e leggere. Gli sembrava quasi di avere addosso una
seconda pelle. L'avevano messo alla prova, lui l'aveva superata e
l'avevano accettato come loro nuovo possessore. Ce l'aveva fatta. Era
un Cavaliere d'Oro, nonostante il mostro di pietra e ghiaccio e quel
fastidioso ragazzo greco.
Non
appena si ricordò di
aver lasciato l'altro nei guai, si lanciò di corsa lungo
quel che
restava dei cunicoli di ghiaccio. Accese il cosmo e lo sentì
molto
più potente di prima, ora che aveva un'armatura in grado di
amplificarlo.
Quando,
finalmente, sbucò
fuori dall'ultima galleria, trovò uno spiazzo deserto ad
attenderlo.
Del greco e del suo mostruoso avversario non v'era traccia
all'orizzonte. Si sorprese quando l'istinto lo portò ad
escludere
l'ipotesi peggiore e lo incitò ad andare alla ricerca del
compagno
di viaggio, ma dopo pochi passi una voce sfacciata alle sue spalle
cancellò dalla sua mente ogni buon proposito.
“Alleluia!
È parecchio
che ti aspetto. Cominciavo a credere di dover venire in tuo
soccorso”
Il
greco era stravaccato
sopra la galleria da cui Camus era venuto, col solito sorriso furbo
in volto e un'armatura d'oro che, similmente a quella dell'Acquario,
gli copriva buona parte del corpo.
Stanco
del suo sarcasmo,
il neo-Cavaliere decise di rispondergli a tono.
“Veramente
ero io che
stavo venendo in tuo aiuto, visto che mi sembravi non poco in
difficoltà, prima”
“In
difficoltà? Io? Ho
sistemato quell'insetto non appena hai voltato le spalle. Tu,
piuttosto, con chi hai avuto a che fare? Ci hai messo così
tanto che
stavo per diventare vecchio”
“Una
donna” rispose
secco Camus, meravigliandosi poi quando vide che erano bastate quelle
due parole ad ammutolirlo.
“Una...donna?
Stai
scherzando” affermò il greco, dopo essersi messo a
sedere con le
gambe penzoloni.
“Affatto”
lo
contraddisse Camus. “Era una donna gigantesca
e...nuda”
L'altro
ragazzo lo guardò
con tanto d'occhi e la bocca spalancata.
“Bah!”
sbottò poi,
contrariato. “Sempre agli altri capitano le fortune”
Tornò
a terra con un
balzo e si avvicinò a Camus con uno sguardo serio stampato
in
faccia.
“Mi
hai fatto una
domanda, poco fa, se non sbaglio” gli disse, dopo qualche
istante,
con voce bassa e cupa.
“Davvero?
Quale
domanda?” ribatté lui a tono e senza abbassare lo
sguardo.
Il
greco rise, quindi
tese la mano verso Camus.
“Mi
chiamo Milo,
Cavaliere d'Oro dello Scorpione” si presentò il
ragazzo.
Camus
annuì e sorrise a
sua volta, quindi ricambiò la stretta. “Camus,
Cavaliere d'Oro
dell'Acquario. Non saremo vicini di casa, per mia fortuna”
“Non
sai cosa ti perdi,
ghiacciolino”
Il
vecchio Unity porse i
due bicchieri colmi di vodka e ghiaccio al giovane Cavaliere greco
che attendeva al bancone e, mentre lo osservava sedersi di fronte al
nuovo amico, si disse che era valsa la pena vivere oltre duecento
anni solo per la scena che aveva di fronte. I due ragazzi
somigliavano ai loro predecessori in maniera impressionante, sia
nell'aspetto che nel carattere. Se, infatti, il Cavaliere dello
Scorpione era solare e bonario, al contrario quello dell'Acquario era
freddo e composto. Proprio per questo si miscelavano bene, come il
vodka con ghiaccio che si stavano accingendo a bere.
Unity
doveva
quell'innaturale lunga vita al suo breve passato di Generale degli
Abissi, di cui non andava fiero, ma che gli aveva permesso di fare da
guida ai due ragazzi lungo la strada verso il loro destino. Era stato
lui a mettere l'aculeo di Cardia nella tasca della giacca di Milo,
come suggeritogli da un intuito che sapeva non essere suo,
bensì di
quella dea che aveva perdonato tutti i suoi peccati molti decenni
addietro. Non osò, tuttavia, prendersi il merito della
riuscita
della missione dei due giovani. La sua non era stata altro che una
comparsa, loro erano stati i veri attori, nella profondità
di
Atlantide, contro quelle forze misteriose che, da quel giorno in poi,
avrebbero accompagnato le loro esistenze.
In
quel momento, però,
posati gli scrigni d'oro in un angolo nascosto che Unity stesso aveva
indicato loro, Camus e Milo erano solo due ragazzi che stavano
scoprendo di poter essere amici, a dispetto della diffidenza iniziale
del primo.
Doveva
essere stato così
anche per Degel, pensò il vecchio locandiere, la prima volta
che
aveva incontrato Cardia e il suo cuore impaziente di ardere.
Lanciò
uno sguardo ad un vecchio disegno che aveva avuto l'accortezza di
incorniciare tanto tempo prima e che ritraeva tre ragazzi, poco
più
che bambini, sorridenti. Lui il sorriso dell'infanzia l'aveva perso
precocemente, insieme alla sorella che, in quel ritratto, gli stava
accanto. Il suo amico Degel, invece, era morto sorridendole come
Unity aveva mancato di fare.
“Un
altro giro, per
favore” gli ordinò Camus, nell'eco di una risata
suscitata
probabilmente da una battuta di Milo.
“Non
sei un po' giovane
per la vodka liscia?” gli domandò Unity, burbero.
“Domani
sarò in un
posto dove queste cose sono proibite” gli spiegò
il Cavaliere, già
leggermente alticcio. “Fammi godere questi ultimi momenti da
uomo
normale”
Unity
piegò l'angolo
della bocca in un mezzo sorriso e preparò l'ordine. Quando
lo
consegnò a Camus, lo vide che fissava il disegno nella
cornice,
assorto.
“...Seraphina...”
sussurrò, quasi fosse in trance.
“Come?”
gli chiese
Unity, anche se aveva capito benissimo.
Camus
parve risvegliarsi,
lanciò uno sguardo imbarazzato al vecchio,
farfugliò un rapido
“Niente” e tornò al tavolo coi
bicchieri, tra le grida di
giubilo di Milo.
Unity
sorrise. Alla fine,
quindi, anche il nuovo Aquarius aveva avuto a che fare con sua
sorella. Se, duecento anni fa, ne aveva causato la caduta, quel
giorno doveva essere intervenuta nella sua rinascita. Era un pensiero
tanto sentimentale da risultare persino irreale, ma a Unity piaceva,
perché sapeva che era nell'indole di Seraphina fare cose del
genere,
anche se era scomparsa troppi anni addietro.
Si
versò anch'egli
un'abbondante dose di vodka in un bicchiere di ghiaccio e bevve alla
salute di quei due giovani, al ricordo di Seraphina e alla sua vita
che poteva, ormai, volgere al termine.
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Camus e Milo © Masami Kurumada
Unity, Seraphina, Cardia e
Dègel © Shiori Teshirogi
Dunque, questa One Shot è
nata da una domanda sortami dal nulla: se Cardia e Dègel
sono caduti ad Atlantide, che Aquarius ha visto bene di congelare, come
hanno fatto i loro successori ad ottenere le armature? Come risposta
è uscita fuori questa fic, che vuole provare ad immaginare
un possibile ed assolutamente non pretenzioso primo incontro tra Camus
e Milo. Con questi spero di essere rimasta IC (hanno tra i 14 e i 16
anni), metterò comunque l'indicazione OOC per precauzione.
Non ho dato molto spazio alla parte più d'azione della
storia per mancanza di ispirazione e perchè non volevo
dilungarmi e rendere noiosa la lettura (poi magari ho ottenuto
l'effetto contrario, ma spero di no).
Per quanto riguarda gli altri
personaggi, mentre Seraphina era contemplata già
dall'inizio, Unity è stata un'idea venuta lungo il percorso,
ma, come la mia beta Violet Aquarius - che ringrazio - mi ha fatto
notare, potrebbe essermi sfuggito, durante la lettura del Canvas, il
dettaglio della sua morte. Ad ogni modo, essendo che mi piace la sua
partecipazione alla storia, mi cautelo con un AU che, spero, non mi
faccia guadagnare le ire altrui (come anche la storia in generale) :)
Spero quindi che vi piaccia (nel caso
fatemelo sapere e non siate clementi) e se volete lasciare un commento,
è ben gradito :)
Martyx
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